DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Se il capitalismo ha ancora un futuro, allora si riducono le possibilità di sopravvivenza della specie umana; se non ce l'ha, sarà solo perché la rivoluzione proletaria avrà interrotto il suo corso caotico e distruttivo e superato le sue insanabili contraddizioni.

Si moltiplicano gli esempi di “cedimenti” del pensiero borghese, sia esso politico, economico o filosofico, spinto com'è a prospettare soluzioni che non si potrebbero adottare se non mandando a gambe all'aria tutti i presupposti su cui si fonda la società capitalista. Qualche esempio? Il “reddito di cittadinanza” dovrebbe garantire a tutti un minimum vitale: ma come si concilia con la necessità, altrettanto vitale per il capitale, di un esteso esercito industriale di riserva affamato, e pertanto sempre disponibile al lavoro? Come si conciliano le politiche per l'ambiente con la voracità di risorse del capitale nella sua smania produttiva e dissipatrice? Chi e come dovrebbe regolamentare un capitale finanziario ormai libero da ogni vincolo e controllo? La cosiddetta politica è prodiga di ricette, ma è in evidente stato di confusione e impotenza di fronte al libero dispiegarsi delle forze economiche: procede a tentoni e a piccoli passi per conciliare l'inconciliabile, senza più una prospettiva che vada oltre le varie tornate elettorali e gli interessi di questa o quella lobby. Naturalmente, le ricette non contemplano minimamente la messa in discussione di questo modo di produzione storico, giunto – si rassegnino gli ostinati e i ciechi – alla fine del suo ciclo evolutivo. Se poi qualcuno è così ardito da affermare che il capitalismo “non ha futuro”, lo fa perché l'idea appare ormai più che realistica a chiunque abbia conservato un po' di sale in zucca. Ma un conto è dirlo, altro è prospettare vie d'uscita che non siano invenzioni intellettuali del tutto illusorie.

 

Una delle questioni più spesso evocate riguarda la riduzione del lavoro umano indotta dalle nuove tecnologie. Secondo l'istituto McKinsey, nel giro di vent'anni l'introduzione di nuovi robot metterà a rischio circa la metà dei posti di lavoro (per l'ONU saranno il 60%). Gli 1,8 milioni di robot industriali operanti oggi nel mondo nel 2019 saranno 2,6 milioni: e si tratta di macchine sempre migliori, sempre più capaci di apprendere rapidamente e di liberare, di conseguenza, forza-lavoro umana.

La questione crea imbarazzo perché tocca la radice della valorizzazione del capitale: lo sfruttamento del lavoro umano nella forma del lavoro salariato. Lo sviluppo delle forze produttive sociali sta procedendo a ritmi tali da scardinare le basi economiche e sociali del capitalismo. Che fare della marea di disperati espulsi o mai entrati stabilmente nel processo produttivo, e che mai vi entreranno? Come gestirli capitalisticamente, facendo fruttare la loro miseria? La sovrapproduzione mondiale di forza-lavoro, l'enorme eccedenza dell'esercito dei senza riserve reso disponibile dalla sovrapproduzione di mezzi di produzione e la conseguente “messa in libertà” di forza lavoro umana sono a fondamento dell'intera isteria sull'immigrazione, essa stessa prodotto della sovrapproduzione di merci e mezzi di produzione nei Paesi sviluppati e della eccedenza di forza lavoro in aree in cui il capitalismo, senza portare il tanto decantato “sviluppo”, ha sradicato gli antichi rapporti di produzione nelle campagne e con ciò privato dei mezzi di sussistenza milioni di esseri umani. La marea umana che preme per ottenere un reddito di sopravvivenza è causa ultima del terrore scomposto della borghesia, che nel mentre dispensa fiducia sui benefici del progresso tecnologico trema per la propria inadeguatezza da apprendista stregone di fronte ai fenomeni che essa stessa ha provocato. La borghesia sa che non ha molto (e ancor meno avrà!) da offrire alla gran parte dei proletari che, per campare, si prestano e si presteranno in futuro a essere sfruttati, e di cui in ogni caso ha vitale bisogno.

Quali soluzioni escono dal cappello a cilindro della venerata schiera di intellettuali al suo servizio per affrontare questa crisi epocale? Ecco un esempio: “Lo strumento, sottratto alla pura finalità economico-finanziaria, è la leva su cui creare un lavoro che non sia volto al solo profitto. Solamente ragionando in questi termini può tentarsi una risposta di lungo periodo al problema della disoccupazione tecnologica” (1).

