DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Sotto la pressione della crisi, di fattori materiali come l’instabilità e precarietà del lavoro, la disoccupazione dilagante, il salario che non basta a coprire le spese della pura e semplice sopravvivenza, un regime di lavoro e di vita sempre più opprimente e militarizzato, è inevitabile che i proletari tornino a scendere in lotta per difendersi dagli attacchi del capitale. In parte, ciò sta già accadendo nel mondo, sebbene le notizie al riguardo ci giungano scarse, e attentamente filtrate dai mezzi di comunicazione, obbedienti al comandamento supremo di presentare le cose o in modo stupidamente roseo o in modo apertamente sensazionalistico. In Francia, Belgio, Germania, non sono mancati i casi di lavoratori che hanno reagito alle minacce vicine o lontane di chiusura della fabbrica o di licenziamento, sequestrando i dirigenti. In Italia, ci sono stati casi ripetuti di lavoratori saliti sui tetti per protestare e attirare l’attenzione dei media, oltre a blocchi stradali e autostradali e a episodi come quello di Rosarno, dove i proletari più sfruttati (quelli immigrati) si sono ribellati a soprusi di ogni genere. Soprattutto, ci sono state – in Egitto, nella Guadalupe e ad Haiti prima del terremoto – autentiche rivolte per il pane, a dimostrare che le “delizie” del mondo capitalistico restano le stesse di un secolo e mezzo fa, quando gli assalti ai forni erano fenomeni diffusi. Altri episodi si sono verificati negli Stati Uniti, in America Centrale e Meridionale, in Asia, sebbene – per l’appunto – le notizie giungano con il contagocce e scompaiano presto dalle pagine dei giornali e dagli schermi televisivi. In molte aree, poi, soprattutto nel travagliato Medio Oriente, il crescere delle tensioni sociali sotto la pressione della crisi viene abilmente (e tragicamente) contenuto grazie alla potentissima valvola di sfogo del nazionalismo di tutti i colori e di ideologie religiose sempre pronte e adatte a illudere e a drogare.

Non ci interessa qui entrare nel merito della cronaca di questi episodi o della critica a questa o quella forma di protesta adottata: l’abbiamo già fatto e continueremo a farlo in altri articoli. Ci interessa piuttosto sottolineare come il percorso della ripresa della lotta di classe non sia e non possa essere un percorso lineare, facile, progressivo. Sarà al contrario un percorso fortemente accidentato, a strappi, ad avanzate e ritirate, fatto di slanci e fiammate improvvise e lunghe fasi di delusione e apatia, oltre che di fratture all’interno dello stesso fronte proletario. Non tenerne conto sarebbe disastroso. Noi comunisti dobbiamo avere la netta consapevolezza della complessità e difficoltà che incontrerà la ripresa della lotta di classe, dopo tanti, lunghissimi decenni di ripiegamento e sconfitta (teorica, politica, organizzativa), dopo la peggiore controrivoluzione che il movimento operaio e comunista abbia dovuto subire (nella convergenza antiproletaria di nazifascismo, stalinismo e democrazia).

Quello che ci interessa fare è invece sottolineare i problemi più grossi che la ripresa classista dovrà incontrare e risolvere nel prossimo futuro, per uscire dal pantano di quei lunghi decenni e per rispondere adeguatamente all’attacco del capitale, sia per quanto riguarda la difesa delle condizioni immediate di vita e di lavoro sia per quanto riguarda la preparazione dell’attacco a un modo di produzione marcio e agonizzante sotto ogni aspetto.

