DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

 

4. Primi marxisti in Italia

 

Ci è utile, per tornare all'argomento italiano, una lettera di Engels sul principio di autorità, da lui indirizzata ad uno dei primi socialisti marxisti italiani, il Bignami, che la pubblicò nell'"Almanacco repubblicano" per l'anno 1874 (e noi la riportiamo dagli Scritti Italiani di Marx ed Engels, ed. Avanti!, 1955). In essa è il brano famoso: "Una rivoluzione è certamente la cosa più autoritaria che vi sia; é l'atto per il quale una parte della popolazione impone la sua volontà all'altra parte col mezzo di fucili, baionette e cannoni, mezzi autoritari se ce ne furono; e il partito [nota bene!] vittorioso, se non vuol avere combattuto invano, deve continuare questo dominio col terrore che le sue armi [del partito] inspirano ai reazionari".

E la lettera conclude accusando gli antiautoritari o di seminar la confusione o di tradire il proletariato, a vantaggio in entrambi i casi della reazione.

Questi ed altri cento documenti stabiliscono quale errore sia sempre stato il considerare l'avversione di Marx, di Engels e del movimento socialista internazionale per gli anarchici come una rinunzia ai mezzi insurrezionali e rivoluzionari; lunga e dura illusione soprattutto in Italia, che solo successive situazioni storiche, dopo la rivoluzione russa, avevano trionfalmente dispersa.

Il Bignami in effetti è il primo nome di marxista che si trovi nelle storie a tipo di cronaca per protagonisti. Il suo periodico La Plebe cominciò a pubblicarsi a Lodi nel 1868. Invero il sottotitolo della Plebe era "periodico repubblicano, razionalista, socialista" ma non sono giuste le valutazioni derivate da accuse anarchiche che l'indirizzo fosse di un socialismo "maloniano", ossia umanitario e alieno dai mezzi violenti. La corrispondenza con Engels ne è una sufficiente prova. La qualifica di repubblicano è efficace nei confronti della tendenza (che sorgerà poco più oltre) secondo cui i socialisti devono essere "agnostici" in materia istituzionale, ossia indifferenti a lavorare in monarchia o in repubblica, grave malattia opportunista sempre combattuta da ogni marxista radicale. L'aggettivo razionalista basta a chiarire che non si tratta della repubblica alla Mazzini, che è, giusta la formula Dio e Popolo, nettamente teista. Populismo e teismo vanno bene assieme.

Altri giornali dell'epoca sono chiaramente dominati dall'indirizzo libertario; lasciamo ad altri ricercatori ogni dettaglio in argomento.

Il 1° settembre del 1873, Ginevra vede riuniti due distinti congressi, dei marxisti e dei bakuniniani. Al primo aderiscono due sole sezioni italiane: Lodi e Aquila, che si erano scisse dalla "Federazione italiana dell'Associazione internazionale dei lavoratori". È chiaro che a quel congresso si definirono i legami fra Marx-Engels e la sezione di Bignami, di cui fu conseguenza il fondamentale articolo dell'Almanacco 1874 che passa in posto d'onore nell'archivio teorico della Sinistra.

Gli anni seguenti sono riempiti dai vivaci tentativi insurrezionali degli internazionalisti italiani. Non è facile provare la affermazione che i primi socialisti non libertari condannassero quei moti; essi difesero in quanto valorosi compagni proletari le vittime della persecuzione poliziesca e giudiziaria della borghesia. Nel 1874 insorsero prima i romagnoli, e in seguito alla sconfitta Bakunin fuggi da Bologna ove attendeva l'esito del moto partito da Imola, antica cittadella rossa; poi i moti, che risentivano palesemente della mancanza di un centro nazionale dirigente, si ebbero anche altrove, ma soprattutto nel Beneventano (1877). La lezione storica di questo periodo è che l'autonomismo locale è sempre fattore disfattista di ogni movimento rivoluzionario: l'unità statale borghese va colpita nei gangli vitali del centro, come nella Comune di Parigi.

Possiamo riferire a Bologna, marzo 1880, non un congresso ma un primo convegno che si prefigge di fondare un partito socialista; l'iniziativa, tuttavia, non ebbe seguito immediato.

