DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

 

Come, alla fine degli anni settanta, il colpo di freno della crisi economica mondiale del 1974-75 diede luogo a squilibri economico-sociali che coinvolsero il Medioriente e soprattutto l’Iran spazzando via la monarchia dei Pahlavi, così il colpo di freno dell’attuale crisi 2007-09 potrebbe chiudere con un bagno di sangue la trentennale esperienza clerico-democratica della Repubblica islamica. La spinta della generale ondata antifeudale e antimperialista in Asia e Africa degli anni del secondo dopoguerra si è esaurita da un pezzo; la profonda crisi dell’economia mondiale attuale, ovunque pienamente capitalista, scarica la sua energia distruttiva su un terreno sociale iraniano ormai maturo per la rivoluzione proletaria.

Nei movimenti di massa degli anni settanta in Europa, l’alleanza corporativa di sindacati e partiti stalinisti, unita all’immediatismo e avventurismo anarcoide antipartito, riuscì a deviare i numerosi episodi della lotta di classe verso il trionfo dell’economia finanziaria, riportando i lavoratori nei ghetti del lavoro salariato e agevolando il mostruoso ricambio generazionale della borghesia, che da quelle lotte studentesche ebbe il suo avvio. Quello stesso riformismo, prodotto dall’accumulazione capitalista di questo inizio secolo, si è svegliato in Iran e aspira a rimuovere rapporti sociali che hanno fatto il loro tempo: un riformismo che, oltre a provenire dalla massa giovanile, precaria e disoccupata, dell’immensa periferia di Teheran Sud (una megalopoli di 12 milioni di abitanti), discende direttamente dai Palazzi del potere; un riformismo che ha assunto i diversi caratteri del pragmatismo e progressismo da una parte e del fondamentalismo e radicalismo dall’altra, il tutto compresso in una miscela informe, non per una diversità di programmi, ma per un caos di contraddizioni, sorti dall’usura di un sistema di potere che cerca nuove vie d’uscita.  

Il “movimento” e la repressione di dicembre

Quella della fine del 2009 è stata la più violenta repressione dopo le manifestazioni per l’esito delle elezioni del 12 giugno [1]. Il campo di battaglia ha visto la partecipazione di migliaia di oppositori della più varia specie. L’attacco degli agenti antisommossa con l’aiuto dei miliziani filogovernativi (i basji, i picchiatori di Stato) ha scompaginato le file dei dimostranti, uccidendo e arrestando. Dalla metà di giugno fino a luglio, e poi da qui alla fine di dicembre, si è consumata così la stagione delle illusioni: il credito alla legalità diffuso a piene mani (indossando anche il verde islamico) si è disperso per le vie di Teheran, ma non si è infranto di fronte al muro della repressione con morti, feriti e centinaia di arresti. Lo stesso “movimento” ha iniziato a riconoscere la necessità di liberarsi dagli intralci legalitari, ma il passaggio a una nuova fase dello scontro sociale non è avvenuto e non potrà avvenire senza la presenza del proletariato, senza che quello stesso movimento si suddivida nel corso dei prossimi eventi nelle sue componenti sociali contrapposte. La giovane classe media, interna oggi al movimento, che s’identifica “in buona parte” con il partito progressista di Moussavi, cerca di uscire dall’isolamento in cui il regime l’ha cacciata nell’ultimo decennio: spinge nella direzione di una borghesia moderna, che entri pienamente nel mercato mondiale, non più sottoposta a un potere legittimato dall’ideologia religiosa e statalista, prodotto dell’iniziale rovesciamento del potere monarchico. La situazione offre a questa classe media un solo alleato decisivo per scalzare il concorrente contingente (la borghesia fondamentalista e radicale): il suo nemico storico, il proletariato – un alleato che dovrà piegare in ogni caso alla sua volontà riformista ricostruendo e ricompattando il potere borghese. Ma, come tutte le mezze classi, ha una maledetta paura di risvegliare il “popolo dell’abisso”. Le divergenze createsi, sotto il diktat della crisi, nei rapporti sociali e nella rappresentanza politica, di là dai protagonisti contingenti, hanno bisogno di un rafforzamento della struttura dello Stato, che mostra oggi crepe vistose. L’illusione, alimentata dai progressisti, di poter trattenere il “movimento” nella legalità e quindi di poterlo incanalare nel compromesso di una “riforma elettorale” e di una “ricomposizione pacifica” (liberazione dei prigionieri politici) e di un “rilancio dell’economia sociale”, è il mezzo con cui esso tenta in realtà di decomporlo, isolarlo e avviarlo a una nuova repressione. Il suo ruolo è di ridimensionare l’opposizione reale, la spontaneità iniziale di questo riformismo dal basso, per batterlo prima che alzi la testa. Sotto una montagna di materiale antincendio, cova tuttavia lo scontro tra le classi principali, la borghesia e il proletariato. La transizione riformista sarà così possibile solo quando una parte della struttura portante dell’economia e dell’esercito avrà fatto sentire pesantemente il suo assenso.