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Nel suo moto istintivo di risposta all’oppressione capitalistica (vissuta sulla propria pelle, sul posto di lavoro, nella realtà del non-lavoro, nei drammi grandi e piccoli della sopravvivenza quotidiana), il proletariato reagisce imboccando spontaneamente la strada delle rivendicazioni immediate relative alle condizioni di vita e lavoro – lotte di resistenza, dunque, volte a cercare di ottenere miglioramenti che non vanno a toccare l’origine di quell’oppressione. Non può essere altrimenti: pensare che sia possibile, a questo stadio iniziale, un’altra via vuol dire non essere materialisti. Il proletariato non ha in sé la coscienza di classe, la visione della strategia complessiva necessaria per orientarsi verso i fini ultimi dell’abolizione del modo di produzione capitalistico che lo opprime: sottoposto a un grado crescente di sfruttamento, ha la forza, l’esasperazione, l’orgoglio necessari per reagire e perfino ribellarsi (e anche questa reazione non è immediata o automatica). Ma la coscienza di classe non sta nel suo DNA e non è nemmeno il frutto meccanico delle lotte in quanto tali. Come ci hanno insegnato Marx, Engels, Lenin, e un secolo e mezzo di storia del movimento operaio e comunista [1], questa coscienza può solo “venire dal di fuori”, da un’organizzazione politica rivoluzionaria che esista prima e indipendentemente dalle lotte, che non si accodi a esse con i più astrusi e demagogici pretesti, che veda ben al di là di esse dal punto di vista sia degli obiettivi che dei metodi, dal punto di vista sia dell’ambito da cui si sprigionano (categoria, ambito, motivo contingente) che della località in cui si verificano (città, regione, nazione). Parliamo naturalmente del partito comunista.

A ciò bisogna aggiungere un’altra considerazione. Il dramma odierno (dramma non di questo o quel settore proletario di questo o quel paese, ma mondiale) sta nell’isolato e assoluto abbandono in cui il proletariato si trova a dover condurre le prime, timide e spontanee azioni di protesta. Si tratta di un abbandono sindacale: da decenni, le organizzazioni sindacali si sono trasformate in stabili strutture integrate nello Stato borghese, di cui condividono natura, obiettivi e funzioni, esercitando per di più un’opera di polizia interna alla classe proletaria. E si tratta di un abbandono politico: sull’arco di ottant’anni, l’opera convergente di socialdemocrazia, nazifascismo, stalinismo e democrazia ha infatti ridotto l’avanguardia rivoluzionaria a un piccolo drappello. In questa condizione, il proletariato mondiale si trova a dover reagire praticamente da solo, senza organizzazione cui appoggiarsi, senza quell’alimento teorico e pratico necessario tanto per condurre vigorosamente le lotte quanto per andare in prospettiva oltre esse. E ciò non può fare altro che alimentare e stimolare ulteriormente la spontaneità.

Sta di fatto che questa spontaneità, che comunque segnala il risveglio di strati proletari intenzionati a “vender cara la pelle”, imbocca inevitabilmente (sono ancora la teoria e l’esperienza a dimostrarcelo) una serie di vicoli ciechi e si condanna così al fallimento. Compito di noi comunisti è di operare su questa spontaneità, al fine di allontanare la combattività proletaria da quei vicoli ciechi e indirizzarla verso finalità ben diverse: dunque, non negandola, non svalutandola o guardandola dall’alto in basso, e nemmeno sottomettendoci a essa, lasciandoci trasportare da essa per il timore, altrimenti, di perdere il contatto con la classe; ma agendo su di essa per trasformare quell’energia, che rischia di disperdersi, in autentica forza collettiva e antagonista, capace di condurre una battaglia che passi dalla resistenza all’attacco [2].

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Quali sono dunque questi vicoli ciechi?

Il primo e più evidente è l’economicismo. Oppressi quotidianamente da un regime di lavoro che diventa sempre più intollerabile (ritmi, turni, controllo, repressione, militarizzazione), sottoposti alla minaccia sempre più concreta di tagli di salario, di cassintegrazione, di licenziamento, espulsi dal processo produttivo perché “non più necessari”, precarizzati e clandestini, i proletari reagiscono punto per punto, caso per caso, situazione per situazione. E’ la “lotta per le piccole rivendicazioni”, il “movimento nell’ora presente”, “ciò che ha luogo nell’immediato” (Lenin): il rifiuto di questo o quel licenziamento, della mobilità, dell’introduzione di turni massacranti; la risposta istintiva a un incidente di lavoro; la richiesta di qualche aumento in busta paga per far fronte alle bollette da pagare; l’esasperazione nei confronti del capetto bastardo; la solidarietà istintiva con il compagno di lavoro picchiato dagli sbirri durante un picchetto... Si tratta di reazioni e richieste sacrosante, senza le quali (il livello-zero da cui partire) non ci si può illudere di poter andare oltre. Ma, al tempo stesso e soprattutto, si tratta di una chiusura dell’orizzonte entro i confini di ciò che è, nell’illusione di poter strappare qualche piccolo miglioramento, senza andare a toccare il quadro di riferimento generale, senza porsi il problema del raccordo delle singole questioni intorno a cui ci si mobilita.

