DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

 

Qualche mese fa, sulle pagine di questo giornale, abbiamo ripubblicato parte di alcuni documenti relativi al Primo Congresso dell’Internazionale Comunista [1]. Quelle parole, scritte sull’onda dell’entusiasmante vittoria bolscevica, rappresentano la fondazione dell’Internazionale Comunista e l’apertura di quella fase storica che, accompagnando la marea montante della rivoluzione proletaria e, al tempo stesso, i suoi primi segnali di riflusso, il nostro partito ha definito “congressuale” – una definizione data dai nostri compagni, dopo aver attraversato la tragedia della controrivoluzione violenta (che ha distrutto, fra l’altro, proprio quell’Internazionale) e nel momento in cui ricominciavamo il lavoro di riorganizzazione e restauro dell’organo rivoluzionario mondiale di classe. La fase storica in cui quei materiali nacquero è quella degli anni dal 1917 al 1922, quando i comunisti di tutto il mondo e da tutto il mondo accorrevano in Russia per lavorare alla precisazione operativa e al consolidamento del partito rivoluzionario: questo il vero senso dell’invariante dottrina che noi professiamo.

A una lettura attenta (soprattutto fra compagni, perché il nostro giornale è l’“organizzatore collettivo” di cui parlava Lenin), quel primo appello dell’Internazionale Comunista (le “Tesi sulla democrazia borghese e la dittatura proletaria”) risulta inevitabilmente condizionato, e non potrebbe essere diversamente, dall’esperienza russa di quei giorni e dal peso del compito duplice di trapasso dalle forme feudali a quelle borghesi e da quelle borghesi a quelle proletarie. In questo senso, mentre sono ben chiare la dichiarazione di guerra e la precisazione inequivocabile della necessità rivoluzionaria della disarticolazione violenta e insurrezionale dello Stato borghese, della sua democrazia (suffragio universale compreso) e di tutte le sue strutture, proprio il rapidissimo risveglio delle masse proletarie (comunque minoranza rispetto all’oceano variegato delle masse contadine) dalla narcosi dell’autocrazia zarista costringe a tradurre la novità della gestione del potere con i vecchi termini ancora a disposizione per l’esercizio del potere. La descrizione del nuovo potere proletario, che nei fatti è la prima vera duratura esperienza di uno strumento operativo della dittatura della nostra classe (troppo breve fu infatti l’azione del Comitato Centrale della Comune di Parigi del 1871), è costretta all’uso del termine “democrazia proletaria”: ma in quel momento non è ancora un “abuso”.

Quel primo appello è comunque inequivocabile: la democrazia cui si fa riferimento altro non è che il primo esempio di dittatura del proletariato, cioè di “proletariatocrazia”.

La lingua non ci aiuta: anche noi siamo costretti a mutuare vocaboli dalla lingua dei nostri antenati. Purtroppo, ereditiamo l’esperienza della Grecia antica dove nasce l’analisi del “potere”: una società schiavistica gestita da “padroni”, gli unici uomini liberi e solo maschi, che erano tanto sottili di mente da poter distinguere la gestione dello Stato in tre tipi distinti (governo di uno, di pochi, di tutti) con varianti buone (monarchia, aristocrazia, democrazia) e varianti cattive (tirannide, oligarchia, demagogia).

E da allora ce la trasciniamo, la maledetta “democrazia”! Fino a oggi, quando noi comunisti, riassumendo, superando e centralizzando tutte le esperienze della storia di lotta della nostra classe finalmente, ne proclamiamo la fine.

