DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Hanno un bel gridare di sconfitta o addirittura di morte del comunismo, i cantori della democrazia e del riformismo, a proposito del crollo del cosiddetto socialismo reale nell'Est. A cadere come miserabili castelli di carta sono stati in realtà i partiti, gli uomini, i regimi cresciuti all'ignobile scuola e nella pestifera atmosfera dello stalinismo. Sono caduti o nel sangue di un estremo quanto vano soprassalto di resistenza (come nell'unico caso romeno) o nell'ignominia di squallidi trasformismi culminati nell'espulsione e magari nell'arresto di qualche capo e sottocapo e di pavide auto-sconfessioni con tanto di scuse ufficialmente presentate al popolo per averlo sommerso sotto una valanga di menzogne e trascinato in una situazione drammaticamente priva di sbocchi.

Ma dire stalinismo significa dire capovolgimento delle basi stesse del marxismo, perché non c'è marxismo là dove non si pone, come questione di vita o di morte per la rivoluzione vittoriosa in un angolo qualunque del pianeta, l'internalizzazione del processo rivoluzionario. È, questo, un punto di principio per quanto riguarda i Paesi capitalisticamente avanzati – quelli cioè che, proprio in quanto tali, forniscono le basi materiali, oggettive, del passaggio al socialismo. Ed è, a maggior ragione, un punto di principio (lo sapeva bene Lenin) (1) per quanto riguarda paesi, come la Russia dopo la sfolgorante vittoria politica dell'Ottobre, in cui i primi "germogli di capitalismo" coesistono con elementi ben più decisivi non solo di "piccola produzione mercantile", ma addirittura di "economia patriarcale, cioè in larga misura naturale". In questi paesi, il partito che, conquistato per via rivoluzionaria il potere politico, esercita la dittatura proletaria, non può fare altro, sul terreno economico, che "mettersi alla scuola del capitalismo di Stato, assimilarlo con tutte le forze" dai paesi capitalisticamente avanzati, promuovendone il difficile, tormentato sviluppo in attesa della rivoluzione proletaria nei gangli vitali dell'imperialismo: solo grazie alla vittoria di questa (cui il partito avrà contribuito col meglio delle proprie forze) sarà infatti possibile compiere il balzo di un passaggio diretto al socialismo.

Questa la prospettiva marxista, mai nascosta e mai taciuta dai bolscevichi, per i paesi nelle condizioni della Russia 1918-1923: gettare o rafforzare "le basi del socialismo" (e cioè il capitalismo almeno in prevalenza di Stato, guardandosi bene dal pretendere o dal proclamare, con ciò, di "costruire il socialismo"); e tenerle sotto controllo con l'arma del potere politico e il sostegno determinante dell'organizzazione internazionale dei lavoratori in vista dello sbocco risolutivo della rivoluzione comunista mondiale.

Lo stalinismo spezzò invece l'anello vitale di congiunzione con l'internazionalismo rivoluzionario e contrabbandò come marxista la teoria inversa, e controrivoluzionaria, della "costruzione del socialismo in un solo Paese". Così facendo, si autocondannò ad assumersi il ruolo esclusivo di promotore e gestore della nascita in Russia di un pieno capitalismo nazionale e della sua ulteriore ascesa a grande potenza imperialistica. Non solo. Così facendo, abbandonò al proprio destino il movimento comunista internazionale, ne scompaginò le fila, ne infangò e, se non bastava, ne massacrò le ali di sinistra estrema, per procedere allo scioglimento anche dell'ultima parvenza di organizzazione internazionale rivoluzionaria. Impose nello stesso tempo ai residui e addomesticati partiti "fratelli" di passare dall'adesione ai fronti popolari (già perpetrata negli anni '30) all'adesione ai fronti nazionali e, dopo la guerra, ai governi di ricostruzione nazionale. E, a quel punto, completò l'opera nefasta con la loro trasformazione in partiti prima di democrazia progressiva, poi di democrazia tout court, infine di opposizione parlamentare a governi dichiaratamente borghesi o, se possibile, di coalizione governativa con socialdemocratici o socialcristiani, in nome di una riforma  del sistema. Li trasformò insomma in partiti riformisti, gradualisti, nazionali – il che vuol dire tutto fuorché comunisti, anche se del comunismo essi, per non perdere la faccia soprattutto davanti agli elettori, mantenevano il nome e i simboli.