Quest’orizzonte economicista ha molte facce, tutte presenti nei circoscritti tentativi di rialzare la testa prodottisi internazionalmente negli ultimi mesi. Una faccia è quella dell’aziendismo: la chiusura dentro il perimetro in cui si è (la fabbrica, l’azienda, la ditta, il campo di raccolta, il call center, il supermercato), vissuto come unica realtà possibile, da difendere con i denti da ogni tentativo di chiusura, smantellamento, trasferimento; o, peggio ancora, la fabbrica che diventa il bene supremo, alimentando l’orgoglio per il lavoro che dentro vi si svolge, per il patrimonio tecnologico che racchiude, per la storia e la tradizione che rappresenta... Quando ci si batte per difendere la “propria” fabbrica o azienda, per difendere la “propria” professionalità, per difendere le “proprie” macchine, invece di concepire il luogo di lavoro come la galera in cui si viene spremuti di ogni energia umana per estrarne pluslavoro e quindi plusvalore, ecco appunto che si verifica quel “rafforzamento dell’ideologia borghese sugli operai” di cui scrive Lenin! E quando si compie il passo successivo, strettamente connesso a quest’ottica puramente aziendista, e ci si lascia afferrare dal mito e dall’illusione dell’autogestione, il cappio al collo è completo: la galera capitalistica diventa allora il terreno su cui misurarsi con il padronato per dimostrare di essere... più bravi, più efficienti, più produttivi; la lotta per la difesa delle condizioni di vita e lavoro si trasforma nella corsa a far funzionare meglio l’azienda, strappandola dalle mani di chi non ci sa fare (o magari è scappato con la cassa) e dimostrando così al mondo di saper lavorare anche... senza padroni. Ma, padroni o non padroni, sempre per il mercato capitalista si lavora, e non cambia nulla, dal punto di vista dello sfruttamento e dell’estrazione di pluslavoro, che a farlo sia un padrone (tanti padroni, una società per azioni, una cooperativa, lo stato) o gli operai trasformatisi in... padroni di se stessi.

L’aziendismo è dunque una forma di localismo che non riesce a vedere oltre i limiti del luogo di lavoro, e questa è un’altra grave debolezza di un movimento che cerca di riprendere le lotte, nello stato di isolamento e abbandono in cui versa il proletariato mondiale. Negli ultimi tempi, a livello internazionale, non sono mancate le proteste, anche radicali, anche violente: ma sono sempre state circoscritte, chiuse entro i limiti dell’azienda o della categoria (o, ampliando il raggio, della regione o della nazione). La debolezza risulta evidente: che siano vittoriose nell’immediato o sconfitte, queste lotte locali non producono aggregazione classista e solidarietà effettiva, estensione del fronte proletario e stabile organizzazione in grado di farsi carico degli inevitabili attacchi futuri, e – nel caso di sconfitte – del comprensibile stato di sconforto in cui cadono i proletari. Di fronte poi a licenziamenti minacciati o in atto, ciò vuol dire l’abbandono a se stessi dei licenziati presenti o futuri, di quell’esercito di disoccupati che sempre più va ingrossandosi con il procedere della crisi e che va considerato parte integrante del proletariato stesso – quindi, da tutelare e organizzare ben oltre i confini circoscritti dell’azienda e della località. Aziendismo e localismo, in tutte le loro forme e manifestazioni, vanno dunque considerati due autentiche trappole sulla strada della ripresa classista, e le avanguardie di lotta devono indirizzare le proprie migliori energie per denunciarle e aggirarle, combattendo apertamente quella “sottomissione alla spontaneità” che in quelle trappole finisce per far cadere i proletari.