Il campione progressista Moussavi

Non è un caso che l’Occidente patteggi per il leader progressista Moussavi, dopo le sue dichiarazioni di pacificazione con gli Usa e Israele prima delle elezioni di giugno (ma restano altrettanto indelebili le sue dichiarazioni in passato, sulla necessità di annientare Israele) [2]. Questa colonna del regime, cofondatore della Repubblica islamica, tra i cosiddetti rivoluzionari della prima ora insieme a Khomeini, è infatti responsabile in quegli anni dei massacri di proletari per riportare l’ordine nelle città operaie nel 1979-80; è Ministro degli Affari Esteri negli anni della guerra antirakena 1981-88, in cui 600 mila giovani furono mandati al macello e 100.000 bambini portati a pulire i campi di mine, arruolandoli nel corpo dei volontari basji. Questo macellaio è responsabile del massacro di 33.000 prigionieri politici (dissidenti, ribelli, riformatori) detenuti nelle carceri iraniane alla fine della guerra [3], e dispersi nel nulla in fosse comuni. Non è un caso che questo campione, fondatore della politica isolazionista e fondamentalista, gerarca di primo piano, punti a un accordo di compromesso con il regime conservatore di Kamenej-Ahmadinejad. Si sa che dal 1997, dopo dieci anni di uscita di scena, è passato nelle file del riformista Katami e che in nessun discorso ha mai messo in discussione il clero, le leggi della Repubblica islamica e le sue guide spirituali.

Con Moussavi, si può dunque consolidare quella transizione dall’epoca eroica all’epoca degli affari, sull’arena mondiale. Non fa testo per l’Occidente il fatto che egli sia stato uno dei fautori della nascita in Libano degli Hezbullah, né che il suo governo abbia autorizzato nel 1987 l’acquisto sul mercato nero di centrifughe per l’arricchimento dell’uranio (che non si trovano certo nei mercatini rionali!). Fanno testo invece l’appoggio avuto dalle organizzazioni sindacali di regime e di molte associazioni di lavoratori che cercano una via d’uscita alla crisi economica e le promesse di una “maggiore giustizia sociale”, la “lotta contro la corruzione”, la sottrazione alla “polizia della moralità” delle sue prerogative (che lo stesso Moussavi ha creato a suo tempo), una “maggiore equanimità” nel modo di trattare le donne e il “programma di privatizzazione” di un’economia stagnante (in particolare, le stazioni televisive statali). Questo programma, che vorrebbe portare la realtà produttiva iraniana fuori dall’“economia basata sulla carità”, trova il favore delle classi medie, ma soprattutto quello della grande borghesia legata alla rendita petrolifera e al commercio, che ha cominciato a rendersi conto che lo sbraitare quotidiano del fondamentalismo contro l’Occidente porta l’Iran indietro, verso un maggiore  isolamento.              

Un paese compiutamente capitalista

L’Iran è un paese industriale di 68 milioni di abitanti, con una numerosa e combattiva classe operaia (occupazione per il 23% rurale, per il 31% industriale e per il 45% nei servizi), che trent’anni fa fu al centro del rovesciamento della monarchia – una classe combattiva capace di lottare anche nelle attuali condizioni difficili, a difesa delle proprie condizioni di vita e di lavoro. E’ un paese urbanizzato (al 73%), con una massiccia componente nazionale (oltre il 50% persiana) e un’indipendenza politica superiore a qualunque altro Stato borghese della regione. E’ “la più avanzata democrazia in Medioriente, sotto la tutela della ‘Guida spirituale’”, e pertanto strutturalmente antiproletaria. E’ uno dei principali produttori mondiali di petrolio, ma presenta anche risorse minerarie: gas naturale, ferro, rame e carbone. Le più importanti industrie del settore petrolchimico si trovano a Teheran, di quello siderurgico a Isfahan, e a Bandar-Abbas di quelli metallurgico e meccanico. Oltre al settore tessile e alimentare, è presente la produzione di elettrodomestici, di macchinari, auto, materiali da costruzione; inoltre, industrie farmaceutiche, della pelle, elettriche ed elettroniche. Il settore dell'artigianato è rappresentato soprattutto dalla produzione e dall'esportazione di tappeti.

