DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Mentre i mezzi di comunicazione, sempre meno capaci di vedere al di là dell’“ultim’ora”, esultano per la “robusta ripresa americana” (“L’America sorprende il mondo”, titolava il Corriere della Sera del 24/12: ma, si sa, il clima era natalizio…), grosse bolle minacciose – per il Capitale – si gonfiano all’orizzonte. Non parliamo solo di quelle economico-finanziarie, cui stiamo dedicando tanta attenzione nella serie di articoli su “Corso del capitalismo mondiale e crisi”. Parliamo di quelle “bolle sociali”, forse meno visibili nell’immediato (se non per certi aspetti drammatici su cui è inevitabile che insista il sensazionalismo mediatico), ma gravide di implicazioni future.

Se vogliamo comprendere le condizioni in cui vive e lavora, o sopravvive e non lavora, il proletariato statunitense (e dunque cogliere, nelle contraddizioni di continuo generate dal Capitale, le prospettive di una “robusta ripresa classista”!), dobbiamo far riferimento ai suoi settori più oppressi dal punto di vista socio-economico, che sono poi anche quelli numericamente maggioritari: i proletari afro-americani e immigrati. A pochi mesi dai “fatti di Ferguson” [1], il controllo militare del territorio (leggi: il grilletto facile della polizia) ha continuato a mietere vittime: un giovane nero di Brooklyn (New York) ucciso mentre si trovava sulle scale di casa della fidanzata, un dodicenne nero di Cleveland colpito a morte perché agitava una pistola giocattolo, un altro giovane nero ucciso perché non obbediva all’ordine di un agente... L’impressionante sequenza di omicidi a sangue freddo perpetrati dalle “forze dell’ordine” in giro per gli Stati Uniti e i conseguenti “non luogo a procedere” nei confronti degli assassini in divisa hanno dato origine a giorni e notti di rabbia e indignazione, di manifestazioni e scontri con polizia e Guardia Nazionale – pallide reazioni, in verità, se confrontate a quanto succedeva negli anni ’60 (ma anche ’70 e ’80) del ‘900, quando i ghetti esplodevano a ripetizione da un capo all’altro del Paese: ma che dimostrano in maniera tragica e lampante che la “questione” è tutt’ora aperta.

“Questione di razza”? No, questione di classe. Il Capitale s’è sempre accanito contro settori specifici del proletariato, facendo ricorso alla strategia del divide et impera. Nell’800, gli irlandesi erano i “neri bianchi” del Capitale britannico, esattamente come lo erano gli indiani o i pakistani; e il Capitale statunitense ha sempre saputo, con grande e spietata abilità, mettere gli uni contro gli altri settori diversi dell’enorme serbatoio di manodopera a sua disposizione: anglo-americani contro tedeschi, irlandesi o cinesi, italiani contro neri, proletari indigeni contro proletari immigrati, e via di seguito (d’altra parte, sappiamo bene come gli “italiani brava gente” – e fra questi, purtroppo, non pochi proletari – si comportino oggi nei confronti degli immigrati… ).

Si tratta di un segnale che non va sottovalutato e che contiene numerose implicazioni diverse. Se sappiamo leggerlo per l’appunto al di là del fatto specifico o dell’“ultima ora”, esso ci dice che un disagio profondo sta gonfiandosi nel ventre dell’America e che la classe dominante reagisce a esso nell’unico modo in cui sa e può reagire: con la repressione statale. Non c’interessa entrare nel merito delle dinamiche di questi omicidi, delle situazioni specifiche in cui sono stati commessi: certo è che, se, in certi casi, giovani inermi arrivano a reagire a muso duro o in maniera anche sprezzante alle intimidazioni poliziesche (o se, dopo tutte queste uccisioni, un altro giovane nero decide di “farsi giustizia da sé” nel classico modo americano, uccidendo due poliziotti e poi rivolgendo la pistola contro se stesso), vuol dire che il senso di oppressione e di frustrazione, di esasperazione e di rabbia nelle comunità proletarie e sottoproletarie afroamericane e immigrate sta toccando livelli impressionanti. E non sorprendenti. La “robusta ripresa americana” (una delle tante che si sono susseguite nei decenni, accompagnate poi da altrettanti tonfi catastrofici) può solo toccare e illudere esili strati della popolazione: non certo quella stragrande maggioranza composta da proletari, afro-americani e latino-americani, che si situano ai livelli più bassi della cosiddetta “scala sociale” – una scala sociale via via più affollata nei suoi gradini inferiori per l’ulteriore afflusso incontenibile di membri di una classe media sempre più tartassata e impoverita, destinati a scivolar giù, nell’abisso sociale. Lo stesso tanto decantato calo del tasso di disoccupazione (che, secondo cifre ufficiali, sarebbe ora al 5,8%) cela il fatto nudo e crudo che un numero crescente di persone, scoraggiate e rassegnate, molto semplicemente non s’iscrive più alle liste di disoccupati in cerca di occupazione e che gran parte dei “nuovi lavori” che incidono su quel calo sono in realtà ultra-precari, a tempo parziale, stagionali, ecc. (oltre che sottopagati). Inoltre, non va dimenticato, come abbiamo già avuto modo di mostrare [2], che il mercato del non-lavoro USA contiene anche “circa 7 milioni di persone in galera o con qualche restrizione alla libertà di movimento e che non possono quindi lavorare” [3].