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Questo localismo, d’altra parte, non si limita a incidere negativamente sulla capacità di risposta complessiva del proletariato, segmentandolo, frazionandolo, dividendolo. Esso prepara ad ancor più gravi errori: dalla difesa della fabbrica si passa facilmente alla difesa dell’economia nazionale – la prima vista come sicurezza contingente, la seconda come bene supremo cui sacrificarsi. Quando l’ottica della risposta istintiva e immediata non va oltre i confini del luogo di lavoro, è facile orientarla verso le “necessità superiori dell’economia nazionale”. Conosciamo bene i discorsi che da almeno quarant’anni risuonano alle orecchie dei proletari: “I sacrifici sono necessari... l’economia nazionale deve tornare a tirare se si vogliono miglioramenti... è nell’interesse dei lavoratori che si esca dalla crisi... salvare l’economia nazionale vuol dire salvare i posti di lavoro...”, ecc. ecc. In questo modo, i proletari vengono incatenati alle sorti della fabbrica e dell’azienda prima e dell’economia nazionale poi, e vengono bellamente fregati: prima i sacrifici, poi la ripresa; ma la ripresa tarda: altri sacrifici; la crisi s’approfondisce, la ripresa scompare dall’orizzonte, i sacrifici non bastano più: fuori dai piedi! a casa!

Ma le “necessità superiori dell’economia nazionale” aprono la strada ad altre e ben peggiori prospettive. La crisi capitalistica mondiale disegna infatti scenari che sempre più, sul lungo periodo ma in maniera decisa, si orientano verso un acuirsi dei contrasti interimperialistici e dunque verso la prospettiva di un nuovo conflitto mondiale. Abituare i proletari a schierarsi a difesa dell’economia nazionale nell’immediato vuol dire avviarli verso una situazione in cui verranno arruolati a forza, sul campo di battaglia o nelle retrovie, per andare a massacrare altri proletari, vittime a loro volta del medesimo inganno. La difesa dell’economia nazionale oggi prepara il nazionalismo guerresco di domani. Un esempio contemporaneo di questo “nazionalismo serpeggiante e in agguato” ci viene proprio, in queste stesse settimane, da quanto sta succedendo in Grecia: la rabbia e la protesta contro il programma di “lacrime e sangue” elaborato dal governo (per obbedire ai diktat del capitale internazionale) cominciano a essere abilmente indirizzate e deviate contro... la Germania, indicata come la vera e unica “colpevole” di una situazione che invece ha le proprie radici nella crisi capitalistica mondiale.

Ecco perché, in questa catena, non un solo anello va salvato, ma vanno tutti spezzati, con forza e urgenza: per evitare che ancora una volta il proletariato mondiale scenda in campo, non per affermare i propri obiettivi storici, ma per difendere le rispettive patrie con i rispettivi capitali nazionali che lo dissanguano.