L’industria di estrazione e di trasporto del petrolio è dunque la più importante del paese e occupa centinaia di migliaia di lavoratori. Le industrie del cemento e dell’acciaio rappresentano altri significativi settori del capitalismo iraniano, di cui i principali si trovano a Teheran (il maggiore di essi occupa un migliaio di operai). Le principali acciaierie sono a Esfahan (che occupa 18.000 operai, 8.000 dipendenti diretti e 10.000 per ditte in appalto) e ad Ahwaz. L’industria dell’auto occupa complessivamente 150.000 lavoratori delle diverse case automobilistiche, associate ai gruppi europei e coreani (Fiat, Renault, Peugeot, Citroën, Kia e Hyundai). L’Iran Khodro, il primo gruppo automobilistico del paese e del Medioriente, ha 34.000 dipendenti diretti con due grandi fabbriche a Teheran.

Lo sforzo per uscire dall’economia di guerra e modernizzare quindi le strutture produttive, aprendo al mercato e ai capitali stranieri e imponendo una nuova linea di politica economica, ha portato a una grave crisi sociale e politica nei primi anni novanta. Il rialzo dell'inflazione, le difficoltà dell'industria nazionale e tutta una serie di problemi che hanno reso difficile la ripresa economica hanno aggiunto il resto. L’attuale scontro sociale proviene dalla difficoltà di transizione di quegli anni e dall’attuale crisi economica: la necessità di privatizzazione di diversi settori dell’economia è ostacolata dalla costituzione islamica (divieto degli investimenti stranieri nell’economia).

Lotte operaie e repressione

Protagonisti di numerose e dure lotte sindacali, negli ultimi anni i lavoratori iraniani hanno lasciato sul campo morti e feriti. Il regime borghese iraniano del lavoro inquadra i lavoratori in un sindacato di Stato, una sorta di Camera del Lavoro, che in ogni azienda con più di 35 dipendenti si articola in un Consiglio Islamico del Lavoro. Questi organismi costituiscono la vera e propria polizia di fabbrica. Dal 1990, è stata permessa la formazione di sindacati indipendenti, ad eccezione delle aziende automobilistiche e del settore petrolchimico. Lo sciopero è proibito nel pubblico impiego, mentre nelle aziende industriali è tollerato, ma nelle modalità dello sciopero bianco. Il diritto alla costituzione di sindacati indipendenti, sancito sulla carta, è negato nei fatti e i lavoratori che tentano di far sentire la propria forza organizzata subiscono svariate forme di repressione, tra cui come minimo il licenziamento immediato. E tuttavia, in diversi settori, sindacati indipendenti si sono formati ugualmente, in contrapposizione al sindacato di Stato.

