DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

 

Assediata dai creditori, la Chrysler, una delle Big Three dell’auto di Detroit insieme alla Ford e GM (anche quest’ultima allo stato d’invalidità permanente) non poteva far altro che rifugiarsi tra le braccia della decrepita signora Fiat (“indebitata per 14,2 miliardi di dollari”, sottolineano i tedeschi della Spd e della Die Linke per l’affare Fiat-Opel all’unisono con il sindacato dei metalmeccanici Ig-Metal e la potente Volkswagen, che ha inglobato nel frattempo la Porsche), dopo che nessun’altra casa automobilistica, né francese, né tedesca, né giapponese, si era fatta avanti per stilare, sostanzialmente se non legalmente, il “testamento biologico” della moribonda Chrysler.

Per evitare la svendita ai 46 gruppi finanziari creditori [1], il Chapter 11 (il capitolo della legge americana che decreta la bancarotta di un’azienda) prevedeva la presentazione di un Piano di riorganizzazione produttiva dell’azienda, approvato dai creditori e valutato dal Tribunale fallimentare per l’omologazione [2] – Piano che non avrebbe potuto ripresentare in quanto non più credibile agli occhi degli affamati creditori, a loro volta additati come corresponsabili del crollo dell’azienda, soprattutto in questo momento in cui, per la fame smodata di denaro cash, il credito dello Stato è “ambrosia e nettare”. Il decrepito becchino Fiat ha dunque dato la garanzia, con un piano (?) tutto da verificare in corso d’opera (e senza metterci nulla di suo), che il moribondo verrà ricomposto prima della sepoltura oppure, nelle più rosee prospettive, riceverà nuovo sangue proletario nelle vene.

 

Scriveva Marx: “Quando si parla di distruzione di capitale attraverso le crisi, bisogna fare una duplice distinzione. In quanto il processo di riproduzione si arresta, il processo lavorativo viene limitato o talvolta interamente arrestato, viene distrutto capitale reale. Il macchinario che non viene usato, non è capitale. Il lavoro che non viene sfruttato equivale a produzione perduta. Materia prima che giace inutilizzata non è capitale. Costruzioni che restano inutilizzate (altrettanto quanto nuovo macchinario costruito) o restano incompiute, merci che marciscono nel magazzino, tutto ciò è distruzione di capitale. Tutto ciò si limita all’arresto del processo di riproduzione e al fatto che le condizioni di produzione esistenti non operano realmente come condizioni di produzione, non vengono messe in funzione. Il loro valore d’uso e il loro valore di scambio vanno con ciò al diavolo” [3].

 

Tutto sta andando al diavolo, valore d’uso e valore di scambio, sotto i colpi della crisi di sovrapproduzione che attanaglia i grandi settori produttivi dell’acciaio, dell’auto e dell’edilizia, e occorre far presto perche la svalorizzazione prosegue a ritmi esponenziali. La Chrysler e la sua gemella GM, arrivate al loro punto terminale nella bufera della crisi, si autodistruggono (qualità inferiore, quote di mercato a picco, sotto il 50%) non per colpa, come dicono le malelingue, dei concorrenti giapponesi, coreani ed europei, non per colpa di contratti operai anacronistici (costi di lavoro superiori e difesa di privilegi sindacali, che hanno creato voragini nei conti), non per i bonus dei manager (che se la spassavano allegramente sui loro jet privati). Queste rappresentazioni sono al centro della “retorica giudiziaria”, nei commenti sui libri contabili portati in tribunale, ma non hanno nulla a che vedere con le cause reali: sono gli effetti di una lenta autodistruzione che ha la sua radice nella realtà parassitaria della fase attuale del capitalismo. Il buco nero che inghiotte le tre grandi d’America è solo un processo di rimbalzo in una realtà locale, che ha consumato tutta la sua vitalità: il processo di riproduzione si arresta, il capitale reale viene distrutto.

 

Le cronache italiane ci raccontano entusiaste, invece, dell’elisir di lunga vita che la Società Salvatrice, la Fiat, coadiuvata dal sostegno dello Stato americano, avrebbe assicurato al moribondo per rivitalizzarlo nel mercato nordamericano. Per convincersi, il Tribunale fallimentare ha già ricevuto un sostanzioso assaggino miracoloso: il pagamento degli arretrati ai dipendenti alla fame, la ricevuta di 4,5 miliardi di fondi (che potrebbero salire a 6 miliardi) messi a disposizione del Governo Usa, la svendita degli assets patrimoniali della vecchia azienda per rimettere in sesto la Newco (la nuova Chrysler), la risoluzione dittatoriale del contenzioso con i creditori (28 cent per ogni dollaro di debito), che darebbero il via libera se la quota si spingesse a 40 cent (cosa che poi hanno fatto comunque a prezzi stracciati), l’acquisizione del 20% in titoli azionari da parte della Fiat, che potrebbe salire al 35% (i titoli azionari della Chrysler sono crollati del 48%), il 55% tratti dai fondi previdenziali e sanitari (10 miliardi di debiti dovuti dalla Chrysler agli operai), gestiti dalla Cerberus Capital e passati dall’ Azienda alle organizzazioni sindacali americane e canadesi, la United auto workers (Uaw) e la Canadian auto workers (Caw), e un 10% del Governo in compartecipazione delle banche creditrici, che rinuncerebbero a 6,9 miliardi di crediti concessi in cambio di 2 miliardi in contanti e la rimessa in moto della produzione… alla fine della crisi.