Un altro segno dei tempi, presente in quelle parole e che l’esperienza ha superato, è il riferimento “aziendalistico” della base elettorale dei soviet, là dove (ma era necessario per disarticolarla!) si contrappone alla “circoscrizione elettorale” (territoriale) dei collegi dove si esercita il diritto elettorale borghese. Mentre è ben chiaro che proprio il collegio elettorale è il riferimento di rappresentanza della finzione ideologica della comunità nazionale (dove il Capitale vuole che si sciolga ogni particolarità di classe in nome del “suo” particolarissimo interesse comune), è meno chiaro in quel frangente storico (Russia 1917) quel che via via il corso della rivoluzione (e, ahinoi!, soprattutto della controrivoluzione) renderà più chiaro: la base della dittatura del proletariato non è il luogo dove il proletariato eredita la sua condizione di salariato in attività (l’azienda), ma la sua condizione (in sé economica, ma per sé politica) di venditore di forza lavoro: ed anche da questo punto di vista la dittatura del proletariato caccerà a calci in culo ogni confine geografico (limite) al suo potere. Nessuna nostalgia dunque per la “democrazia dei soviet”, ma solo indulgenza per quella prima forma di dittatura del proletariato.

Rimaniamo però al clima di quei giorni e alla dichiarazione di guerra al riformismo socialista che quel primo Congresso reclamava come adesione incondizionata all’Internazionale Comunista, e tra i tanti documenti che mantengono la memoria di quei giorni vogliamo oggi riproporre qualche stralcio dall’articolo “Per la valutazione storica della dittatura proletaria” pubblicato su “L’Avanguardia”, n. 599 del 17/8/1919 [2]. Anche questo scritto, comparso sull’organo della Gioventù Socialista, ha importanza, e quindi valore (come sempre per noi), come pallottola dell’arma-partito, perché chiarisce bene il concetto di “dittatura” proprio in quel momento di “entusiastica” confusione che accompagnava la prima battaglia vinta dalla rivoluzione proletaria in Russia. Si tenga presente che l’Appello cui si fa riferimento è l’Appello della Gioventù socialista italiana ai giovani socialisti e proletari di tutti i paesi, nel quale, appunto, la dittatura del proletariato è un po’ troppo sfumata e confusa.

 

“[...] Mente l’Appello dice giustamente che l’obbiettivo del proletariato nella lotta rivoluzionaria deve essere quello della conquista del potere per sostituire al governo della borghesia i Consigli degli Operai (meglio si sarebbe detto lo Stato dei Consigli), è detto poi che alla dittatura del proletariato ricorreranno i Consigli stessi qualora sorgesse contro di loro la borghesia; e in via transitoria.

“Il concetto storico della dittatura proletaria perde così tutta la sua importanza, perché ne viene negata la universalità e la necessità; lasciando intendere (soltanto perché pare si tema di urtare coloro – democratici borghesi ed anarchici – che si adombrano di tale concetto) che possa esservi passaggio rivoluzionario dal capitalismo al socialismo senza la dittatura, il che è gravissimo errore. Vi è anzitutto una contraddizione: nei concetti di conquista del potere e di regime dei Consigli è già contenuto il concetto della dittatura proletaria, che dopo viene limitato e svalutato dell’Appello.

 

[…]

“La teoria nella politica non è altro che il risultato della indagine critica sul passato e sul presente, dalla quale si traggono le previsioni sulle leggi degli sviluppi storici avvenire, deducendone le norme della tattica che il partito rivoluzionario deve adottare. La teoria di oggi è dunque la pratica di domani. Chi nega l’importanza della teoria dinanzi alla pratica è essenzialmente antirivoluzionario, poiché è fautore di un’azione slegata ed empirica determinantesi giorno per giorno, caratteristica dei partiti di conservazione e principalmente del riformismo. La teoria critica posseduta dal nostro partito, cioè il marxismo, ha così luminose conferme negli svolgimenti storici presenti, da autorizzarci a seguirla nel senso più strettamente intransigente, differenziandoci da tutte le altre scuole. E’ veramente rivoluzionario soltanto quel partito la cui dottrina e il cui programma riflettono fedelmente gli effettivi svolgimenti storici che il processo della rivoluzione presenta. Deve dunque dirsi che, come il socialismo marxista fece giustizia (oltre che delle scuole ideologiche borghesi) delle concezioni del socialismo utopistico, così oggi esso prevale in confronto alle scuole che sorsero dai posteriori tentativi di revisione: l’anarchismo, il sindacalismo ed il riformismo. Queste dottrine e conseguentemente i metodi politici che ne scaturiscono, sono dunque da dichiararsi non rivoluzionari ed ogni diverso atteggiamento nei loro confronti è puro opportunismo.

