DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

 

Per non dimenticare

 

Continuiamo e concludiamo questa serie di articoli sul “1968 operaio”, questa volta passando in rassegna le lotte di un biennio senza dubbio caldo, sulla base degli interventi sviluppati dal nostro Partito, sia sulla sua stampa sia nell’attività reale delle sue sezioni. I due articoli precedenti (apparsi sui nn. 3 e 4 di questo giornale) sono stati dedicati rispettivamente agli eccidi dei proletari di Avola e Battipaglia (1968 e 1969) e al Maggio operaio francese 1968.

 

 

 

Il biennio 1968-1969 in Italia fu senza dubbio una fase di risveglio della classe operaia sul piano delle lotte in difesa delle condizioni di vita e di lavoro. La percezione reale dello sfruttamento e dell’immiserimento fu diffusa e le risposte spontanee dei lavoratori furono spesso così ampie che la volontà di reprimerle, da parte di tutte le forze politiche e sindacali, non riuscì facilmente nello scopo.

Ovviamente, non c’è paragone con il quinquennio di transizione 1943-1948 (quando le posizioni politiche di classe erano, in certa misura, ancora vive e lo Stato, in parte disarticolato dalla guerra, aveva spinto al massimo il suo attacco, causando centinaia di morti fra i proletari), né con il successivo triennio 1949-1952 (durante il quale la classe fu costretta a piegarsi sotto i colpi di una repressione attiva di grande ampiezza, con l’intervento rapido, in ogni parte del territorio nazionale, della famosa Celere e con il parallelo intervento antiproletario della sinistra borghese). Dalla metà degli anni ’50, poi, mentre si rafforza e completa la capacità repressiva statale, lo sviluppo economico (industriale e agrario) della ricostruzione postbellica riduce drasticamente la sindacalizzazione e la conflittualità, sotto la pressione di pesanti ritmi di lavoro e della concorrenza massiccia dell’emigrazione interna dal Sud.

Già dall’inizio degli anni ’60, tuttavia, il ciclo si inverte e le lotte si ripresentano: gli operai riprendono a battersi, non solo per difendere le condizioni di lavoro, ma anche per raggiungere una condizione di vita e di consumo di cui tutti gli strati della piccola e media borghesia già godono a piene mani. Il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro mediante la lotta appare dunque urgente, e si scontra con l’occhiuta vigilanza opportunista sindacale e politica: il proletariato è quindi indotto a cercare, almeno in una sua piccola minoranza, nuovi metodi e strumenti di lotta, una nuova direzione sindacale e politica nelle lotte economiche.

Lo scenario però è cambiato: la democrazia postfascista ha rafforzato le proprie gambe, è già una “democrazia matura” (ovvero “blindata”) e può permettersi un suo percorso sicuro verso una maggiore stabilità, con un sostegno “da sinistra” sia in ambito governativo (PSI) che da parte della finta opposizione (PCI). Con lo sviluppo industriale, è cresciuta anche la forza numerica e la determinazione di lotta dei lavoratori nel ciclo positivo di accumulazione del capitale. La spontaneità operaia tende a rompere il clima della pacificazione sociale, ma il ponte con le posizioni di classe è stato tagliato, e non c’è possibilità di sostituirlo con travature volontaristiche e attivistiche.

L’operaismo piccolo-borghese degli anni ‘60, che nasce dallo stesso ceppo ideologico borghese e dallo stesso sviluppo capitalistico, e si organizza esternamente al “partitone” duramente contestato, si sovrappone a questo processo di sviluppo di una volontà di lotta, fungendo da vera e propria sponda alla realtà collaborazionista ormai esplicita. Per non farsi mettere da parte rapidamente, deve dunque rispolverare le medaglie arrugginite (resistenziali, popolari, democratiche) e scopre così una “specie protetta” di “operai-aristocratici” (lavoratori normalizzati, sindacalizzati e politicizzati, burocrati che non usano mezze misure nel liquidare gli avversari in difesa della nazione, dello Stato borghese e della cinghia di trasmissione borghese – il sindacato di regime), a cui contrappone i giovani operai, precari, meridionali, non qualificati. Nasce allora il mito di un nuovo “soggetto rivoluzionario”, capace di per sé di dare slancio, forza e determinazione al movimento partendo dalle lotte di fabbrica: sempre però negando a esso, per contrasto, la necessità sia dell’organizzazione sindacale di classe, centralizzata e territoriale, sia, soprattutto, del partito rivoluzionario.

Contro questo sviluppo contraddittorio e magmatico, la polizia e i suoi tirapiedi non andarono per il sottile. Nel biennio 1968-1969, quelle “scintille di coscienza” di cui parla Lenin, che si sprigionano dalla difesa coraggiosa delle proprie condizioni di vita e lavoro, ma anche dall’antivedere, sia pure in maniera vaga e incompleta, la finalità storica della classe oltre l’orizzonte della difesa economica, misero spesso in discussione le istituzioni e la retorica del “miracolo economico”. Lo stato passò dunque alle vie di fatto, in occasione dei numerosi movimenti sprigionatisi dalle fabbriche che non riuscirono tuttavia mai a convergere in un fronte unitario, per l’ostacolo costituito non solo dall’abile strategia di “articolazione delle lotte”, ma anche da quell’economicismo operaista che faceva della fabbrica “il corpo e l’anima della classe” – lascito devastante del gramscismo, figlio della socialdemocrazia e fratello dello stalinismo.

Il biennio rappresentò di fatto la fine dell’accumulazione postbellica, e annunciava una crisi economica profonda, quella di metà degli anni ‘70 (da noi prevista fin da metà degli anni ’50), con cui si sarebbe aperta una nuova lunga fase prebellica, in cui siamo immersi tuttora. Furono anche gli anni della riforma della pensioni e della fine delle gabbie salariali, gli anni dei grandi scioperi generali in Francia (maggio ’68) e dell’inizio della strategia della tensione con la strage di piazza Fontana (dicembre ‘69); ma anche della messa in conto antiproletario dello Statuto dei lavoratori (20 maggio 1970). Una nuova catena di illusioni lega mani e piedi i proletari: lo “status sociale nuovo”, la nuova “dignità del lavoro”, consegneranno i proletari a una nuova passività regolamentata e soffocata, intimidita e blindata.