 

Tutte operazioni che andrebbero rispedite all’indirizzo dei millantatori di credito (e per primo all’imbonitore di piazza Marchionne), sia privati che statali, sia impiegati che ceto medio, perché da quella fuffa in putrefazione non nascerebbe neanche una goccia di plusvalore se non verrà messa prima ai ceppi l’armata proletaria del lavoro e se le uova proletarie non fossero state deposte già prima come anticipo al 55%. La grande e massiccia operazione di salvataggio ad opera dell’aristocrazia operaia e impiegatizia americana (che si è appropriata dei fondi pensioni e sanitari) grava come un macigno sulla massa proletaria (54.000): saranno loro ad avere la maggioranza del capitale sociale della nuova Azienda, a decidere nell’assemblea dei soci, a stare al centro della direzione tecnica e organizzativa. Ecco da chi e come nella realtà presente verranno saldate le catene ai piedi della classe operaia: i veri esperti in queste operazioni!

 

Per saldare, tuttavia, il debito con il Tesoro americano e per spingere la produzione verso l’obiettivo finale di 6-7 milioni di vetture (massa critica Fiat-Chrysler-Opel con 80 miliardi di fatturato), occorre sperare e pregare di alzare la massa del profitto (mentre il saggio medio si torce in giù) a furia di frustate sulle spalle della classe operaia in ginocchio. Quando i poli dell’auto, con le fusioni annunciate – necessarie per uscire dalla crisi – si saranno ridotti (ricordiamo che l’acquisizione della Opel, controllata dalla GM, è contesa dall’austro-canadese Magna International, legata alla Gaz auto russa) e la concorrenza sarà divenuta cruenta, ci vorrà ben altro che la promessa dei sindacati americani e canadesi di non indire scioperi fino al 2015! Chi gestirà la catena dei licenziamenti di massa che non tarderanno ad arrivare, per aumentare la composizione organica e tecnica del capitale? e quali riduzioni subiranno i famosi fondi sanitari e pensionistici?

 

Mentre la barca affondava, la Daimler tedesca (quella stessa Daimler che in passato era stata al centro del salvataggio, fallito, della Chrysler) aveva già venduto (un anno fa) il 19,9% delle sue azioni Chrysler alla Cerberus, impegnandosi a pagare 600 milioni in tre anni per i fondi pensione. Alcuni economisti non escludono che in Europa si costituisca un polo Fiat-Opel-Magna-Gaz (soluzione di compromesso tra le diverse opzioni sul mercato: una straordinaria, sebbene precaria, convergenza multinazionale di interessi economici verso est e ovest), le cui aziende tuttavia sarebbero in competizione diretta per lo stesso tipo di vetture da costruire. Di qui, i dubbi e gli interrogativi da parte dei sindacati tedeschi, che non riescono a comprendere come gli straccioni della Fiat possano essere al centro di tali proposte, ambite da molti. Di qui, la soddisfazione contenuta da parte dei sindacati metalmeccanici, della Fiom, Fim e Uilm italiani, che non sono stati nemmeno avvisati né dell’operazione all’estero (preoccupati non tanto per il grande mercato americano, quanto per quello italo-tedesco) né dei piani che la Fiat avrebbe per l’Italia: gli operai di Pomigliano e di Termini Imerese (già in cassa integrazione) si sentono già fischiare le orecchie per i possibili licenziamenti, mentre i metalmeccanici tedeschi sono in allarme per la possibilità che, una volta acquisita da parte della Fiat, venga chiusa una delle quattro fabbriche della Opel.

 

Per il momento la ricetta è ancora quella della contadinella che andava a vendere al mercato la ricottina sognando di ottenere attraverso lo scambio fantastico una sequenza di galline, pecore, buoi e… castelli in aria – la stessa ricetta che ha visto fallire istituti bancari e finanziari, assicurativi e commerciali fondati su titoli spazzatura (8 compagnie finite in bancarotta in otto anni per un valore patrimoniale di circa 1300 miliardi di dollari sono lì a testimoniarlo) attraverso lo scambio fantasioso in Borsa di una sequenza crescente di titoli... di carta.

 

“Comprare la Chrysler con il denaro pronto cassa? Ma i soldi non ci sono, perché non c’è più un sistema finanziario internazionale”, dice Marchionne, il manager Fiat che ha diretto la faccenda, “gli affari si fanno con il baratto”. La Fiat offrirebbe piattaforme, modelli e motori ecologici (per circa 8 miliardi) alle strutture produttive della Chrysler in caduta libera, e già solo con queste si potrebbero produrre 4 milioni di autovetture. Sarebbe pronta a vivisezionare la sua struttura multifunzionale, scorporando il settore auto dagli altri settori e incorporando tutta la GM europea (Opel, Vauxhall, Saab). Gioca facile, il Marchionne, mentre crolla la produzione, il livello delle scorte è ancora colmo, gli operai si offrono a prezzi scontatissimi... mercato mondiale dell’auto fermo o stagnante, creditori Fiat alla porta, credito zero da parte delle banche, indebitamento pubblico in crescita esponenziale.