I segni della crisi sociale cominciano a farsi sentire già nel gennaio 2004, quando la polizia spara contro i 1.500 lavoratori in sciopero della miniera di rame di Khatoonabad, uccidendone quattro e ferendone molti altri. A cavallo fra il 2005 e il 2006, inizia il forte sciopero dei 17.000  tranvieri ed operai dell’azienda pubblica di trasporto di Teheran, che avevano iniziato già da tempo ad organizzarsi per formare un nuovo sindacato indipendente: si tratta di quegli stessi lavoratori che, prima delle elezioni del 12 giugno 2009, pubblicheranno un breve manifesto in cui si afferma che il sindacato “non appoggia nessuno dei candidati in lizza”, in quanto sono tutti considerati nemici degli interessi della classe lavoratrice, e che “oggi, per i lavoratori e le loro famiglie, l’incoraggiamento a partecipare alle elezioni è una delle cose più prive di senso del presente dibattito”. Uno dei leader sindacali, da cui hanno avuto inizio le azioni di lotta tra i tranvieri, è stato arrestato e condannato a cinque anni di carcere con l’accusa di “ minaccia della sicurezza della Repubblica islamica”. L’intimazione di sciogliere il sindacato e ritornare in seno alle “associazioni del lavoro islamiche” non ha avuto alcun effetto: anzi, il movimento si è aggregato al Woacc (Workers Organizations and Activists’ Coordination Council), che raggruppa tutte le organizzazioni indipendenti dei lavoratori (700, con quasi 2 milioni di membri) delle industrie automobilistiche, petrolchimiche, insegnanti, minatori, portuali e panettieri. Un anno prima, nel 2006, gli scioperi sono stati a centinaia, con migliaia di scioperanti, attaccati dai teppisti di Stato armati, che picchiavano a sangue i lavoratori. L’associazione stima in 4000 gli operai arrestati negli ultimi anni: molti di loro sono stati prelevati dalle abitazioni e dal lavoro per ore e per giorni, sicché nei posti di lavoro vige uno stato di paura e di angoscia. Nel 2008, sono i 6000 lavoratori delle raffinerie e piantagioni di zucchero a costituirsi in sindacato indipendente dopo un anno di scioperi e scontri con le forze di sicurezza e l’arresto di una ventina di sindacalisti. A febbraio, anche i metalmeccanici della Khodro sono stati in sciopero per rivendicazioni salariali e a giugno i 4000 operai della Brick Kiln, una fabbrica di mattoni, hanno condotto uno sciopero di 17 giorni per ottenere i salari arretrati. Il 1° maggio, la manifestazione operaia indetta da nove sindacati indipendenti è stata attaccata dalla polizia, che ha usato la solita schiera di picchiatori e gas lacrimogeni, arrestando 150 operai; nello stesso giorno, scontri si sono avuti nel corso della stessa manifestazione anche nella zona del Kurdistan con 12 arresti. In tutti questi anni, inoltre, le recenti leggi di Ahmadinejad sul lavoro hanno tentato di abolire le vecchie conquiste operaie, obbligando i lavoratori alla “comunità del lavoro tra datori di lavoro e operai” (in nome della comune fede islamica): che in Occidente si chiama” corporazione nazionale”... L’Association of Contractual Workers riferisce che in questi anni è stato introdotto il lavoro in appalto abolendo la maggior parte dei limiti legali e che l’85% di coloro che sono occupati nel settore privato hanno contratti a breve termine, con una scadenza che va da un giorno a un mese (in perfetta sintonia con i contratti europei!) [4].

Aspettando l’incendio di classe

Scrivevamo pochi mesi fa, sul nostro giornale italiano: “Quel che sappiamo è che la rivoluzione proletaria non fila più il suo tessuto all’interno di una sola nazione, non si apre più il suo percorso dentro un unico paese, ma in un intreccio internazionale [5], perché internazionale è la lotta di classe per uscire dal sistema capitalista. Il grido di battaglia, oggi come nel 1848, è “Proletari di tutto il mondo, unitevi!

A differenza di allora, il ciclo nazionale, allora appena iniziato, si è compiuto. Il processo d’integrazione del proletariato alla scala mondiale è in pieno svolgimento, masse gigantesche si ammassano nelle megalopoli del mondo borghese e danno battaglia ovunque, anche se in fronti distinti. Tanti sono gli ostacoli che si frappongono nel cammino della classe, e la piovra del riformismo è una di queste. Questa illusione, che si ripropone in ogni crisi economica e sociale, stende i suoi tentacoli agitando cornucopie di miracoli: ma il suo futuro, pieno di promesse, si va spegnendo. La via d’uscita della borghesia mondiale sta nella dichiarazione di guerra all’intera umanità, rappresentata dal proletariato; sta nel richiamo dei mostri che hanno sempre tirato i suoi carri di guerra, il nazionalismo in primo luogo.

Una provocazione esterna (i nemici non mancano!) può garantire ancora la sopravvivenza della borghesia iraniana e compattare la nazione come negli anni ottanta, con il suo strascico di morte e di rovina. Che il proletariato iraniano si prepari col “disfattismo economico e sociale” a rilanciare il suo “disfattismo di guerra” su scala internazionale.     



 

[1] Cfr. “Iran: Religiosa o laica, democratica o bonapartista, la borghesia va abbattuta”, Il programma comunista, n.4/2009. [back]

[2]  Cfr. “La rivolta d’Iran nella sfida Obama –Israele”, Limes, n°4, 2009. [back]

[3] Cfr. Wikipedia: Mir-Hosein Musavi. [back]

[4] “Feroce repressione contro i lavoratori in Iran”, articolo del New York Post, riportato in www.loccidentale.it [back]

[5] “Iran: Religiosa o laica, democratica o bonapartista, la borghesia va abbattuta”, cit. [back]

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°01 - 2010)

 

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