 

Le lotte di fabbrica

Nel corso di quel biennio, furono tante le lotte aziendali che lasciarono il segno: in ogni parte d’Italia, è un susseguirsi di agitazioni contro i ritmi di lavoro, contro gli straordinari, contro i cottimi, in difesa del salario, contro i licenziamenti, contro il ventaglio delle qualifiche. In ciascuna di esse, “nuovi” metodi di lotta, “nuove” forme di organizzazione (riscoperti dopo il lungo periodo fascista e l’altrettanto lungo periodo del suo gemello democratico), furono al centro degli scontri: blocchi della produzione e delle catene di montaggio, picchetti, scioperi improvvisi, riduzione dei ritmi di lavoro, assemblee dentro e fuori la fabbrica.

Molto spesso, gli operai scavalcano le organizzazioni sindacali ed escono dalle fitte maglie interposte loro dalle Commissioni interne, che entravano in funzione solo e unicamente nei momenti di rinnovo contrattuale, secondo un “patto del lavoro” stabilito per favorire la ricostruzione postbellica, con i delegati eletti dalle liste delle tre Confederazioni a costituire il primo paraurti contro le lotte spontanee. Nel corso di assemblee spontanee imposte con forza dagli operai, nascono i “delegati di reparto e di linea” e quindi anche i Comitati unitari di base (Cub), costituiti da delegati operai non necessariamente iscritti al sindacato, ma per lo più usciti dalla CGIL e politicizzati; e da questi nascono poi i Consigli di fabbrica, alla fine regolamentati dalle stesse Confederazioni (con le RSA, rappresentanze unitarie aziendali).

La struttura gerarchica delle corporazioni sindacali, la forte centralizzazione, la delega aziendale  (mezzo di raccolta materiale dei contributi sindacali), riusciranno a inghiottire tutte quelle forme organizzative spontanee nate su un terreno di fabbrica, a dimostrazione da un lato delle illusioni democratiche operaie ed operaiste e quindi della debolezza di fondo della risposta operaia e, dall’altro, del loro ruolo di punti di forza dell’aristocrazia operaia sindacale [1].

 Le lotte per la difesa delle condizioni di vita e di lavoro si saldano dunque a quelle contro le deleghe aziendali, contro le direzioni sindacali che rallentano, boicottano e avversano le lotte, contro lo spezzettamento per regioni, province, categorie. A gennaio 1968, iniziano gli operai del Petrolchimico di Marghera e del cantiere navale Brera, gli autoferrotranviari (Sita) di Savona e La Spezia e gli operai della Stifer di Pomezia; a febbraio, gli operai della Pirelli (gomme), della Olivetti di Ivrea (macchine da scrivere); a marzo-aprile, della Fiat (auto), della Marzotto di Vadagno (tessili), della Maraldi di Forlimpopoli (metallurgici), oltre ai netturbini di Napoli; a maggio, è la volta dei lavoratori della Saint Gobain (vetri) e a giugno dei tipografici della Apollon; a dicembre, c’è l’eccidio dei braccianti di Avola (seguito, nell’aprile ’69, da quello di Battipaglia, nel corso delle agitazioni dei tabaccai), mentre a ottobre scendono in lotta anche i marinai delle Navi traghetto di Messina, gli edili a Catania, e, durante tutto il cosiddetto “autunno caldo”, i metalmeccanici.

Pur con le poche forze a sua disposizione, il nostro partito partecipò a queste lotte o direttamente (dall’interno delle fabbriche, con i suoi militanti iscritti alla Cgil) o nelle assemblee sindacali (spesso con il sostegno della base operaia a impedire il tentativo di espulsione dei nostri compagni, operato dai burocrati di turno, come a Ivrea e Belluno), o nelle manifestazioni e dimostrazioni esterne: le cronache, i volantini, i commenti alle lotte, le direttive sulle varie questioni, le piattaforme operaie, apparvero su “Il programma comunista” e nei “fogli di battaglia sindacale”, “Spartaco” (fino ad aprile ’68) e “Il Sindacato Rosso”. In tutte le lotte di fabbrica, il nostro partito e i nostri compagni  furono in prima fila, ostacolati non solo dalla reazione dei bonzi sindacali, ma anche dagli “estremisti dell’ultima ora”, scorie di riflusso proprie dei partiti opportunisti e piccolo-borghesi, nello stesso tempo in cui si creavano occasioni e si scioglievano rapidamente fronti operai di lotta. Vediamo alcuni esempi.

Nell’aprile 1968, il n. 7 di “Spartaco” esce con un lungo testo-volantone sulle lotte di fabbrica, dal titolo eloquente che riassume l’insieme delle rivendicazioni (la questione della “settimana corta” e dello “sforzo massimo ammissibile”), incitando allo sciopero generale ad oltranza senza limiti di tempo). Lo riproduciamo in parte di seguito, concentrandoci sulle lotte alla Fiat:

 

“Intensificare e generalizzare le lotte operaie per la riduzione della giornata lavorativa a sei ore a parità di salario e l’aumento sostanziale dei salari, senza cottimi, straordinari, incentivi, premi.

“Dopo lo sciopero generale del 7 marzo scorso, imposto dalla classe operaia a partiti e sindacati, e unitario, non in virtù di accordi tra i vertici sindacali, che erano contrari alla manifestazione proletaria, ma per la volontà di classe dei lavoratori; dopo questa magnifica azione, le Centrali sindacali hanno tratto l’unica lezione che loro accomodasse, cioè hanno capito che diventa sempre più pericoloso tener lontane le masse dalla lotta e che è necessario, per evitare il generalizzarsi degli scioperi, prenderne l’iniziativa indicando obiettivi rivendicativi ed economici equivoci, controproducenti ed anche falsi, e intensificando il metodo dello spezzettamento delle agitazioni.[…]

“Da circa due settimane sono riprese, su questa falsariga, le agitazioni nei principali stabilimenti italiani, soprattutto del Settentrione per il miglioramento dei cottimi e per la ‘revisione dell’orario di lavoro’, ‘per stabilire quale sia lo sforzo massimo sopportabile dall’operaio senza che la sua integrità fisica e psichica ne subisca danno’ (sono frasi dei bonzi che desumiano dall’Unità del 4 aprile).