Lo strumento che serve solo al profitto non va bene. Dovrebbe servire anche all'uomo, almeno un po'. Lo sforzo dell'intellighenzia non va oltre questa predica che si appella alla ragionevolezza e ai buoni sentimenti. Ma ragionevolezza e buoni sentimenti di chi? Forse di una classe politica sempre più prona agli interessi dei grandi gruppi finanziari mondiali perché a essi legata organicamente? Forse di singoli capitalisti di buon senso disposti a rinunciare a una parte dei profitti occupando più forza-lavoro del necessario, per dare il buon esempio? I primi perderebbero immediatamente la sudata “cadrega” conquistata a colpi sapienti di lingua, mentre i secondi sarebbero spazzati via dalla concorrenza, rispettosa della legge draconiana del contenimento dei costi di produzione.

Se poi ci soffermiamo sulla necessità di una risposta di lungo periodo, questa cozza contro la tendenza storica del capitale a tutti i livelli ad accelerare il ciclo di riproduzione D-M-D', a privilegiare investimenti che garantiscano un profitto ravvicinato nel tempo, meglio ancora se immediato, ridotto alla sequenza D-D' caratteristica del capitale finanziario. Che fare contro questa smania di accumulazione, più predatoria che reale? Come convincere il capitale a impegnarsi in investimenti dai rendimenti troppo posticipati nel tempo, quando la logica del “mordi e fuggi” è ben più redditizia?

Al fondo di questi patetici richiami al “dover essere” c'è la consapevolezza che così il capitale non può andare avanti, unita alla totale impotenza dei presunti rimedi. Il capitale dimostra ogni giorno di più la propria incapacità di programmare il futuro. La produzione non può che svilupparsi all'insegna dell'anarchia, attraverso fasi di espansione eccessiva alternate a fasi di contrazione sempre più prolungate; gli effetti catastrofici di questo sviluppo caotico e incontrollato sull'ambiente e sulla salute dei viventi sono da lungo tempo evidenze innegabili. La programmazione del futuro che il capitale può concepire e attuare è produzione e ancora produzione per compensare con la massa dei profitti la riduzione del tasso di plusvalore contenuta in ogni singola merce. Chiedere al capitale di rinunciare anche solo in parte a produrre per il profitto equivale a chiedergli di rinunciare a se stesso. Come questo continuo incremento che alimenta l'immensa raccolta di merci (Marx) si possa coniugare con la salvaguardia delle condizioni di vita sul pianeta è affidato a un atto di fede nel potere della tecnica di provvedere a tutto. In effetti, la tecnica è, in epoca capitalistica, l'unica manifestazione delle capacità umane che conosce un progresso costante: ma la sua potenza produttiva è direttamente proporzionale alla sua potenza distruttiva e di annientamento. Questa capacità è tanto reale quanto è teorica la sua capacità salvifica, affidata com'è, anch'essa, assai più alla capacità di coniugarsi col profitto che alla… “buona volontà”.

Per quanto attiene alla capacità di liberare l'umanità dal bisogno e dalla fatica del lavoro, la tecnica sarebbe in grado, in altre condizioni, di farlo: ma in regime capitalistico questo compito le è precluso, e si volge nel suo opposto, in capacità di dominio e controllo sul lavoro vivente. E laddove libera lavoro vivente rendendolo superfluo, lo trasforma in esistenze emarginate, prive di fonti di reddito, ridotte alla miseria. E' questa la legge dell'accumulazione capitalistica (Marx): concentrazione ed estensione dei prodotti del sapere tecnico e produttivo dal lato del capitale, concentrazione ed estensione della miseria dal lato del lavoro vivente. Così, il progredire tecnico dell’automazione della produzione si accompagna alla crescente povertà ed emarginazione sociale. Sul piano culturale, la tendenza alla distruzione di lavoro vivente, soppiantato dalle macchine, fa a pugni con l'etica del lavoro inculcata fin dalla nascita a chiunque abbia la ventura di venire al mondo di questi tempi – etica d'altra parte ampiamente erosa dal parassitismo e dall'illegalità che caratterizza la società a tutti i livelli.

Nel generale trionfo dello spreco e della dissipazione, mentre una minoranza gozzoviglia nel lusso e i comportamenti predatori sono alla fine sistematicamente premiati, ai proletari si chiede il massimo di dedizione in termini di fatica di lavoro, di livelli di sfruttamento, di tempo di vita.

A sentire gli esperti, se la disoccupazione cresce non è a causa del continuo rivoluzionamento delle condizioni di produzione, ma a causa di un ambiente poco favorevole, specie se salari troppo elevati inducono le imprese a non investire. Così si pronunciò l'illustre cancelliere socialdemocratico Schroeder, negli anni in cui il capitalismo tedesco preparava il proprio rilancio, coniugando la delocalizzazione e gli investimenti esteri con la riduzione del costo della forza lavoro interna: “Il costo dei salari ha raggiunto un livello non più sostenibile dai lavoratori e che impedisce ai datori di lavoro di creare attività […] Dovremo tagliare le spese dello Stato, incoraggiare la responsabilità individuale ed esigere sforzi maggiori da parte di ognuno” (2).

