DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

L’esito dei recenti referendum tenutisi in Francia e in Olanda sulla ratifica del Trattato di adesione alla sedicente Costituzione Europea ha innescato un’inevitabile serie di reazioni a catena: è stato messo alle corde ogni velleitarismo di unificazione e gli organi comunitari sono stati costretti a frenare il processo in corso, anche perché il governo inglese ha rinviato sine die la fissazione dei tempi e dei modi dell’approvazione e dell’adesione britannica al Trattato stesso, presto imitato da altri Stati membri che hanno rinviato gli altri referendum previsti.

Nello scorso numero di questo giornale, avevamo sottolineato come – a dispetto della costruzione dell’euro – il processo di unificazione sopranazionale europea fosse destinato a rimanere una chimera, nell’ambito di un modo di produzione, come quello capitalistico, che ha per scopo ultimo l’accumulazione di capitale e in cui la lotta concorrenziale fra aziende e fra Stati si svolge senza limiti, per la spartizione del prodotto mondiale e delle posizioni migliori per poter contare di più in quella spartizione. Il capitalismo conosce solo le crisi e le guerre come elementi regolatori del suo sviluppo ineguale che, portando con sé una modifica dei rapporti di forza fra potenze, rendono inevitabilmente determinate le alleanze (fra Stati come fra aziende concorrenti) – cioè fondate sempre sui rapporti economici e sociali privatistici propri del capitalismo, e perciò transitorie. Il superamento dei limiti nazionali, che pure è conseguenza inevitabile dello sviluppo del mercato mondiale, non può trovare ratifica nelle forme politiche espressione di una società classista ed ogni tentativo in tal senso non va letto come mezzo di “pace” (il superamento degli egoismi nazionali, l’unione dei popoli, e balle simili), ma come ulteriore strumento di “guerra” e rappresentazione sul piano politico del processo di concentrazione e centralizzazione che si accompagna allo sviluppo dell’accumulazione del capitale. L’Unione Europea  non può uscire da questa dinamica e ogni velleità di trasformazione da quella che è per essenza un’alleanza interstatale (gestita da comitati intergovernativi) in unione politica è destinata a rimanere lettera morta, sotto il peso di contraddizioni sistemiche a cui non si può mai opporre – secondo le ferree leggi della storia – una risposta volontaristica. Il fallimento del vertice europeo del 1618 giugno sul bilancio 20072013 è stato un’ennesima cartina al tornasole degli insopprimibili egoismi nazionali latenti in seno all’attuale Ue, allargatasi a 25 membri. Il bilancio comunitario, che per il 75% circa è destinato all’agricoltura e ai cosiddetti fondi strutturali (ovvero agli interventi a sostegno dell’economia delle regioni meno ricche dei vari paesi) non è stato approvato per contrasti insanabili sul dare e l’avere dei vari Stati all’Ue: in particolare, per le reciproche rigidità mostrate da Germania, Francia e Gran Bretagna, in merito al rapporto fra contributo al bilancio e destinazione dei fondi. In realtà, dietro la logica del bilancino contabile si celano contraddizioni insanabili fra la visione tedesca, francese o britannica dell’Europa contraddizioni che il processo di allargamento a Est ha amplificato inesorabilmente, complice una situazione di crisi economica che rende sempre più difficile (e costoso per la difesa degli interessi nazionali) smussare gli angoli ai vari contendenti. Si è arrivati ormai ai famosi nodi al pettine: già gli schieramenti (pro o contro l’iniziativa unilaterale americana) durante la guerra all’Iraq avevano messo in evidenza come, nonostante anni di ingenti investimenti esteri all’est exsovietico, la Germania non riuscisse a mantenere anche politicamente il controllo di Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Romania, mentre la Gran Bretagna riusciva a trovare alleati (Spagna e Italia nell’occasione) a sostegno delle proprie posizioni filoamericane, confermandosi la testa di ponte dell’imperialismo americano in seno all’Ue e ciò anche per ragioni legate al proprio interesse nazionale, per il quale è centrale il mantenimento dell’autonomia monetaria e finanziaria della sterlina . L’assenza di un’autonoma industria degli armamenti e di un proprio esercito è risultata esiziale alla possibilità di una strategia di politica estera comune, la cui mancanza è un dato oggettivo corrispondente all’impossibilità di una politica unitaria che non sia di mediazione o di coordinamento. Per la Germania – di fatto il maggior contribuente Ue e il minor beneficiario – si è trattato di un punto di non ritorno, che non tarderà a pesare sugli equilibri interni all’Ue, e questo al di là delle dichiarazioni di facciata e delle avvenute ricomposizioni ufficiali. E’ arrivato al capolinea il tentativo tedesco di perseguire un’estensione della propria politica di potenza contando sulla rappresentanza comunitaria e sul riparo che questa ha potuto fornire ai timori della rinascita del “mostro tedesco” dopo la riunificazione e il crollo dell’imperialismo sovietico. L’economia tedesca nell’ultimo decennio del secolo ha avuto tassi di crescita medi dell’1,7%, inferiori al resto dell’Ue e