“Alla Fiat vi è stato un primo sciopero il 30 marzo e un secondo il 6 aprile […] Lo sciopero è stato pressoché totale e le rivendicazioni richieste si sono concretate nella settimana di 44 ore per 45 pagate, nella ‘settimana corta’, cioè con il sabato festivo, per gli impiegati e il personale non turnista. […]

“La ‘settimana corta’ non è una riduzione dell’orario di lavoro, non riduce lo sforzo lavorativo degli operai addetti alla produzione, non consente il recupero delle energie consumate durante la settimana, non conserva neppure l’integrità psico-fisica: la settimana corta significa massima tensione e concentrazione dello sforzo lavorativo, anziché in sei giorni, in cinque giorni produttivi. E’ anzi, un piacere che viene fatto all’azienda, la quale può risparmiare decine e decine di milioni di contribuzioni previdenziali per la parte fissa del contributo a carico delle aziende, e ha a disposizione altre quattro ore del sabato per stimolare o obbligare i lavoratori al lavoro straordinario. In una parola, la settimana corta è un aumento della intensificazione del lavoro, è il raggiungimento di un risultato esattamente opposto a quello che i bonzi propagandano tra gli operai.

“Per impedire il disumano ed inaudito sfruttamento delle energie operaie non si ricorre alla settimana corta, non si intensifica il lavoro, non si ripara con l’aumento del salario in ragione di un’ora la settimana[...] e a maggior ragione non si risolve con il miglioramento dei cottimi, nemmeno se questi venissero raddoppiati di fronte all’attuale livello che , per ammissione dei sindacati, è di misere 60 lire l’ora.

“In sette anni […] i salari sono rimasti sostanzialmente gli stessi, perché gli aumenti nominali sono stati annullati dal rincaro della vita. Noi parliamo degli operai – non intendiamo parlare dei guardia ciurma, dei colletti bianchi, dei tecnici, degli aguzzini al servizio del padrone, per i quali e solo per i quali vengono inventati miglioramenti perché possano “studiare” i sistemi migliori per sfruttare fini all’ultima goccia di sangue il proletariato alle “giostre”, alle “transfert”, alle “catene” di montaggio; perché non gli diano un attimo di respiro.

“Il Sindacato di classe non si pone come obiettivo di ‘stabilire quale sia lo sforzo massimo sopportabile dall’operaio’; questo è il compito dei padroni, e i bonzi, nel rivendicarlo, non fanno che appoggiare gli interessi delle aziende, del padrone, del capitalismo. Il sindacato di classe, al contrario, deve stabilire quale è lo sforzo minimo sopportabile per l’operaio. Questo obiettivo soltanto lottando per la RIDUZIONE DRASTICA DELL’ORARIO DI LAVORO E PER L’AUMENTO DEL NUMERO DEGLI OPERAI OCCUPATI.

“Questo significa – è verissimo – aumento dei maledetti costi unitari di produzione; significa per l’azienda e per le aziende tutte la riduzione anche essa drastica, del profitto; significa, infine, la vera e storica vittoria non del sindacalismo riformista, del tradimento accomodante, ma dell’economia sociale. A questo nessuno vuole arrivare, né le aziende, né i governi, né gli strati aristocratici del lavoro, né i partitacci opportunisti, parlamentari e democratici, né le ignobili bande di ruffiani, burocrati, carrieristi, di qualsiasi centrale sindacale. MA LO VOGLIONO, LO DEVONO VOLERE LE GRANDI MASSE DEGLI OPERAI schiacciati sotto il peso mostruoso di un meccanismo che non tollera soste, che chiede da ciascun lavoratore, sia tessile, metallurgico, falegname, chimico, agricolo, meridionale, o settentrionale, italiano o cinese, russo o statunitense, europeo o asiatico, africano o americano, tutto il fiato che ha in corpo.

“Questa rivendicazione di classe, storica, universale, della classe operaia, decreta da se stessa la condanna dell’economia aziendale, nazionale , capitalistica. Per questo essa non è seriamente ottenibile con gli scioperi aziendali, parziali, separati.

“Lo sciopero generale, di tutte le categorie, del proletariato internazionale, è l’arma essenziale, vittoriosa per impedire al capitalismo lo sfruttamento dei lavoratori. Sullo slancio di questa gigantesca battaglia di massa, e solo su di essa, passa la via maestra della lotta politica per l’abbattimento del capitalismo. […]”.

 

 

La lotta contro le deleghe sindacali

La questione delle deleghe sindacali ci vide al centro di una grande battaglia, soprattutto in quelle fabbriche in cui i nostri compagni avevano legami di lunga durata – legami di lotta sui tanti aspetti della difesa delle condizioni di vita e di lavoro. Il contratto 1965-‘68 fu chiamato il “contratto-delega”, perché per la prima volta venne istituita la trattenuta sindacale con apposite deleghe: ogni lavoratore doveva scegliere a quale sindacato iscriversi. I firmatari del contratto aderirono ovviamente con grande trasporto a questa compartecipazione padroni-sindacato: la CGIL costruì addirittura apposite “cassette rosse” fuori dalla fabbrica, dove tutti i simpatizzanti potessero depositare la loro delega; in mano ai partecipanti veniva messo il contratto da poco firmato, e chi non partecipava a questa “democrazia blindata” restava fuori dal contratto. Due anni dopo (1967), apparvero le deleghe sindacali unitarie e scomparvero anche le cassette rosse. Attraverso le deleghe, i sindacati si ripromettevano di aumentare le quote di iscrizione e di riscuoterle direttamente dal padrone, con una trattenuta mensile sul salario; l’accettazione della delega permanente era il riconoscimento di un’attività professionale corporativa, di fronte alla quale si entrava in bilancio di un’organizzazione fascistizzata.

