DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

 Negli ultimi due mesi, a occupare il proscenio mondiale con accuse e controaccuse è stata la ridicola polemica sulle “intercettazioni telefoniche e telematiche”: da cui risulta che, meraviglia delle meraviglie!, tutti spiano tutti, come ben si conviene a un mondo in cui “tutti sono in guerra con tutti” (naturalmente, tralasciamo in questa sede il miserabile avanspettacolo politico italiano, che vede protagonisti tutti gli schieramenti parlamentari). Per noi comunisti ben altri sono stati e continuano a essere i segnali di cui tener conto.

Se il ventilato intervento militare in Siria, caldeggiato inizialmente da USA e Francia, non c'è ancora stato, prosegue tuttavia nel paese la guerra tra fazioni borghesi, sostenute da questo o quello schieramento imperialista, con il conseguente massacro di proletari e l'esodo di massa verso paesi vicini e lontani. Intanto, scontri tra fazioni contrapposte si sono riaccesi in Libia, e aree intere dell'Africa sub-sahariana rimangono in un costante stato di belligeranza, sotto l'azione di bande armate che non sono altro che il braccio militare (la Legione Straniera, per così dire) d'interessi economici e finanziari non solo locali. “Tutta la fascia nord-africana e mediorientale del Mediterraneo, dalla Tunisia alla Siria”, scrivevamo nell'editoriale del numero scorso di questo giornale, “è ormai un unico campo di battaglia – una mezzaluna devastata dalle più sofisticate tecnologie di distruzione – , e da essa, quando le insanabili contraddizioni di un modo di produzione in agonia dovessero precipitare, può scoccare la scintilla di un incendio ben più mostruoso di quello di un conflitto locale o di area. Al di là della Siria, verso est, si stendono poi altri campi di battaglia attuali o potenziali, fino a quell'Estremo Oriente dove, appena sotto la superficie, sonnecchiano ulteriori tensioni che potrebbero diventare ingestibili”.

 

Intanto, mosse e contromosse della diplomazia internazionale (l'accordo con il regime siriano per la distruzione delle armi chimiche, le trattative in corso – più o meno a singhiozzo – sul nucleare iraniano) mostrano come lo sviluppo dei conflittuali rapporti inter-imperialistici abbia raggiunto, nei nodi più intricati dello scacchiere mondiale, una fase di stallo, in cui nessuno osa ancora fare un passo deciso e decisivo nel timore di far saltare già fragili equilibri. Sotto la pressione di una crisi economica devastante (gli “esperti” si danno da fare per diffondere segnali rassicuranti, ma la verità è che non c'è ripresa, nuove bolle si gonfiano, la disoccupazione cresce ovunque – in Spagna è già più del 24-26% – e continua la minaccia di una deflazione generale), l'intero mondo capitalista è allo sbando: l'imperialismo più potente (quello USA) è in evidente declino; l'Europa è un coacervo di inevitabili appetiti nazionali; Francia da una parte e Germania dall'altra giocano o cercano di giocare ruoli centrali: la prima sul piano diplomatico-militare (l'intervento in Libia e in Mali, un primo alt alle trattative sul nucleare iraniano), la seconda su quello economico-politico; l'Inghilterra recita il ruolo, ormai storico, di quinta colonna dell'imperialismo USA, risentendo del suo stesso declino; quanto agli ex-rampanti giovani capitalismi (i cosiddetti BRICS), mostrano già un deciso affanno. Sempre più, ciascun paese viaggia alla cieca, all'insegna di un disperato “Si salvi chi può!”.

 

Molto significativa, in questo contesto, è stata l'irritazione con cui il “vecchio” capitalismo USA (seguito a ruota, dopo qualche giorno, dalla stessa UE) ha rimproverato il “giovane” capitalismo tedesco perché... esporta troppo. L'accusa mossa alla Germania, a fine ottobre, nel Rapporto sulle valute elaborato dal Tesoro USA, è infatti quella di aver compensato l'austerità interna con le esportazioni. La Repubblica dell'1/11 riassume così la questione: “Per tutto il corso della crisi finanziaria dell'eurozona […] la Germania ha mantenuto un ampio avanzo: nel 2012 superiore anche a quello della Cina”; e da quel Rapporto riporta quanto segue: “Il tasso anemico di crescita della domanda interna tedesca e la dipendenza dall'export hanno ostacolato il riequilibrio, in un momento in cui molti altri paesi dell'eurozona hanno subito una severa pressione a tagliare la domanda interna e comprimere le importazioni, per promuovere il riequilibrio. […] il risultato netto è stato una spinta alla deflazione nell'eurozona, come per tutta l'economia mondiale”. La risposta tedesca è stata semplice e prevedibile: “non rompeteci le scatole! noi facciamo i nostri affari!”. Come si conviene a qualunque capitale nazionale, impegnato in un'acuta competizione sul mercato internazionale.