Non c’è dubbio che il Capitale USA continui a occupare le prime posizioni sullo scenario mondiale. Ma il suo declino è evidente: lo si può leggere in maniera limpidissima nei dati dell’economia, nei grafici e nelle tabelle, e nelle analisi che stiamo conducendo da decenni. Non sorprende dunque che, al di là dell’ottimismo di facciata a uso e consumo politico-elettorale e degli articoletti celebrativi sugli splendenti quartieri alto-borghesi di questa o quella città, queste “bolle sociali” si vadano gonfiando giorno dopo giorno, nei ghetti in rovina delle metropoli come nella provincia dissestata. E prima o poi esploderanno con fragore. Proprio a questo, con la lungimiranza che le deriva da un’esperienza plurisecolare, la classe dominante si prepara affidandosi allo Stato, suo braccio armato oltre che economico-finanziario. La militarizzazione della società è un dato di fatto sempre più evidente: significa controllo poliziesco del territorio con i più diversi pretesti (specie quelli di forte impatto emotivo: la lotta alla droga, alla criminalità, all’illegalità), pressione crescente sulle comunità marginali o immigrate, criminalizzazione di ampi strati giovanili, espulsione di abusivi, senzatetto, mendicanti da interi quartieri “scelti” dalla speculazione edilizia e dunque da “bonificare” – e shoot to kill, licenza d’uccidere. A fronte di ciò, le polemiche fra corpo di polizia e sindaco di New York (con il primo che si lamenta d’essere troppo… criticato e il secondo che deve fare i salti mortali per prendere le parti… di tutti) sono solo miserabile demagogia. L’ordine esecutivo è: esercitare tutto il controllo e tutta la pressione possibili.

D’altra parte, le “forze dell’ordine” statunitensi si sono via via ristrutturate in senso per l’appunto sempre più militare, secondo un modello in chiara via di globalizzazione [4]. L’interscambio fra esercito e “forze dell’ordine” si fa cioè sempre più stretto: militari addestrati al controllo del territorio sui vari fronti di guerra, con specifiche competenze anti-guerriglia, vengono ingaggiati dalle varie polizie nazionali proprio per queste loro competenze, per questa loro “esperienza” e  “formazione sul campo”. Plasmati fisicamente, psicologicamente, ideologicamente per eliminare il “nemico” in terre lontane, essi portano questa loro “identità” dentro scenari domestici: la classe dominante sa bene che la guerra non è solo quella che si combatte su fronti a migliaia di miglia di distanza – la guerra è anche qui, si prepara nelle strade e nelle piazze patrie. E’ la guerra di classe, che serpeggia senza sosta, giorno dopo giorno, come portato inevitabile del conflitto fra Capitale e Lavoro, prima di esplodere con violenza inevitabile. Proletari, attenti! La classe dominante si prepara e si organizza. E così facendo ci indica la via.