Di contro, in fabbrica, l’intensificazione dei ritmi, l’aumento dello sfruttamento, le misure disciplinari avevano innescato una sorda resistenza operaia, con scioperi e fermate improvvise contro il cottimo, le qualifiche, il salario. Per un po’, si ebbe anche fiducia che l’unità delle tre Confederazioni avrebbe portato a piattaforme più avanzate e la scadenza contrattuale 1968-‘71 fu preceduta da assemblee nelle varie sedi sindacali; ma più spesso furono le assemblee ottenute con la forza all’interno delle fabbriche e la ribellione ormai generale sulle pensioni a far capire che il vento di lotta cresceva di intensità. Gli scioperi rituali indetti per il rinnovo contrattuale e le firme degli accordi stavolta venivano accolti con grande freddezza e poi con rabbia dentro i reparti: dilagò il rifiuto delle deleghe e furono strappate le tessere. Furono molti i cortei che sfilarono fuori dalle fabbriche, contro i sindacati: a Ivrea gli operai della Olivetti, in Toscana i calzaturieri, a Porto Marghera gli operai della Acnil, e poi i lavoratori della Pirelli. In moltissime altre situazioni, fu denunciato il ricatto delle gerarchie sindacali sulle deleghe, fu smascherata la funzione servile dei sindacati.

A tutto ciò, il nostro foglio di battaglia “Spartaco” diede ampio rilievo. Il nostro attacco alle gerarchie sindacali, tuttavia, non voleva implicare l’abbandono dell’organizzazione, ma il suo potenziamento in senso classista, con il rovesciamento del contenuto controrivoluzionario ormai assunto e la presa in forza della direzione nelle mani dei fiduciari operai. La questione delle deleghe era uno dei mezzi per portare a un livello generale, non solo di fabbrica, il malcontento, l’insoddisfazione operaia e la lotta, che finiva altrimenti per chiudersi in un economicismo localista, destinato a portare prima allo scontro tra le diverse “anime politiche” (per esempio, Avanguardia operaia e Lotta continua, alla Pirelli), ai diversi pruriti individuali, alle rivendicazioni più contraddittorie (contrattazioni dei cottimi, dei ritmi di lavoro, dei turni), e poi, inevitabilmente, alla sconfitta.

Il nostro volantino distribuito alla Olivetti di Ivrea, sulla questione delle deleghe, così recitava:

 

“Proletari della Olivetti […] Le deleghe sindacali conferiscono al padronato un potere diretto sulle organizzazioni operaie. Operai, urge impedire questo atto criminoso escogitato dai vostri capi! Contrapponetegli la vostra rete di operai fedeli agli interessi di classe, contrapponetegli i vostri collettori, che nell’assolvere la funzione specifica di vostri fiduciari nella riscossione dei contributi, agiscano di collegamento tra compagni in una rete di difesa operaia dalle influenze dei padroni e dei loro manutengoli. Sia dunque la parola d’ordine: Giù le mani dai soldi degli operai!

“Rifiutare la delega alle direzioni padronali, non significa abbandonare il sindacato. Al contrario significa potenziarlo quale organizzazione di classe cui dovete affluire nel numero maggiore possibile, e sostenerlo versando i contributi direttamente alle casse sindacali, o meglio nominando voi stessi i collettori di fabbrica, di reparto di zona, scegliendoli tra i compagni di lavoro.

“Di fronte alla politica controrivoluzionaria, prona alle esigenze del padronato, di fronte al dilettantismo dei duci sindacali, NOI COMUNISTI riaffermiamo l’esigenza di lavorare e  di utilizzare tatticamente in chiave rivoluzionaria il sindacato di classe (Lenin: il sindacato, cinghia di trasmissione del partito di classe) in netto contrasto sia con quanti ritengono possibile stabilire una collaborazione e nel contempo guidare la classe verso la ripresa della sua funzione anticapitalistica sovvertitrice, sia con quegli illusi immediatisti che ritengono possibile un ritorno del proletariato alla lotta rivoluzionaria senza peraltro ritenere necessario il duro lavoro che mira a riattivare le organizzazioni economiche di classe, senza di che non è possibile estendere, approfondire, irrobustire la lotta economica, onde elevarla dal piano immediato locale a quello politico e generale.”

 

Quando poi, nel febbraio del ’68, i bonzi sindacali della Olivetti di Ivrea, con un provvedimento disciplinare, negarono l’iscrizione all’intero nostro gruppo di fabbrica, composto da militanti e simpatizzanti, per aver rifiutato di rilasciare la delega alla direzione padronale della Olivetti, così rispondemmo su “Spartaco”:

 

“Ce ne infischiamo!

“[…] Non è la questione delle deleghe che ha indotto i capoccia a cacciare i proletari rivoluzionari […] Per i duci sindacali è stato un pretesto, non l’unico, né l’ultimo, col quale impedire o credere di impedire ai comunisti di diffondere tra le masse operaie organizzate il grido di riscossa rivoluzionaria. Essi hanno paura che l’azione comunista faccia presa sui lavoratori, perché sanno di spingere la classe verso la rovina completa, di spezzare anche le ultime vestigia dell’organizzazione sindacale. Sanno che per godersi il frutto del loro tradimento, devono servire i padroni e lo Stato capitalista ed eliminare i comunisti. […] I nostri militanti e simpatizzanti pur non avendo in tasca la tessera della CGIL, sono militanti del sindacato di classe, e, in tale posizione non cesseranno un istante dal propagandare tra le masse il glorioso programma per la difesa dei lavoratori dal capitalismo, dallo Stato e dai bonzi sindacali: non cesseranno un istante di mettere in guardia i proletari contro la politica di asservimento dei sindacati allo Stato […]”

 

 

Il falso problema della “democrazia sindacale”

Le numerose lotte di quei mesi avevano portato a un diffuso malcontento fra le masse operaie, tale da spingere alcune avanguardie operaie a uscire dal ghetto di fabbrica e tentare la strada della lotta a oltranza contro il padronato e contro le gerarchie sindacali, proponendo un fronte unico sindacale a partire dalle realtà di lotta e in direzione del sindacato di classe. Ma l’illusione che da lì si potesse passare anche a un fronte politico per la rinascita del partito di classe annebbiava loro la vista.