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Quando anche le risposte istintive all’attacco non cadano nelle trappole di cui sopra, altre minacce le attendono, e la principale è il legalitarismo: il rimanere imbrigliati dentro la fitta rete di leggi, normative, abitudini e inerzie, che lo stato e l’opportunismo hanno tessuto proprio al fine di vanificare ogni prospettiva reale di lotta dei proletari. Autoregolamentazione dello sciopero, rigidità e macchinosità delle procedure di proclamazione delle agitazioni, ricorso obbligato a tavoli ufficiali di trattativa, richiamo costante alla “sacralità dell’utenza” (che non può e non deve essere colpita o danneggiata!) e alla “salvaguardia delle norme civili di convivenza” (non interrompere il placido corso degli affari!), ricorso inaggirabile alle autorità civili (tribunali, avvocati, sindacati, ecc.) e religiose (preti di ogni risma: peggiori quelli più... “impegnati nel sociale”) o ai media (giornali, televisione, blog e scemenze simili), obbedienza assoluta alla “democrazia” in tutte le sue forme: nel tempo, tutto questo ha svuotato le agitazioni e le lotte di ogni reale capacità di incidere, ha privato i proletari del senso della propria forza potenziale. La “legalità”  è la legge dei borghesi, del capitale, dello Stato (che è sempre e comunque uno strumento repressivo del capitale): i proletari che scendono in lotta non possono deporre preventivamente le proprie armi in nome d’essa, offrendosi così – legati come tanti salami – all’inevitabile sconfitta, alla delusione e allo sconforto, alla repressione. Noi comunisti siamo lontani anni-luce dalla logica anarcoide dell’“illegalità fine a se stessa”: ma i proletari debbono essere consapevoli che ogni loro azione, condotta conseguentemente e finalizzata anche solo a difendere le proprie condizioni di vita e di lavoro, è per il capitale e i suoi sgherri potenzialmente illegale: dallo sciopero alla manifestazione, dal blocco delle merci all’interruzione dei pubblici servizi... A fare la differenza è sempre e solo il rapporto di forza: dunque, questo rapporto di forze va ricostruito e riconquistato, con pazienza ma anche con determinazione, senza lasciarsi imbrigliare dai “legalismi”, dai “codicilli”, dalle “regole”. Per questo è necessaria l’organizzazione delle lotte; per questo è necessaria la loro estensione; per questo è necessaria la loro direzione; per questo saranno necessari tutti quegli strumenti fondamentali per sostenerle, organizzarle, dirigerle: dai picchetti alle casse-sciopero, dai boicottaggi ai comitati di solidarietà, dall’assistenza legale all’autodifesa dalle aggressioni da parte dello stato borghese, dei suoi sgherri in divisa e della sua manovalanza col volto coperto... E’ la forza dei proletari in lotta che va fatta sentire a tutti i loro nemici: è questo il prerequisito per la conduzione delle lotte, per la loro vittoria nell’immediato, ma anche – nel caso di una sconfitta – per la possibilità di riprenderle da un livello acquisito, da uno stadio comunque elevato di consapevolezza e compattezza, di organizzazione e solidità.

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Qualche ingenuo (o qualche imbecille) potrebbe obiettare a questo punto: “Ma voi stessi dite che queste sono risposte istintive e inevitabili. Perché allora criticarle, invece di appoggiarle?” Perché compito di noi comunisti, come si diceva sopra, non è di accodarsi alle lotte operaie partecipandovi a ogni costo: fare cioè quelli che, “pur di esserci” (o meglio: “pur di dire di esserci”), accettano e condividono acriticamente qualunque livello di mobilitazione. Queste sono cose che lasciamo agli opportunisti, che siano di destra o (peggiori di tutti) di falsa sinistra. Nostro compito è di intervenire in tutte le manifestazioni di insofferenza della classe, per (nei limiti delle nostre forze e possibilità) indirizzarle e farle uscire dai vicoli ciechi, e soprattutto contrastare apertamente gli indirizzi antiproletari che le manovrano, gestiscono, ingabbiano. Un buon esempio è stato offerto, almeno in Italia, dall’iniziativa dello “sciopero dei lavoratori immigrati”, tenutosi lo scorso 1 marzo e indetto da un variopinto cartello di organizzazioni riformiste e piccolo-borghesi che andavano dal “popolo viola” (per l’occasione ridipinto di giallo: storicamente, il colore del tradimento!) ai sindacatini corporativi, passando per organizzazioni piccolo-borghesi come Emergency e simili – e certo non frutto spontaneo di iniziative auto-organizzate dei proletari. Accettare quell’impostazione (che separa i lavoratori immigrati dal corpo complessivo del proletariato), seguirla pedissequamente, non porsi nemmeno il problema di contestarla mostrandone la strategia anti-proletaria, ha voluto dire fare il peggior codismo, il peggior movimentismo, portando acqua al mulino di tutti coloro che cercano di creare (e purtroppo ancora ci riescono) cordoni sanitari intorno a settori diversi della classe e impedendole così di agire unitariamente. Sappiamo bene che il fronte unito di classe può solo essere un obiettivo e non un dato di partenza: ma ad esso bisogna lavorare con coerenza, e soltanto gli ingenui (o gli imbecilli) possono pensare di farlo prendendo esattamente la strada opposta. Nella lotta di classe, non è vero che tutte le strade portano a Roma!