Ma è vero proprio l'opposto, esimio cancelliere! Ci si aspetterebbe di più da un alto esponente della tradizione socialdemocratica tedesca, che un tempo (molto lontano!) annoverava il fior fiore del marxismo mondiale! E' quando i salari sono bassi che il capitalista non ha alcun interesse a investire in quella che oggi si dice “innovazione”, dato che questa comporta investimenti e costi che saranno ripagati solo in seguito dal risparmio sull'impiego di manodopera e dall'intensificazione dello sfruttamento di quella rimasta. A che pro questo sforzo se la manodopera costa poco e garantisce buoni profitti ora? Sono proprio i salari elevati a spingere il capitalista a investire in nuovi macchinari! Non solo, il grande esponente politico tedesco – a cui si deve in buona parte il merito di aver promosso la famigerata legislazione Hartz – trascura il fatto che i salari elevati si accompagnano a un’occupazione crescente e i bassi salari a un'estesa disoccupazione... A meno che, ai tempi della dichiarazione, non auspicasse un'estensione della disoccupazione involontaria come strumento per abbassare i salari. Il sospetto si fa certezza quando si consideri che l'obiettivo della legislazione Hartz era di estendere la platea della forza lavoro disponibile, a qualunque condizione, privando disoccupati e sottoccupati delle tutele del welfare allora in vigore. Il pensiero del nostro socialdemocratico si completa con quest’altra bella dichiarazione: “Colui che può lavorare, ma non vuole, non ha alcun diritto alla solidarietà. Nella nostra società non esiste il diritto alla pigrizia” (Schroeder in un'intervista a Bild, 6 aprile 2001; cfr nota 2). La dichiarazione ambisce a una certa forza morale, ma è imprecisa. Il diritto alla pigrizia esiste, eccome, ma è riservato a quanti hanno il culo parato, come l'esimio, dalla prestigiosa “cadrega”, o da conti in banche – svizzere o tropicali – che permettono di far la morale agli altri, che non li hanno. Ancora più brutale, nella sua essenzialità, la battuta di un suo collega di partito di pari grado: “Chi lavora, mangia” (F. Munterfering, presidente SPD, vice cancelliere e ministro del lavoro e degli affari sociali, 9 maggio 2006; cfr nota 2). Facile immaginare le conseguenze di un’applicazione letterale del principio, se solo volgiamo la frase alla forma negativa,: ma anche qui rileviamo un difetto di precisione che accomuna le due dichiarazioni, entrambe finalizzate a sostenere la nuova legislazione del lavoro. Non se ne trova uno, tra quanti si abbuffano di ogni ben di dio, che appartenga alla schiera del lavoro salariato. In questa società, essere ricchi non è certo una colpa, ma lo è senza alcun dubbio essere dei poveracci. Senza scomodare l'orwelliana uguaglianza che prevede un surplus per i maiali, il differente trattamento riservato agli oziosi ricchi rispetto a quelli poveri è ben spiegato dalla famosa battuta del Marchese del Grillo: Io so' io, e voi non siete un c...

In questa società così altamente “morale”, non ha dunque alcuna rilevanza che la potenza produttiva della tecnica sia in grado di garantire l'abbondanza universale. Il poveraccio deve dimostrarsi devoto al lavoro, non importa come: altrimenti resti a mandibole ferme. Lo conferma un'altra citazione, questa volta di una amante della natura: “Invece di essere pagate per l'inattività, le persone dovrebbero fare un lavoro di pubblica utilità […] A Berlino si potrebbero reclutare venti disoccupati Hartz IV in ogni quartiere per controllare che i proprietari di cani raccolgano gli escrementi dei propri animali […] così, si prenderebbero due piccioni con una fava: i disoccupati troverebbero una nuova occupazione e i berlinesi una nuova città” (Claudia Himmerling, deputata dei Verdi al parlamento di Berlino, Bild, 6 aprile 2010; stessa fonte).

Merita sottolineare, per inciso, che tutte queste belle idee sono partorite da esponenti della ineffabile sinistra borghese, quella che dovrebbe difendere i lavoratori, ed in effetti si leva in difesa del lavoro, sì, ma di quello salariato, cioè del lavoro per il capitale. In Italia, la nuova legislazione del lavoro – il Jobs Act – ha avuto gli stessi padri, più o meno nobili, e le stesse finalità della Hartz IV, con l'aggravante di una indisponente ipocrisia riassunta nella birbonata delle “tutele crescenti”, in contratti che fanno strame dei cosiddetti “diritti” del lavoro.