Il biennio 1968-‘69 forniva il materiale occasionale, immediato, contingente (le lotte proletarie in diversi parti d’Europa, tra cui il Maggio francese), ma certo non la coscienza di classe, che non è frutto diretto delle lotte operaie, anche le più accese, bensì memoria storica di vittorie e sconfitte, di teoria e azione (programma, principi, finalità, organizzazione legati assieme in un tutto dialetticamente organico – in una parola, il partito rivoluzionario). Così, si tentava di scalzare le gerarchie sindacali con la rivendicazione della “democrazia sindacale”, quella “vera”, quella “operaia”. In un articolo pubblicato su “Il programma comunista” (n.3/1968, “Il partito di classe è uno solo”), il nostro partito affrontò questo tema, rispondendo indirettamente a una “Lettera aperta” che un gruppo di avanguardie avevano fatto pubblicare dalla Libreria Feltrinelli:

 

“[…] Circa la denunzia di lesa ‘democrazia’ nei sindacati, ‘democrazia’ che non sappiamo bene come mai gli autori ritengono avvilita soltanto in questi ultimi anni, vogliamo precisare che, se per democrazia operaia si intende il corretto svolgimento della vita sindacale secondo l’organico svilupparsi dei rapporti tra i vertici e la base dell’organizzazione, questa non dipende da un meccanismo statutario, formale, costituzionale, ma dal giusto indirizzo di classe che la centrale è in grado di diffondere nelle masse organizzate. E’ così che si realizzano inoltre la disciplina nell’azione e l’accordo sul programma.

“Se, invece, per democrazia operaia si intende la ‘libera’ esistenza di correnti e frazioni nel sindacato, come in qualunque altro organismo operaio di massa, e il ‘libero’ esercizio delle loro funzioni, allora noi diciamo che questa democrazia testimonia il prevalere dell’opportunismo in seno alle masse e in seno alle organizzazioni proletarie, e che questo prevalere non è da attribuirsi alle ‘correnti’ o frazioni, ma ad un rapporto di forze sfavorevole all’avanguardia rivoluzionaria. Infatti, nel momento in cui la frazione rivoluzionaria comunista prevarrà tra le masse, le correnti, cioè l’organizzazione di partiti opportunisti nelle associazioni operaie, non esisteranno più, non certo per disposto statutario ma per prevalenza dell’ondata rivoluzionaria. In ambedue le accezioni della ‘democrazia’, è chiaro che una forza politica non prevale piuttosto che un’altra per la virtù taumaturgica di statuti, disposizioni formali, o simili. Ma è altrettanto evidente che, se alla ‘democrazia’ vogliamo dare il primo significato, di organico rapporto fra base e dirigenza, fra esecuzione e direttiva, allora questa è pienamente realizzata, proprio nel caso dell’inesistenza di frazioni e correnti [...].

“E con ciò ci sembra di aver confermato sufficientemente l’assunto fondamentale del programma comunista marxista che la democrazia è una mistificazione, e deve essere espulsa una volta per tutte dal movimento operaio anche come accezione rivoluzionaria. E’ ora di chiamare le cose con il loro nome, di non nascondere dietro tattiche e diversivi il reale significato dell’azione comunista. E’ quindi giusto in polemica e in agitazione rinfacciare ai bonzi sindacali il mancato rispetto della ‘democrazia’, come essi l’intendono, cioè come ‘libero’ esercizio di frazione e corrente, per difendere la frazione rivoluzionaria anche sul piano formale e statutario, ma non certo con l’argomento che al loro posto riconosceremmo diritto di rappresentanza sindacale a correnti opportuniste o d’ispirazione opportunista. Il partito della rivoluzione non può permettersi lussi del genere. Gli estensori della ‘lettera aperta’ prendono le mosse e incentrano la loro critica alla CGIL, e ai partiti opportunisti che l’ispirano, sull’‘accordo quadro’, e non esaminano tutti gli aspetti controrivoluzionari della politica confederale, come la sistematica distruzione degli organi operai sui posti di lavoro, i collettori, sostituiti con le ‘deleghe’ alle direzioni aziendali, la sistematica espulsione degli operai rivoluzionari dai sindacati, l’appoggio reciproco tra braccio statale (sentenze della magistratura che riconoscono l’inapplicabilità dei contratti di lavoro per i lavoratori che non siano inquadrati in sindacati) e braccio sindacale (le dirigenze sindacali che diffondono le sentenze della magistratura tra gli operai a mo’ di ricatto); l’istituzione delle sezioni sindacali d’azienda aventi poteri decisionali in fabbrica; l’istituzione delle commissioni paritetiche tecniche e amministrative per dirigere controversie tra maestranze e direzioni eliminando l’azione diretta, anche nella stessa fabbrica, degli operai”.