 

[…]

“Contrapporre alla società presente a proprietà privata la visione di una società avvenire, nella quale la proprietà sia comune e siano così eliminati tutti gli inconvenienti e i mali sociali che derivano dagli attuali ordinamenti economici, è uno sforzo ideale nel quale non è ancora contenuto il socialismo.

“Il passaggio dal socialismo utopista al comunismo critico o socialismo scientifico si ha allorquando viene posto e risolto il problema di determinare il processo storico che conduce dalla società attuale a quella socialista.

“La prima concezione è propria del metodo metafisico, che consiste nel pensare per contrapposizioni assolute ed eterne, opponendo il bene al male, il giusto all’ingiusto o il comunismo al capitalismo.

“Questo metodo non intende i reali sviluppi della storia, non concepisce i reali termini del trapasso, e negando e capovolgendo tutti i caratteri del mondo attuale si illude di aver creato senz’altro il mondo ideale dell’avvenire.

“Al contrario il pensiero marxista, secondo il metodo dialettico, concepisce tutti i fenomeni sociali nei complessi rapporti e svolgimenti del loro incessante divenire, e senza preoccuparsi di contrapposizioni astratte e scolastiche cerca di determinare le fasi dello sviluppo storico; tra la società socialista e la società capitalista vede il rapporto logico di effetto a causa più che il gioco di una pura negazione ideologica. L’applicazione di questo metodo storico allo studio della costituzione della società e della sua storia passata permise di giungere a un sistema di conclusioni che oggi, per le evidenti conferme avute nella realtà storica, possono enunciarsi con sicurezza maggiore.

“E’ nel seno della società capitalista che sono maturate le condizioni per la realizzazione del comunismo, e la forza più importante che tende a determinarlo è il proletariato, classe rivoluzionaria.

“L’ordinamento economico privato seguita a sussistere perché la minoranza borghese lo difende avvalendosi del potere che è nelle sue mani.

“Il proletariato tende dunque a distruggere il potere della borghesia, e ciò non può avvenire senza un assalto violento e una lotta guerreggiata tra le due classi. E’ inutile qui ripetere la dimostrazione che le forme democratiche dello Stato borghese non danno adito allo spodestamento politico della borghesia, pur essendo questa, per sua natura, una minoranza. Questo periodo di lotta insurrezionale è dunque un periodo necessario, ma non contiene in sé tutto il processo che sostituirà l’economia comune a quella privata.

“Tolto alla borghesia il potere politico, non si può toglierle subito il privilegio economico, espropriarla e abolirla senz’altro tra i bagliori stessi della battaglia insurrezionale. Questo lo pensano metafisicamente, e perciò non rivoluzionariamente, appunto gli anarchici. Espropriare tutto immediatamente sarebbe impossibile. Ciò arresterebbe di colpo la gestione della produzione.

“Il problema storico è dunque di conservare la borghesia come classe economica, assicurandone la espropriazione e la eliminazione graduale più rapida che sia possibile, senza però paralizzare la produzione, e nello stesso tempo impedire che la borghesia ricostituisca il suo potere riconsacrando l’intangibile diritto della proprietà privata.

“La dittatura proletaria è la necessaria soluzione storica di questo problema. Essa è il nucleo della rivoluzione sociale. Ai superstiti borghesi viene lasciata la direzione delle aziende e in principio anche il profitto del loro capitale, ma di essi viene negato ogni potere politico, riservandola ai soli lavoratori.

“Ecco come il proletariato deve organizzare un nuovo potere, divenire classe dominante, fondare dopo l’abbattimento del governo borghese lo Stato e il governo proletario.

“Si stabiliscono così le basi granitiche della espropriazione dei privati capitali, della socializzazione della produzione, del comunismo.