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C’è poi un altro ordine esecutivo da prendere in considerazione: ovvero, altri inganni, soprattutto per i proletari immigrati. Salutato da tutti i gonzi del mondo come un'ennesima prova del “progressismo democratico” di Barak Obama, l'Executive Order sull’immigrazione emanato il 20 novembre u. s. non è altro che uno dei periodici aggiustamenti legislativi che le dinamiche del Capitale impongono in materia di mercato del lavoro – e uno dei più cinici, se vogliamo usare un termine moralistico che in verità non ci appartiene. Alla “Riforma dell’immigrazione”, cui da tempo sta lavorando un gruppo bi-partisan, abbiamo già dedicato un ampio articolo [5], in cui si ripercorrono anche le alterne vicende dei vari interventi in materia susseguitisi nel corso di più di un secolo: dal Chinese Exclusion Act del 1882 fino alle più recenti “riforme” del 1986, del 1990 e del 1996, atte, come scrivevamo in quell’articolo, “a modulare il flusso migratorio a seconda degli alti e bassi della crisi di sovrapproduzione di merci e capitali in cui siamo immersi ormai da tre decenni”. Analizzando le linee di tendenza che emergevano già allora (primavera 2013) in tema di politica USA sull’immigrazione, sottolineavamo che essa “obbedisce a due imperativi principali: sul piano materiale, quello di assicurarsi, compatibilmente con il ciclo economico, un serbatoio di manodopera a buon prezzo e un costante ‘esercito industriale di riserva’, che deprime i salari ed esercita una pressione ricattatoria sul resto del proletariato occupato; sul piano ideologico, quello di alimentare la ‘guerra fra i poveri’, mettendo gli uni contro gli altri settori diversi del proletariato – il classico ‘divide et impera’”. Ora, questo Executive Order non fa che proseguire esattamente in quella direzione.

Esso prevede infatti che, a essere “beneficati” da questa misura presidenziale, saranno all’incirca 5 milioni di immigrati illegali – su una cifra che, ufficialmente, si aggira intorno agli 11-12 milioni: dunque, meno della metà. Di questi 5 milioni, 4 dovrebbero essere “genitori illegali di cittadini o residenti, purché nel Paese da cinque anni[6], che potranno così “fermare procedure di espulsione e chiedere il permesso di lavoro” (ma l’Ordine Esecutivo sottolinea che questo “nuovo status” è temporary, temporaneo: mai legarsi troppo le mani!); il rimanente milione sarà oggetto dell’estensione del programma Dreamers 2012, “che blocca la deportazione di chi è giunto illegalmente da bambino (ma non dei loro genitori)” (e, di nuovo, si parla di deportation deferral: vale a dire, di “rinvio della deportazione”). Entrambi i gruppi dovranno poi “ripresentare domanda ogni tre anni”: dunque, la spada di Damocle resta sospesa sulla testa… Non ci sarà invece estensione dei visti ai farm workers (braccianti), e ciò per la “difficoltà di dar giustificazione legale a un loro trattamento diverso rispetto a lavoratori senza documenti [undocumented] in altre occupazioni, come giornalieri, lavoratori dell’edilizia o dell’industria alberghiera”! Ci saranno invece “facilitazioni per visti di lavoro a studenti nati all’estero che potranno restare nel Paese in attesa di regolarizzazione, un cambiamento auspicato dal business” (corsivi nostri) e un programma per facilitare i visti d’ingresso a chi abbia intenzione di investire negli Stati Uniti e di approfondire studi e attività nel campo della scienza, della tecnologia, dell’ingegneria e della matematica. Infine, la ciliegina: oltre a contenere apertamente clausole vessatorie (per esempio, pesanti limitazioni all’assistenza sanitaria e un inasprimento della repressione alla frontiera), il provvedimento prevede che la Casa Bianca vari “migliori procedure di sicurezza: controlli sul passato degli illegali, che dovranno pagare multe e imposte arretrate”, cosa che solo uno strato alquanto sottile d’essi sarà dunque in grado di fare – il resto tornerà a precipitare nelle schiere dei clandestini non protetti...