 

La “fantasia italica” è al galoppo: il piccolo mostriciattolo nella palude mostra di sapersela cavare per sopravvivere meglio dei grossi dinosauri (Volkswagen- Porsche, Toyota-Nissan). Tanto è questione di baratto, dice Marchionne: come se le piattaforme produttive Fiat si mettessero a produrre auto e plusvalore sotto il comando (novello apprendista stregone) della sua bacchetta magica! Intanto, vengono chiuse quattro delle aziende Chrysler, due negli Usa e due in Canada, perché i fornitori hanno bloccato le spedizioni di parte della componentistica. Operai a casa! Alla “partecipata Fiat” rimarrebbero solo dieci fabbriche, 6 negli Usa, 2 in Messico e 2 in Canada.

 

Continuava Marx, sempre nello stesso testo: “In secondo luogo, però, distruzione del capitale attraverso le crisi significa un deprezzamento di masse di valore che impedisce loro di rinnovare più tardi il loro processo di riproduzione come capitale su stessa scala. E’ la rovinosa caduta dei prezzi delle merci. Con ciò non viene distrutto nessun valore d’uso. Ciò che perde l’uno guadagna l’altro. Alle masse di valore operanti come capitali viene impedito di rinnovarsi come capitale nella stessa mano. I vecchi capitalisti fanno bancarotta. […] Una gran parte del capitale nominale della società, cioè del valore di scambio del capitale esistente, è distrutta una volta per tutte, benché proprio questa distruzione, poiché essa non tocca il valor d’uso, possa favorire molto la nuova riproduzione”.

 

La via del capitale per rialzarsi da una crisi è una sola: aumentare il suo gigantismo (centralizzazione e concentrazione). La massa del profitto deve crescere perché il mostro continui a sopravvivere. Dal fondo della produzione capitalistica mondiale, altri giganti (Cina e India) sono emersi (e la loro parte emersa ha già spostato il baricentro delle forze economiche mondiali, mettendo in moto una gigantesca massa di plusvalore). La crisi di sovrapproduzione mondiale di merci e di capitali determinatasi alla fine del ciclo postbellico, a metà degli anni ‘70, aveva prodotto come suo effetto la distruzione del capitale di intere regioni. La nascita delle nuove gigantesche forze produttive asiatiche ha spostato in avanti, preceduta da una sequenza di crisi secondarie e di bolle finanziarie, questa crisi più profonda, di cui vedremo presto gli effetti distruttivi.

 

I mercati interni ed esteri erano diventati ormai preda di una lotta cruenta per un’iperproduzione di merci e di capitali, la produttività sociale del lavoro era giunta alle estreme conseguenze. Ecco nuovamente la crisi: mai come oggi, sempre meno masse di uomini mettono in moto sempre più capitale. Il mondo è già un’unità capitalistica integrata, un terreno di guerra per la spartizione dei potenziali mercati e le unità nazionali dei capitalismi combattenti hanno a disposizione le stesse tecnologie e gli stessi standard di produzione e di sfruttamento.

 

Non c’è via d’uscita: le variabili su cui si può giocare sono sempre le stesse: crescita della produttività sociale o saggio di sfruttamento, tentativo di inversione della caduta del saggio medio di profitto, crescita della massa del profitto possibile solo con un aumento straordinario della scala di produzione (che solo concentrazione e centralizzazione possono favorire), massa operaia attiva e di riserva in un crescendo gigantesco. E alla fine? Unica via possibile d’uscita per la borghesia, la guerra; per noi, la rivoluzione, la presa del potere, la dittatura proletaria. Perché, in questa storia di morti viventi, il morto vivente più grande è proprio il capitalismo: che va infine colpito al cuore e cacciato sotto terra per sempre.

 


 

Note

1. Dal Manifesto del 29 aprile.”In realtà la proposta delle quattro banche JP Morgan Chase, Goldman Sachs, Morgan Stanley e Citigroup avevano proposto di gestire un debito di Chrysler per 3,75 miliardi di dollari, ottenendo in cambio il 40% dell’azienda ristrutturata. Il Tesoro americano, giocava invece al ribasso: voleva imporre agli istituti di essere creditori per molto meno (1,5 miliardi) e di controllare molto meno (il 5%).”
2. Tale procedura libera il debitore da tutti i debiti precedenti dopo un pagamento consensuale “equo” dei creditori.

3. K. Marx Teorie sul plusvalore II, Editori Riuniti. Pag. 542,543.

 

 

 

 
 
Partito Comunista Internazionale

(il programma comunista n°03 - 2009)

 

 

 

 

 

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