 

A proposito della consultazione referendaria della base come panacea universale ed eterna contro il distacco burocratico tra base e centro sindacale, un altro articolo, dal titolo “La CGIL scopre…la democrazia”, va al fondo della piaga:

 

“[…] Il dirigente sindacale, dopo questa grande scoperta non dovrà fare più alcuno sforzo né d’intelligenza, né di sensibilità o altro; gli basterà fare una consultazione e la massa parlerà per lui. Vogliamo aiutarli anche noi con un consiglio per completare questo magnifico progetto: cercate di installare nei vostri uffici qualche moderno cervello elettronico, che oltre a rendere più rapide le consultazioni, allevierà ulteriormente le vostre fatiche materiali, e soprattutto, eliminerà ogni rischio. [Essere] alla testa significa non già sottomissione alla spontaneità del movimento, ma interpretazione ed elaborazione dei compiti teorici, pratici ed organizzativi della classe nel suo complesso e nella sua dinamica storica. Significa lavoro paziente, tenace e molte volte anche ingrato, perché non sempre corrispondente alle esigenze immediate della classe stessa. E’ così che si dirige una organizzazione, assumendosene i rischi e le responsabilità e soprattutto avendo la capacità di guardare in avanti, di vedere sempre in prospettiva lo sviluppo del movimento non rifacendosi alla borghese conta delle teste, perché non sempre la maggioranza esprime l’orientamento più giusto per il movimento; anzi, questo avviene solo di rado e quando avviene, allora è la Rivoluzione. Ma quella non fa più parte del vostro programma né come prospettiva finale, né come metodo di lotta; ed ecco perché siete costretti a ripiegare sui metodi borghesi […]”

 

La lotta sulla riforma delle pensioni (gennaio ‘68 -febbraio ’69)

Quella per la riforma delle pensioni fu una lunga lotta, di fronte alla quale il fronte unito Governo-Sindacati-Confindustria fu costretto cedere, assediato da più parti dalla necessità urgente di garantire condizioni di vita meno miserabile. Gli interessi del fronte di lotta antiproletario, sovrapposti e intrecciati fra di loro sul piano politico e sollecitati dalla pressione operaia, entrarono in contrasto: si  dovette ricorrere alle elezioni per cercare di superarlo deviando la lotta sul piano parlamentare.

Gli scioperi per le pensioni furono tre e si intrecciarono con quelli contro le gabbie salariali e sulla scadenza di molti contratti. La cifra proposta dal governo ammontava al 40% del già basso salario: una bazzecola subito respinta che contribuì ad alimentare ulteriormente la lotta.

La mobilitazione coinvolse una massa notevole di operai, e non solo. Lo scontro fra governo e sindacato finì per diventare aspro, ma non mancarono i dissensi tra gli stessi sindacati. Anche più acuto fu lo scontro tra le Confederazioni e la massa operaia, che giunse fino alla rottura. Dopo aver preannunciato con 15 giorni di anticipo, sotto la forte pressione operaia, lo sciopero di 4 ore a gennaio 1968, il giorno prima dell’inizio i sindacati annunciano il rinvio dello sciopero, perché... il Governo non è ancora pronto a discutere. La delusione è grande, forti sono le proteste dei lavoratori che, non avvertiti, non si erano recati al lavoro.

A febbraio, le tre centrali sottoscrivono un documento unitario su “programmazione, occupazione e riforma delle pensioni” e si arriva finalmente allo sciopero generale. Il governo propone un accordo su 40 anni di contributi per un valore di  pensione uguale al 65% della retribuzione percepita negli ultimi 3 anni, con l’impegno a portarla all’80% dopo il 1970; in cambio, si pretende l’innalzamento dell’età pensionabile a 60 anni per le donne e si vieta il cumulo fra pensione e lavoro. Il 27 febbraio, le tre Confederazioni accettano la proposta governativa. Appena se ne diffondono i contenuti, scoppia una vera e propria rivolta da parte della base, che arriva nelle stesse Camere del lavoro. La Cgil è costretta a ritirare il proprio assenso, mentre Cisl e Uil lo confermano. Il disegno di legge viene approvato, ma il 7 marzo il nuovo sciopero indetto dalla Cgil, e imposto dalla base, rimette la situazione al punto di partenza. Si giunge al decreto attuativo che viene contestato dalle tre Confederazioni, ormai sotto il tiro degli operai. Cade il governo. Nei mesi successivi, dopo le elezioni e la formazione del nuovo governo e mentre la Confindustria si dichiara contraria a un’eventuale modifica, riprendono le manifestazioni e le lotte.

Si giunge così, nel caos generale, allo sciopero generale del 14 novembre 1968: l’adesione è altissima, ma si dovrà attendere la fine del “governo balneare” di transizione e un nuovo accordo politico con i socialisti per la formazione di un nuovo governo. Altre tensioni e rivolte portano al terzo sciopero generale il 5 febbraio 1969. L’accordo arriva il 15 febbraio: la percentuale pensionabile dello stipendio, dopo questa lunga lotta, sale al 74%, con l’impegno di giungere all’80% nel 1975. Dalla stessa lotta, nasce un meccanismo di “scala mobile” per far conservare alle pensioni il potere d’acquisto, mentre viene istituita la “pensione sociale”.

 

La nostra prospettiva

Sulla nostra stampa, moltissimi furono gli articoli di commento alla lotta per le pensioni sostenuta  per più di un anno dal proletariato. In essi, si incita allo sciopero generale ad oltranza senza limiti di tempo, si attaccano le lotte articolate che servono solo a frantumare nel tempo e nello spazio lo scontro di classe, si contestano gli accordi politico-sindacali, le sospensioni e il pompieraggio degli scioperi, la continua dichiarazione di rispetto della legalità. Ovviamente, la posizione di classe non scinde le pensioni dal salario, il proletariato “in produzione” da quello “fuori produzione”: non si lotta per la “riforma” delle pensioni, “per un reddito”, ma per difendere le condizioni generali di vita e di lavoro della classe. In un breve articolo (“Ignominia delle ‘pensioni’”, su “Il programma comunista”, n. 6/1968), così scrivevamo:

“Non è di oggi il problema della pensione e soprattutto dei minimi, che rappresentano un vero insulto alla miseria dei lavoratori, sfruttati finché rendono e poi lasciati ‘alla carità’ e alla fame della società capitalistica. Qualche anno fa i soloni preposti alla modifica del limite di età (60 anni per gli uomini e 55 per le donne) per ottenere la pensione, ridussero a 35 anni di contributi versati come limite di età per poter chiedere, volendo, la pensione. Si disse che tale provvedimento era stato dettato dal fatto che il ritmo al quale l’operaio è sottoposto dalla razionalizzazione tecnologica dell’apparato produttivo, che determina un maggiore sfruttamento e accelera il processo di invecchiamento e logorio psico-fisico, non è più sostenibile. Si aggiunse, che mettendo il lavoratore in pensione prima del compimento del 60° anno di età, si aprivano maggiori posti alle nuove leve uscite dalle scuole. […]”.