“Questa espropriazione sarà la più rapida che sia praticamente e tecnicamente possibile, poiché coloro che sarebbero interessati ad evitarla saranno esclusi da ogni ingerenza nella preparazione delle disposizioni coattive, con le quali lo Stato proletario procederà alla socializzazione. Attraverso questo processo si andrà alla abolizione delle classi, all’assorbimento della borghesia nel proletariato, e quindi alla società senza classi e senza stato politico ma caratterizzata da una economia collettiva ad amministrazione centrale.

“Ma questo processo sarà almeno tanto lungo, quanto occorrerà, perché non solo ogni privilegio borghese sia sradicato, ma sia anche in massima eliminato tutto il mostruoso bagaglio di eredità degenerative lasciate dall’assetto borghese nell’insieme organico dell’umanità.

“Le tare fisiche e sociali derivanti dal pauperismo non spariranno che lentamente, in conseguenza della soppressione dello sfruttamento umano.

“Fino allora ci saranno non solo i borghesi da espropriare con la forza, ma anche degli elementi in genere restii ad accettare le forme comuniste nelle loro necessarie successive applicazioni. Fino allora ci sarà necessità del potere, della coazione e dell’autorità.

“Il resto è leggenda che può vivere nella retorica, non nella storia; nella follia, non nella politica rivoluzionaria.

[…]

“In questo, lo Stato proletario è il capovolgimento dello Stato borghese: esso è ancora una macchina per l’oppressione di classe, ma è il proletariato che l’impiega contro la borghesia – anziché difendere il privilegio di classe, esso lo investe prima, per sopprimerlo poi ‘nel corso di una evoluzione’.

“La ‘libertà’ non erompe metafisicamente all’ora B del giorno C dalla maggiore demolizione del concetto autoritario, ma essa emerge come logico risultato di nuove condizioni economiche, ossia dalla concreta soppressione dello sfruttamento.

“Meravigliarsi che per giungere alla ‘libertà’ occorrano atti di ‘autorità’, che per abolire il dominio di classe occorra un dominio di classe, vuol dire non intendere nulla di dialettica ed essere degni di essere nati cinquant’anni prima di Carlo Marx e della sua dottrina.

[…]

“La dittatura proletaria, se ne adonti chi vuole, è la caratteristica sostanziale e universale della rivoluzione comunista. Grave inesattezza è dire che vi si ricorrerà qualora la borghesia resista: essa resisterà sempre e ovunque, e in ogni modo dove è regime sovietista ivi è la dittatura proletaria. Sarà un periodo transitorio. E’ vero: Ma che vuol dire ciò? Ogni periodo storico è transitorio. Ma il periodo della dittatura, non diciamo del terrore, potrà durare anche alcune generazioni. Non vivono nell’odierna società borghese, dopo centinaia di anni, forme di feudalesimo, sebbene questo sia stato spazzato via dal potere della rivoluzione borghese?.

“E se col ‘transitorio’ si vuol acquietare chi non vuol accettare il criterio programmatico della dittatura, si fa opera dannosa di antipreparazione rivoluzionaria. Lasciare nell’ombra certe linee del programma per aumentare gli aderenti: ecco un metodo antirivoluzionario per eccellenza”.

Il testo è di una chiarezza estrema e non ha bisogno di commenti. Allo stesso modo, noi comunisti non abbiamo bisogno della democrazia, né oggi né domani: dobbiamo anzi combatterla, in quanto arma fra le più ingannevoli e minacciose della classe avversa. E a essa contrapporre la nostra arma: quella della dittatura proletaria.

 

 

 

 

Note


[1] “4 marzo 1919-4 marzo 2009. A novant’anni dal Primo Congresso dell’Internazionale Comunista”, Il programma comunista, n.2/2009.[back]

[2] Questo e gli altri importantissimi testi relativi al periodo si possono leggere alle pagg. 371 e seguenti del primo volume della Storia della Sinistra Comunista. 1912-1919, che potete richiederci scrivendo alla Casella postale 962 - 20101 Milano.[back]

 

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°04 - 2009)

 

 

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