Ma torniamo al problema della tecnica che dovrebbe liberare l'uomo e invece lo affligge. La questione è così importante da scomodare nientemeno che il grande filosofo Emanuele Severino, il quale le ha dedicato “un rametto” – dice lui! – della sua… gigantesca opera. Il progredire incessante della tecnica, secondo costui, comporta la distruzione di tutte religioni e ideologie, comunismo compreso (ci mancherebbe!). Infatti, mentre queste si combattono e si escludono a vicenda, lei, la tecnica, continua imperterrita a operare e a trasformare il mondo: il futuro le appartiene. E' dunque possibile l'avvento del Paradiso in Terra? L'esistenza dell'uomo si libererà, per quanto possibile, dalle catene della sofferenza? Questa la risposta del filosofo:Sì, ma solo se ci sarà una unione tra la voce della filosofia che dice ‘non ci sono limiti’ e la capacità tecnologica di oltrepassarli” (3).

Il momento verrà, dunque, quando la tecnica incontrerà... la filosofia! Immaginiamo il filosofo – perché è in lui che la filosofia si fa atto – andare in giro a comiziare, avvertendo che “non ci sono limiti” all'impiego della tecnica. Nemmeno il profitto? Nemmeno, Severino è d'accordo. Per lui, la tecnica affossa anche il capitalismo. Bene! Si tratta solo di convincere la borghesia capitalistica a smetterla con questa… fissazione del profitto, diventato superfluo in un mondo di abbondanza universale; di smetterla di armare eserciti, di finanziare apparati polizieschi, di inquinare, di costruire bombe, missili, veleni... Il placido filosofo avrà la meglio su tutto questo? Evidentemente, Severino ha una gran fiducia in una categoria ingiustamente ritenuta in estinzione. Sorge però in noi, ostinati seguaci del “già perento comunismo”, il sospetto del “già visto”. Non manifestavano forse i positivisti di fine Ottocento altrettanta certezza nella capacità della scienza di preparare per l'umanità un futuro di progresso, facendo piazza pulita di fedi, superstizioni, ideologie? Non passò gran tempo dal fiorire del nuovo credo che la scienza e la tecnica espressero la loro capacità di superare ogni limite conosciuto, sì, ma non nel miglioramento delle condizioni di vita della specie, bensì nella guerra più devastante e micidiale dell'intera storia umana. E sebbene ai tempi la “filosofia” godesse ancora di grande prestigio, non solo non riuscì a impedire la strage, ma produsse anche buoni argomenti a suo sostegno. Il fatto è che, come non esiste “la filosofia” in sé, ma esistono “i filosofi” che per definizione esprimono sistemi di pensiero differenti, così non esiste una tecnica astratta, al di sopra del mondo degli uomini. Esiste la tecnica del capitale, con i suoi scopi finalizzati a precisi interessi di classe, e solo l'abbattimento della dittatura di classe della borghesia abbatterà le barriere che ostacolano l'evoluzione sociale. Severino non può ignorare la contraddizione individuata dal marxismo tra lo sviluppo delle forze produttive e i limiti imposti dai rapporti di produzione: ma non intende servirsene. Deve dire la sua sul morente capitalismo senza confondere il proprio pensiero con quello di “filosofi” del passato, ritagliandosi così un posto proprio nella “storia della filosofia”.

Quando Marx – che era un rivoluzionario che si occupava anche di filosofia, ma al servizio della rivoluzione – scrisse che “I filosofi hanno [finora] solo interpretato diversamente il mondo; ma si tratta di trasformarlo” (Tesi su Feuerbach), non intendeva certo affidare il compito ai filosofi. Con buona pace di Severino, e senza mettere in discussione la sua professionalità nell'arte di interpretare il mondo, per la sua trasformazione preferiamo ancora affidarci alla prospettiva comunista rivoluzionaria. Per quanto da ogni parte si ripeta il mantra della sua morte, è l'unica strada realistica, perché è l'unica materialisticamente fondata che l'umanità possa percorrere per liberare l'umanità dalle catene che la opprimono.

NOTE

1- G. Tonelli, “Universo precario in equilibrio sul baratro”, Il fatto quotidiano, 25/5/2017.

2- G. Schroeder, Discorso al Bundestag, 14 marzo 2003. Questa e le altre perle che seguono sono tratte dal dibattito di inizio 2000 in Germania in vista dell'introduzione della nuova legislazione del lavoro che ha preso il nome di Hartz IV. Le riportiamo da Le MondeDiplomatique/Il Manifesto di ottobre 2017. Su Hartz IV, cfr. il nostro articolo “Dalla Germania. La ‘crisi’ dello Stato sociale tedesco”, Il programma comunista, n.2/2017.

3- http://www.lettera43.it/articoli/economia/2012/12/27/severino-capitalismo-senza-futuro

 

Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista)

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