 

A quel punto, indietro tutta, grida la borghesia! La laboriosa e strombazzata riforma ritorna sui propri passi, abroga la legge del minimo pensionabile a 35 anni di contributi versati, innalza l’età pensionabile per le donne da 55 a 56 anni in attesa di portarla a 60 come per gli uomini, aumenta gli anni di contribuzione fino a 40 anni (ogni anno in meno la pensione diminuisce), fa passare al 65% la percentuale sul salario base (la miseria è dunque assicurata con la sua continua diminuzione) sulla media degli ultimi tre anni di lavoro (cottimi, premi, incentivi non giocano nel calcolo della pensione), e si ripromette di arrivare all’80%.

Mentre tutto sembrava sciogliersi in un canto di armonia e di democrazia sociale raggiunta, “la rabbiosa reazione dei proletari beffati ha costretto la CGIL a fare marcia indietro e a dire no al progetto mentre nelle stesse CISL e UIL forti critiche si levavano a sconfessare l’imbroglio”.

 

Continua poi il nostro articolo:

 

“Gli operai debbono porre sul tappeto con il peso della loro immensa forza una sola e precisa rivendicazione. A noi non interessa per niente una qualsiasi ‘riforma del sistema pensionistico’, noi vogliamo il salario integrale ultimamente percepito, per i lavoratori che dopo 30 o 40 anni di sfruttamento bestiale sono gettati allo sbaraglio come rifiuti e scorie da cui il capitalismo ha spremuto fin l’ultima goccia di forza fisica e psichica, e che si trovano costretti mendicare un tozzo di pane. E lo vogliamo subito, non nel 2000! Tutti i nodi, si dice, arrivano al pettine. Le riforme dei nocchieri della barcaccia del capitale e del profitto non fanno che accelerarne la corsa a precipizio. Un giorno che non sarà tanto lontano, operai sfruttati ed operai disoccupati, giovani e vecchi, eseguiranno finalmente la loro ‘riforma’ armi alla mano, e allora non si sussurrerà più di prezzi e contratti sulla pelle dei proletari, ma si griderà vittoria sulla pelle dei borghesi”.

 

L’abolizione delle gabbie salariali (aprile ’68 - marzo ’69)

Agli inizi degli anni ’60, la differenza dei salari tra nord e sud era del 20-30%:il territorio nazionale era diviso in 7 zone salariali, a ciascuna delle quali toccava una percentuale in meno rispetto al 100% di Torino, Milano, Genova. Questo si rifletteva sui redditi (quello medio nel 1967 era di 617.000 lire, ma a Milano raggiungeva un milione e ad Agrigento era 300.000). I sindacati, spinti dalla pressione generale della classe, lanciano all’inizio del ’68 due grandi rivendicazioni, quella delle pensioni e quella delle gabbie salariali: l’accordo Governo-Aziende-Sindacati sulle gabbie salariali, imposto alla classe nel 1961, in aprile viene stracciato.

Cominciano gli scioperi articolati provincia per provincia, ricalcando l’ingabbiamento e l’isolamento della classe e indebolendo il fronte di lotta di tutte le categorie: la trattativa va a rilento, si evita di dichiarare lo sciopero ad oltranza. Gli industriali non ne vogliono sapere e accusano il sindacato di voler aggravare le condizioni del sud, ormai allo stremo, nonostante il vantato, generale miracolo economico e la forte emigrazione a nord. Il 2 ottobre, si riaprono le trattative, che vanno a rilento avanti fino a dicembre. L’eccidio di Avola, nato dall’isolamento dei braccianti che lottavano contro le gabbie salariali, fa precipitare la situazione: il ministro socialista si impegna a sostenere le rivendicazioni sindacali e il 21 dicembre le aziende a partecipazione statale accettano l’ipotesi di accordo, che prevede il superamento delle gabbie in fasi successive, fino al 1 luglio del 1971. Ma la Confindustria non è disponibile a fare altrettanto. Ricominciano gli scioperi di categoria, ancora articolati per provincia, che si svolgono dappertutto anche al nord, fino a gennaio. Alcune aziende cominciano a cedere. Nel frattempo, la battaglia per l’abolizione delle gabbie salariali si fonde con quella per la riforma delle pensioni. Sono questa universalità di attacco, questa risposta unitaria, la paura che il processo di lotta finisca per travolgere le organizzazioni sindacali, a spingere per lo sciopero generale: il 12 febbraio 1969, si fermano tutte le categorie, con percentuali di adesione che superano l’80% nelle regioni del nord. Il 17 febbraio, il governo invita Confindustria e sindacati a trovare un accordo, ma la direzione di Confindustria minaccia di modificare unilateralmente i salari invitando tutte le aziende aderenti a conformarsi a tabelle non contrattate con i sindacati.

Di fronte a questa resistenza padronale e all’incapacità sindacale di dare una risposta di forza, gli operai esasperati cominciano a occupare le fabbriche. L’8 marzo, davanti al rinsaldarsi del fronte di solidarietà di classe, cede la Confai, l’associazione delle piccole aziende: l’isolamento della Confindustria è totale e clamoroso. Alla fine, si rimette nelle mani del governo, e il 19 marzo l’accordo è raggiunto: le gabbie salariali verranno abolite in tre tempi, fino alla parificazione su tutto il territorio nazionale a partire dal 1° luglio del 1972.

 

L’“autunno caldo” dei metalmeccanici (giugno-dicembre ’69).