Questo, fuori di Russia. Nella "patria del socialismo", lo stalinismo doveva liquidare anche fisicamente la Vecchia Guardia bolscevica, e così fece, con una brutalità, con una freddezza, con una determinazione a non fermarsi di fronte a nessun ostacolo pur di farla finita con gli ultimi avanzi di una grandiosa tradizione rivoluzionaria (2), al cui confronto i crimini di Ceausescu sono scherzi da bambini. Doveva spingere avanti a marce forzate l'industrializzazione del paese: e così fece, pigiando sul pedale dell'“emulazione socialista" per spremere fino all'ultima goccia il sudore e il sangue dei proletari, e sacrificando alla produzione di beni strumentali quella dei beni di largo ed essenziale consumo – proprio all'opposto di ciò che predica e prevede il marxismo. A giustificazione del proprio operato, teorizzò l'assurdo di un mercato "socialista", di un salario "socialista", di una moneta "socialista", di un profitto aziendale "socialista", e per conseguire quest'ultimo mobilitò le grandi masse irreggimentate nelle aziende industriali e agricole di Stato (facendo poi passare per "collettive", in campo agrario, le parallele aziende cooperative, godenti del suolo in usufrutto perpetuo e del possesso in proprietà privata di poderi e casette familiari).

Doveva avvolgere – e infatti avvolse – il partito russo e le sue dipendenze straniere nell'atmosfera ammorbante della catechizzazione rituale di un marxismo capovolto, svuotato della sua essenza rivoluzionaria, e piegarli alla servile adorazione dei "capi": da quello supremo, elevato a dignità di "padre dei popoli" e "Himalaya del pensiero", fino all'ultimo caporaletto delle molteplici gerarchie organizzative. Dopo la Seconda guerra mondiale, anzi già nel suo corso, doveva smantellare (e infatti smantellò) a beneficio dell'Urss gli apparati produttivi di paesi sconfitti, ben presto destinati ad entrare a viva forza nella sua orbita. E di questi stessi paesi (che, oggi s'è visto con chiarezza, stavano in piedi alla sola condizione di vivere sotto lo scudo armato dell'Urss, venuto meno il quale sarebbero andati in briciole) fece gli avamposti economici e militari del nuovo impero moscovita, modellandone le strutture sulle proprie e inquadrandoli al proprio servizio. Nei confronti delle minoranze nazionali comprese nel suo territorio – ed è noto quante fossero, e quanto diverse fra loro – , doveva praticare (e infatti praticò) quella politica di sciovinismo da grande potenza, nella cui pratica si erano fatti le ossa Stalin & Co.: una politica a cui Lenin, come abbiamo più volte documentato (3), aveva deciso di proclamare "guerra aperta" – e non avrebbe esitato a scatenarla se la malattia gli avesse lasciato respiro – , e di cui i governanti moscoviti raccolgono oggi i frutti più amari. Doveva rafforzare (e infatti rafforzò) sempre più quello Stato che, secondo il marxismo, deve al contrario estinguersi fino a scomparire nella società socialista, e la cui persistenza è invece la prova diretta che di socialismo non si tratta; e, con lo Stato, rafforzare quella burocrazia e quell'esercito che ne sono il naturale complemento.

Dopo aver ridotto a guscio privo di contenuto la dittatura del partito, lo stalinismo doveva svuotarla anche dell'incessante rapporto dialettico con l'insieme della classe, organizzata nei Soviet e nei sindacati, che aveva reso così vive e vibranti le pagine anche più burrascose dell'epopea leninista del dopo Ottobre. Doveva, anche per questa via, gettare i semi di quel distacco dalle masse proletarie, di quell'erosione delle basi anche più elementari del consenso, di quell'insorgere finale di forze rabbiosamente centrifughe, che hanno reso inevitabile lo sfacelo del blocco – fino a poco tempo addietro apparentemente inespugnabile – dell'Est europeo. Doveva infine, con quel misto di ottusità e di rozzezza che non hanno mai cessato di essere le sue principali caratteristiche esteriori, rendere all'Occidente borghese l'estremo ma fondamentale servizio di far apparire odioso ai proletari il nome stesso di comunismo, cingendo invece di un'aureola di angelica purezza e straordinaria appetibilità la prospettiva di un'evoluzione in senso riformista e democratico.