In pratica, dunque, questo tanto esaltato Executive Order non fa che recepire e mettere in atto alcune delle misure già indicate dal gruppo bi-partisan, orientate a rassicurare e consolidare la situazione di una fetta particolare di immigrati, appartenenti per lo più alla piccola borghesia o all’aristocrazia operaia (in senso lato), mantenendo in stato di illegalità (e dunque totale soggezione ai poteri statali e federali) gli altri 6-7 milioni (almeno!) di clandestini: che sono poi quelli che “contano” per il capitale perché ricattabili in ogni luogo e in ogni momento, braccia a buon mercato da spremere fin quando è utile e necessario e da scaricare senza problemi (altro che articolo 18!) quando non servono più, specie nell’agricoltura e in tutti quei settori in cui lo sfruttamento è altissimo e le condizioni di vita e lavoro sono pessime (industria alimentare, industria alberghiera, edilizia, ristorazione, ecc.). Quei 6-7 milioni, fra cui – recentissimo – un numero imprecisato di ragazzi e bambini senza genitori che, attraverso mille peripezie, sono riusciti a varcare la frontiera (lungo la quale si alternano misure di controllo spietate e falle tanto vistose quanto necessarie per l’economia USA), quei 6-7 milioni (inevitabilmente in crescita) continueranno a essere “invisibili”, il motore nascosto che deve funzionare a pieno ritmo per assicurare il massimo di produttività con il minimo delle spese a un capitale che non smette di essere in affanno e che conosce solo la “produttività per la produttività” come soluzione ai propri limiti strutturali. Come conclude la “Guida” pubblicata dal Washington Post citata sopra, “è improbabile che quest’ordine esecutivo sia l’ultima parola in fatto di politiche sull’immigrazione e dunque gli immigrati illegali [undocumented] dovranno continuare ad aspettare per sapere se quel po’ di protezione che ricevono sarà davvero permanente”. Di nuovo la spada di Damocle… Ma, si sa, tutto il mondo è paese [7]. Come rilevavamo nel nostro articolo del 2013, sempre più, in questo modo, si scava un abisso fra immigrati di serie A e immigrati di serie B (o C o D!), alimentando altre “guerre fra i poveri”, rendendo ancor più “elastico” il mercato del lavoro e – non ultimo, e qui sta il “cinismo” di cui sopra – assicurandosi un buon serbatoio di voti in vista delle elezioni del 2016.

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Così si gonfiano le bolle sociali oltre Atlantico. Quando esploderanno con fragore, i proletari statunitensi – di qualunque colore essi siano – si ritroveranno soli di fronte allo Stato borghese, privi di programma e di direzione. Non servono altre parole. L’urgenza irrimandabile del rafforzamento e radicamento internazionale del partito rivoluzionario dovrebbe risultare chiara a ogni comunista degno di questo nome.

[1] Cfr. il nostro articolo “Ferguson (USA)-Napoli (Italia). La ‘questione’ non è di razza, ma di classe”, il programma comunista, n.5/2014. http://www.partitocomunistainternazionale.org/archivio/PC-05-2014.pdf.

[2] Cfr. il nostro articolo “Carcere, immigrazione e lavoro salariato”, il programma comunista, n.4/2007. http://www.partitocomunistainternazionale.org/archivio/PC-04-2007.pdf.

[3] Vincenzo Comito, “Un futuro meno brillante di quel che luccica”, Il Manifesto, 28/12/2014.

[4] Cfr. Domenico Lusi, “La militarizzazione che cambia il volto dei nostri poliziotti”, Pagina99, 15-21 dicembre 2014.

[5] “USA – La riforma dell’immigrazione: nuovo amo per i gonzi”, il programma comunista, n.2/2013. L’intero articolo, con l’analisi dettagliata del progetto di riforma, si può leggere sul nostro sito http://www.partitocomunistainternazionale.org/archivio/PC-02-2013.pdf.

[6] Cfr. Marco Valsania, “Obama lancia la sfida immigrazione”, Il Sole – 24 ore, 21/11/2014 (corsivo nostro); e Max Ehrenfreund, “Your Complete Guide to Obama’s Immigration Executive Action”, The Washington Post, Nov. 24, 2014: http://www.washingtonpost.com/blogs/wonkblog/wp/2014/11/19/your-complete-guide-to-obamas-immigration-order/. I dati e le citazioni che seguono provengono da questi due articoli.

[7] Cfr. il nostro articolo “Clandestini”, il programma comunista, n.6/2013 (http://www.partitocomunistainternazionale.org/archivio/PC-06-2013.pdf), oltre ai vari articoli sull’immigrazione apparsi sulla nostra stampa nel corso degli anni.

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista)

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