 

Per noi comunisti, questo è un segnale molto più importante di mille e mille rivelazioni su fatti e misfatti dei servizi segreti di questo o quel paese: quel “rimprovero” parla infatti, in maniera inequivocabile, la lingua della guerra commerciale che, in prospettiva, annuncia la guerra guerreggiata.

 

A questa prospettiva, inscritta non nella “volontà di potenza” di questo o quel paese o nella “follia paranoica” di questo o quel governante, ma nella dinamica materiale delle leggi che regolano il funzionamento del modo di produzione capitalistico, il proletariato mondiale deve prepararsi. Proletariato mondiale, sottolineiamo: perché il processo di proletarizzazione si è intensificato negli ultimi decenni, anche sotto la pressione della crisi economica, e coinvolge ormai ogni angolo del mondo. Masse enormi di disperati in fuga da guerre, carestie, miseria crescente si rovesciano sulle spiagge e sulle frontiere di tutto il pianeta: da Lampedusa in Italia a El Paso negli Stati Uniti, da Ceuta in Spagna a Liverpool in Gran Bretagna, dalla frontiera turco-siriana a quella egizio-israeliana, dal sud-est asiatico all'est europeo... Lasciano e perdono tutto, sono solo braccia per il mercato del lavoro, quel gigantesco esercito industriale di riserva così prezioso per il capitale: abbassa i salari e paralizza con il ricatto i fortunati che uno straccio di lavoro (leggi: sfruttamento) ancora l'hanno. Nelle loro stesse condizioni materiali di sopravvivenza, sono ormai, oltre che dei senza riserva, dei senza patria, che vagano da un paese all'altro, inseguiti e bastonati dalle “forze dell'ordine”, temuti e odiati da piccole borghesie nazionali tanto più incarognite quanto più sentono di perdere di status e di potere d’acquisto, oppressi da Stati che proprio nei loro confronti mettono a nudo la propria intrinseca natura di guardiani armati del dominio di classe: nei fatti stessi di quest'immane tragedia di massa, la loro “identità” (etnica, nazionale, religiosa) si dissolve, diluita e sciacquata via dagli tsunami del modo di produzione capitalistico.

 

Ma, sul piano ideologico della vita quotidiana, quelle “identità” vengono di continuo riproposte, ricostruite ad arte, celebrate con forza da classi dominanti nazionali con una lunga esperienza in fatto di divisione e creazione di illusioni e mistificazioni, alimentate da forze borghesi e piccolo-borghesi, politiche e sindacali. Classi dominanti che sanno bene che più il proletariato è diviso – lungo linee di etnia, di religione, di nazionalità, di sesso, di età, di località, di luogo di lavoro, di “chi il lavoro ce l'ha” e “chi il lavoro non ce l'ha” – più il proletariato è frantumato, isolato, fatto a pezzi, è classe in sé (classe per il capitale, e dunque con tutte le stimmate tremende del rapporto capitale-lavoro), più il loro dominio resta assoluto, più l'estrazione di plusvalore (l'inaggirabile legge del valore e del profitto) può proseguire indisturbata, più il modo di produzione capitalistico può continuare la sua corsa, per quanto traballante, per quanto scosso da crisi sempre più acute.

 

L'internazionalismo è dunque da una parte una realtà incontrovertibile: ma, dall'altra, rimane un obiettivo da raggiungere, senza il quale è impossibile combattere questa continua frantumazione del proletariato mondiale in segmenti destinati ad aggredirsi e prendersi alla gola in un prossimo macello mondiale. Un internazionalismo, però, che deve tornare a essere, non più slogan retorico di stanchi cortei, ma pratica quotidiana di lotta, nel rifiuto immediato e totale di tutte quelle direttive (ideologiche, politiche, sindacali) che tendono invece a farlo dimenticare o addirittura rifiutare, ricacciando indietro il proletariato, ogni volta frantumandolo in reparti separati e contrapposti, esaltandone l'appartenenza a questa o quella nazione (o, addirittura, fazione nazionale), celebrando le virtù patrie passate, presenti e future (e vedremo presto quanto il centenario del primo massacro mondiale, la guerra del 1914-18, servirà a questo scopo), anteponendo a ogni cosa le esigenze superiori dell'economia nazionale, inneggiando allo Stato come punto di riferimento obbligato e ai suoi bracci armati come “benefici tutori”.

 

Solo nella pratica quotidiana di difesa dagli attacchi del capitale (in quel vender cara la propria pelle che è il presupposto di ogni futura lotta politica) e nel contatto costante con la teoria e la prassi (organizzativa e direttiva) del partito rivoluzionario, orientate all'abbattimento di quel dominio e alla presa e gestione dittatoriale del potere, possono tornare ad avere vita, corpo, voce e soprattutto forza, le parole del Manifesto del 1848: “Proletari di tutto il mondo, unitevi!”

 

Partito Comunista Internazionale 

 

(il programma comunista n°06 - 2013)
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