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Il problema d’altra parte non sta qui: ci mancherebbe altro che i proletari non reagissero all’attacco che viene sferrato contro di loro! Devono farlo, e noi stessi rivendichiamo alcune misure come la “drastica riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario”, gli “aumenti generalizzati di salario, maggiori per le categorie peggio pagate”, il “salario pieno ai disoccupati”, ecc. ecc. [3]. Lo facciamo però nella piena consapevolezza che quelle sono le forche caudine attraverso cui i proletari devono necessariamente passare, lottando. Sono in un certo senso le pre-condizioni di lotte più ampie: perché il proletario che non impara a lottare per difendersi (con tutto ciò che questa lotta di difesa implica, anche solo dal punto di vista organizzativo) non saprà mai lottare per contrattaccare.

Il problema sta nella chiusura dell’orizzonte di lotta intorno a obiettivi che sono sì necessari nell’immediato, ma che non possono esaurire l’ambito e la prospettiva della lotta stessa. Il problema sta nel non collegare fra di loro i vari aspetti dell’attacco del capitale e dunque nell’andare alla battaglia in ordine sparso, ciascuno per sé, isolatamente. E soprattutto il problema sta nel non comprendere (ma certo la spontaneità non può farlo) che questi sono obiettivi di sopravvivenza, precari e transitori; che eventuali vittorie in questo senso verranno presto svuotate da un nemico che non si preoccupa di punture di spillo; che anche il migliore aumento di salario verrà riassorbito in mille modi diversi; che il licenziamento scongiurato oggi verrà riproposto domani, ecc. ecc.

Nel momento in cui i proletari si mobilitano contro l’attacco del capitale, compito di noi comunisti sarà allora quello di lanciare parole d’ordine contenenti obiettivi e metodi che producano un danno effettivo all’economia dei padroni, che implichino un alto grado di organizzazione e di allargamento della lotta stessa, che dimostrino ed esaltino l’antagonismo inevitabile con il capitale e il suo Stato, che infine contengano dunque in nuce la necessità di un superamento di quello stesso livello di lotta, per orientarsi verso finalità apertamente rivoluzionarie.

E’ una dialettica delicata, che implica l’esistenza, il radicamento e l’operatività del partito rivoluzionario: ma è la sola dialettica che possa far uscire il proletariato che riprende a lottare dai vicoli ciechi che lo ricacciano sempre verso la sconfitta e la frustrazione.

 

 


[1] “La storia di tutti i paesi attesta che la classe operaia colle sue sole forze è in grado di elaborare soltanto una coscienza tradunionista, cioè la convinzione della necessità di unirsi in sindacati, di condurre la lotta contro i padroni, di reclamare dal governo questa o quella legge necessaria agli operai, ecc.” (Lenin, Che fare?, Editori Riuniti, p.63).

[2] Ancora Lenin, ancora il Che fare?: “ogni sottomissione del movimento operaio alla spontaneità, ogni menomazione della funzione dell’‘elemento cosciente’, della funzione [del comunismo], significa di per sé – non importa lo si voglia o noun rafforzamento dell’ideologia borghese sugli operai” (p.71).

[3] Per le nostre “parole d’ordine” sul piano della “difesa immediata”, rimandiamo al pieghevole “Per la difesa intransigente delle condizioni di vita e di lavoro dei proletari. Forme di organizzazione, metodi e obiettivi di lotta”, che ci può essere richiesto gratuitamente, scrivendo a: Edizioni Il programma comunista, Casella postale 962, 20101 Milano.

 

 

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°03 - 2010)

 

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