Il rinnovo del contratto dei metalmeccanici è il momento più alto e significativo del biennio. Nelle assemblee di fabbrica, gli operai si fanno protagonisti e spingono le tre Confederazioni ad adottare piattaforme contrattuali sia in termini di aumenti salariali che di normative fortemente egualitari, che provengono dalle assemblee di fabbrica. Nel giugno 1969, al congresso della Fim-Cisl, sotto la pressione operaia si blatera che “occorre modificare il sistema capitalistico”, che “occorre far crescere dal basso elementi di contropotere”. Le tre Confederazioni metalmeccaniche (Fiom, Fim, Uilm) con  Trentin, Carniti e Benvenuto sono costrette a correre dietro alle rivendicazioni. L’“autunno caldo” comincia con la lotta alla Fiat, che sospende 35.000 lavoratori dopo una serie di scioperi a catena iniziati il 1° settembre 1969 sui passaggi di categoria. I sindacati accusano la Fiat di serrata. Con l’intervento del governo, la vertenza viene chiusa e i 35.000 sono reintegrati. Ma subito si apre la vertenza per il rinnovo del contratto. Le piattaforme presentate puntano ad aumenti salariali uguali per tutti, a una riduzione dell’orario di lavoro da 42 a 40 ore settimanali a parità di salario, a un avvio alla parità normativa tra operai ed impiegati e al riconoscimento del diritto di assemblea. La Confindustria, durante la contrattazione aziendale integrativa, oppone un netto rifiuto. Si arriva così a tre scioperi e a tre grandi manifestazioni: a Torino, per il nord, il 25 settembre (100.000 operai); a Napoli, per il sud, il 16 ottobre; e poi a Genova, Brescia, Bologna, Firenze, Venezia – il tutto mentre le Confederazioni proclamano uno sciopero generale per la casa e per un fisco più giusto. A metà novembre, la Fiat denuncia 200 operai per danneggiamento, ma è costretta a ritirare il provvedimento per la reazione generale. Il 28 novembre, converge a Roma, a Piazza del Popolo, una grande manifestazione dei metalmeccanici, oltre 150.000. Il 10 dicembre, una prima ipotesi di accordo per le industrie pubbliche viene accettata.

Ma il 12 dicembre si ha la strage di piazza Fontana: il 14 vengono sospesi tutti gli scioperi, il 19 si fa l’accordo anche con la Confai e il 21 dicembre con la Confindustria – le 40 ore settimanali verranno raggiunte per tappe, un numero di ore saranno date per assemblea e retribuite, viene limitato il ricorso allo straordinario. L’“autunno caldo” viene chiuso di violenza, con l’aperta intimidazione di una strage, la prima di una lunga serie. E sulla scia del contratto dei metalmeccanici, vengono rapidamente chiusi anche gli altri contratti (chimici, edili, braccianti), sia per quanto riguarda i salari che le condizioni di lavoro.

                                                                

Il biennio '68-'69 non si esaurisce certo nella lotta di difesa economica in Italia, in Francia, in Polonia, anche se su di essa si innesta tutta una serie di eventi che sembrano assumere a prima vista un carattere più radicale, di scontri diretti con le forze dell’ordine. Su questi eventi, la letteratura operaista, studentesca, idealista, opportunista, ha innalzato i suoi monumenti: e anche alla critica di questi movimenti diedero spazio il nostro giornale e l’attività più in generale delle nostre sezioni. Il richiamo alla rivolta di Berkeley come base fondativa del movimento studentesco, le lotte a Parigi e a Berlino e nelle città italiane sono ancora al centro delle valutazioni a distanza di 40 anni. Più importanti i fatti internazionali a cui non mancò la nostra valutazione e le nostre prese di posizione politiche, sempre contro l’ideologia democratica e pacifista in tutte le sue forme: il colpo di Stato in Grecia, l’offensiva del Tet in Vietnam, il massacro di piazza delle Tre Culture a Città del Messico, l’invasione della Cecoslovacchia, la Rivoluzione culturale cinese, la strage di piazza Fontana, il Black Power, e con essi tutte le ideologie che li accompagnarono – l’antiautoritarismo, il marcusianesimo, il maoismo, il femminismo, l’antimperialismo di facciata, la liberazione sessuale, il pacifismo, l’operaismo, la teologia della liberazione, il terzomondismo, il guevarismo... Non è poco per una giovane generazione politica che, militando nel nostro Partito, si affacciava per la prima volta alle lezioni del marxismo rivoluzionario, e per la quale una quindicina d’anni di restaurazione dei princìpi, del programma, della tattica, dell’organizzazione, sotto la regia di un numero esiguo di compagni della “vecchia guardia”, forse era stata insufficiente, o forse aveva potuto costituire solo un primo battesimo. Se quella generazione resistette alla prima ondata sessantottina, non si salvò poi dalla cupa e reazionaria devastazione opportunista degli anni settanta; e se, di fronte a quest’ultima, il Partito tutto si salvò, gettando un ponte verso altre generazioni, ancor più fu merito dell’aver bene appreso le lezioni delle controrivoluzioni.

 

Note:

 


 

1 L’azione antiproletaria di quegli anni inghiottirà anche la nostra speranza e la nostra tattica di poterne rovesciare con la forza la direzione, salvando il cosiddetto “nucleo di classe” di una immaginaria CGIL rossa, attraverso lo smascheramento della direzione, al fuoco delle lotte che da almeno cinque anni si accendevano spontaneamente in molte aziende, da nord a sud. Questa prospettiva tattica (delineata nelle “Tesi sul bilancio fallimentare della politica controrivoluzionaria delle centrali sindacali e la linea programmatica del Partito Comunista Internazionale”, in “Spartaco”, febbraio 1965) creerà grosse contraddizioni nella compagine militante del nostro partito, soprattutto con la  proposta di costituzione dei “Comitati di lotta in difesa della Cgil rossa” (aprile 1970), volti a impedire l’unificazione sindacale con Cisl e Uil. Le “Tesi sindacali” del febbraio 1972 chiuderanno per sempre quella prospettiva e sposteranno la tattica in ben altra direzione, nel senso del lavoro per la rinascita del sindacato di classe, indipendentemente da organizzazioni ormai organiche al nemico di classe.

 

 

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°05 - 2008)

 

 

INTERNATIONAL COMMUNIST PARTY PRESS
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