metà di quelli degli Usa, perdendo posizioni soprattutto nel campo dell’industria ad alta tecnologia, e negli ultimi anni tale tasso si è ridotto a medie dello 0,50,7%, contro l’1,5% medio del resto dell’Unione. Parallelamente a ciò, si sono prodotti un vertiginoso aumento della disoccupazione, oggi stimata a circa il 10% della forza lavoro attiva, e un crollo della quota tedesca nel commercio mondiale da un 1112% all’89%. Se l’introduzione dell’euro è stata inizialmente concepita come una ridenominazione dell’allargamento dell’area del marco, facendo pagare agli altri membri aderenti all’unione monetaria il costo degli aggiustamenti di bilancio in termini di aumento dei tassi d’interesse e perdita della leva del cambio a fini di competitività sui prezzi internazionali, oggi è proprio la potenza tedesca a trovarsi prigioniera dei parametri e dei vincoli imposti ai bilanci nazionali dalle politiche comunitarie, nel momento in cui – al contrario – la ristrutturazione delle forze armate (avviata dalla sentenza della Corte costituzionale di Karlsruhe che consentiva alla Bundeswehr di operare fuori area nel 1994 e accelerata a partire dagli interventi in Kossovo nel 1999 e nel Corno d’Africa nel 2002) impone nuovi e maggiori costi per ritrovare la tanto sospirata, per la borghesia tedesca, libertà di azione politica in difesa dei propri interessi nazionali. Il proletariato – imbonito e disarmato dai suoi sindacati ufficiali – ha pagato finora un prezzo molto pesante sull’altare dell’“unificazione europea”. L’euro – e soprattutto le politiche che ne hanno costituito le basi e i tempi della sua realizzazione, in particolare il Trattato di Maastricht – ha rappresentato fino ad oggi lo strumento con cui la borghesia europea ha potuto lanciare quasi indisturbata un attacco insperato alle condizioni materiali dei lavoratori europei: dalla flessibilità e precarizzazione estrema del rapporto di lavoro ai trattamenti sanitari e pensionistici, dall’incremento dell’intensità del lavoro e del dispotismo sul lavoro all’aumento della disoccupazione e delle varie forme di sottoccupazione, netto è stato l’arretramento delle condizioni proletarie (e in generale anche delle mezze classi impiegatizie), mentre l’accentuazione dell’insicurezza lavorativa e del futuro (in particolare per le generazioni di lavoratori più giovani) è divenuta ormai la regola generale del “mercato del lavoro” europeo, osannata dalla compiacente stampa di regime come icona di modernità (la stessa stampa che poi si stupisce e versa lacrime di coccodrillo a proposito del “crollo dei consumi”), ma potente conferma della teoria di Marx sulla “miseria crescente” che storme di opportunisti e gazzettieri della classe avversa hanno inutilmente cercato di misurare con il livello alto o basso del salario. La disoccupazione ufficiale in tutta l’Unione è cresciuta dal 7,4% all’8,1% nel periodo 20012004, con punte maggiori in Germania (come visto sopra) e più ancora negli Stati dell’Est europeo ammessi di recente. La quota della massa salariale sul prodotto totale (per quello che può essere il valore indicativo di queste statistiche) si è ridotta dal 70% precedente l’Atto Unico di Maastricht a poco meno del 68% odierno, il punto più basso dagli anni Sessanta. Banali conferme matematiche a risposta della domanda “a chi serve l’Europa?”. Tutta la dinamica della costruzione in Europa di un blocco economico (riuscita in grande misura nello scopo di sostenere la competitività del capitale europeo) e politico (fallita, per l’insopprimibile antagonismo dei capitali in concorrenza) è avvenuta sotto il segno della necessità del capitale europeo di dotarsi di una strumentazione e di un peso maggiore nella competizione imperialistica mondiale. Non poteva perciò che essere reazionaria rispetto agli interessi storici, di classe, del proletariato, europeo e non. Questa costruzione sarà destinata a rovinare sotto la spinta dei particolarismi che sono iscritti nel DNA della classe borghese di ogni nazione e che la sferza della crisi accentuerà fino alla contrapposizione aperta in difesa dei propri interessi sul mercato mondiale. Non può esistere nessuna inversione di tendenza che sia basata sulle stesse premesse e il proletariato deve respingere tutte le sirene sull’“Europa sociale”, “delle patrie”, “dei diritti”, ecc., opponendo alle compatibilità borghesi e ai sacrifici in nome dell’Europa o della nazione (e dunque alla salvaguardia dei profitti e dell’economia nazionale) la difesa intransigente delle proprie condizioni materiali, fino alla riorganizzazione economica di classe e all’inquadramento sotto la guida del Partito e della teoria marxista, unica strada che può portare alla società senza nazioni e senza classi.

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°04 - 2005)

INTERNATIONAL COMMUNIST PARTY PRESS
We use cookies

Utilizziamo i cookie sul nostro sito Web. Alcuni di essi sono essenziali per il funzionamento del sito, mentre altri ci aiutano a migliorare questo sito e l'esperienza dell'utente (cookie di tracciamento). Puoi decidere tu stesso se consentire o meno i cookie. Ti preghiamo di notare che se li rifiuti, potresti non essere in grado di utilizzare tutte le funzionalità del sito.