Oggi che è venuta l'ora di tirare le somme di uno dei più foschi e insieme squallidi periodi della storia contemporanea (e purtroppo, in essa, dello stesso movimento operaio, pur con le sue migliori tradizioni) fa comodo ai partiti nati dal rinnegamento stalinista di queste stesse tradizioni fingere di cader dalle nuvole, come se fossero rimasti pietosamente all'oscuro dei protagonisti della storia dei partiti fratelli e delle loro imprese, mentre ne erano gli interlocutori privilegiati e i premurosi compagni di cordata anche nel silenzio. Fa loro comodo "prenderne le distanze" come se fosse possibile sanare con la risibile inezia di uno "strappo" per giunta tardivo la realtà di una sudditanza pluridecennale, o "dissociarsene" pubblicamente al modo di tortuosi pentiti, per concludere la propria parabola non nell'abiura totale e definitiva di ciò che implica lo stalinismo, ma nell'esaltazione del democratismo, delle ubbie riformistiche, delle chiusure nazionalistiche, che dell'eredità ideologica e pratica dello stalinismo sono invece parte integrante. Fa loro comodo, tutto ciò, per conquistarsi i galloni di neo-convertiti all'anti-comunismo, all'anti-marxismo, all'anti-leninismo, così come fa comodo ai rappresentanti classici del pensiero e del costume borghese ardere di sacro sdegno per gli orrori di regimi con in quali non hanno mai cessato di fare affari, neppure in tempi di "guerra fredda" dichiarata; o per le infamie di "condottieri" che in politica estera, coerenti con la dottrina del "socialismo in un paese solo", osavano magari battere strade proprie in relativa autonomia da Mosca e, appunto per questo, erano circondati di tanta simpatia in Occidente; o per le menzogne e le atrocità di quegli stessi Stalin & Co., alla cui salute avevano brindato nel corso della "guerra antifascista" e al cui benevolo intervento in quanto capi riconosciuti del movimento cosiddetto comunista sanno di essere andati debitori del passaggio indolore dallo spaventoso conflitto a un incerto dopoguerra.

Crollano uno dopo l'altro i miti stalinisti e brezneviani del "socialismo reale". Piaccia o no a Lor Signori, è questa una vittoria del marxismo, non una sua sconfitta – una conferma della sua vitalità, non un suo attestato di morte. È sulla base di questo riconoscimento, in controcorrente all'andazzo generale, che rinascerà – in un giorno certamente non vicino, ma sicuro – il partito comunista rivoluzionario del proletariato. È per dare un contributo al raggiungimento di questo obiettivo che noi, pur nell'esiguità delle nostre forze, non cessiamo né cesseremo di batterci.

Note

1.Fra gli innumerevoli brani di Lenin riguardanti la questione qui accennata (largamente riprodotti nel nostro La crisi del 1926 nel Partito e nell'Internazionale) citiamo qui solo brevi stralci dall'opuscolo Sull'imposta in natura, che è del 1921, ma ha come punto di partenza uno scritto del 1918. Lenin era perfettamente consapevole sia della necessità inderogabile di battere questa duplice via, sia dei tremendi rischi che essa comportava. Il problema martellante del "Chi vincerà?" restava drammaticamente aperto, ma nulla doveva indurre i bolscevichi a un ben che minimo cambiamento di rotta: "Abbiamo sempre professato e ripetuto quella verità elementare del marxismo secondo cui la vittoria del socialismo richiede gli sforzi congiunti dei proletari di più paesi avanzati" (Note di un pubblicista, in Opere, Vol. XXXIII, p.185).

2. Sia detto per inciso, allora nessuno della greppia democratica e socialdemocratica internazionale levò una sillaba di protesta: la democrazia occidentale, con a capo "l'intellettualità di sinistra", sapeva di avere il suo tornaconto nella vittoria dello stalinismo.

3. Ma non era una novità: bastava leggere le ultime sette pagine del vol. XXXVI delle Opere.

                                                                                  (Il programma comunista, n.1/1990)

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