Tra il 1873 e il 1880, il movimento della Internazionale bakuniniana, oggetto di violente persecuzioni poliziesche e giudiziarie da parte del regime monarchico italiano, tiene altri congressi, ma dopo il decennio si estingue e si trasforma in movimento anarchico, che preferisce funzionare per gruppi locali e ammette solo un vago federalismo talché i congressi nazionali e internazionali appaiono ai seguaci di tale indirizzo, ancora numerosi, una forma inutile.

La Federazione italiana della Internazionale bakuninista, dopo il congresso di Rimini 1872, ne tiene un secondo a Bologna nel 1873, un terzo a Firenze nel 1876, un quarto a Pisa nel 1878. Dopo, la federazione dell'Alta Italia si dovette riunire a Chiasso nel 1880 e non votò indirizzi, per la tesi anarchica contro la sovranità dei congressi. Alla vigilia poi del definitivo distacco tra anarchici e socialisti, ma sotto la pressione della tendenza generale alla forma di partito nazionale politico, gli anarchici si riunirono a Capolago nel 1891 come Federazione Italiana del Partito Socialista Anarchico Rivoluzionario. Fra contrastanti tendenze fu eletta, come solo organo centrale, una commissione di corrispondenza.

Per seguire nel decennio 1880-1890, e fino al 1892, la formazione del partito politico socialista fa d'uopo seguire non più i libertari che in Italia rappresentavano l'Internazionale (non più marxista), ma la lunga serie delle organizzazioni operaie che si andarono formando dopo la costituzione dell'unità nazionale con obiettivi all'inizio più che limitati.

Già prima del 1860 vi erano stati nel Piemonte congressi delle Società Operaie. Tali società erano sorte da tempo sotto la tutela paternalistica dei governi con scopi di assistenza mutua che nell'epoca si attuava con fondi sorti da modesti versamenti degli associati da cui si traevano sussidi di malattia e di infortunio, talvolta con vaghi scopi educativi che la chiesa faceva in modo di avocare a sé. Dopo lo statuto del 1848, la tendenza di destra facente capo ai liberali sosteneva che gli operai, se come cittadini andavano chiamati ai diritti del suffragio, come categoria sociale nei loro congressi non dovevano trattare di questioni politiche. Ma una tendenza di sinistra, nella quale si muovevano i liberali radicali, i mazziniani, e alcuni primi socialisti, compieva sforzi in senso opposto, e nel 1859 a Novi riuscì a far votare la sottoscrizione operaia per un milione di fucili a Garibaldi.

Nell'ottobre 1860 si riunisce a Milano l'ottavo congresso delle Società Operaie italiane. Una prima tendenza a passare dal campo della "mutualità" a quello della "resistenza" si manifestò nella proposta dell'organizzazione per settori d'arte e di mestiere, contro i piemontesi che erano per una organizzazione indistinta o, come si diceva, "cumulativa", atta solo a scopi di assistenza e non a quelli che poi si dissero sindacali.

Al congresso di Firenze nel 1861, i mazziniani si impadronirono del movimento delle Società Operaie, da cui si scissero quelle di tendenza moderata. A Roma, nel 1871, il congresso delle Società Operaie aderì con un ordine del giorno ai principi sociali e politici di Mazzini, provocando l'uscita di alcuni delegati aderenti all'internazionalismo libertario, come il Cafiero. Le Società Operaie affratellate di tipo mazziniano si riunirono ancora nel 1874 a Roma, dove si pronunziarono contro gli scioperi, ritenuti "in massima dannosi", e invitarono le Consociazioni regionali a prevenirli "con ogni sforzo... contrapponendo, qual riparo alle ingiuste esigenze del proprietario, l'associazione del capitale col lavoro", e la costituzione di "arbitrati misti di operai e proprietari"!

A Genova nel 1876, sempre sotto l'influsso repubblicano, un congresso votò contro la partecipazione alle elezioni politiche finché non vi fosse il suffragio universale (non va dimenticato che i mazziniani puri erano e furono sempre astensionisti in monarchia).

A Bologna 1880 un congresso nazionale delle Società di Mutuo Soccorso, con intervento di repubblicani e socialisti, si oppose a progetti governativi di riconoscimento statale delle mutue e relativo controllo statale delle loro casse (che precorrevano la tendenza a bloccare il sindacato operaio nella macchina statale) e tenne una conferenza per il suffragio universale.

Si era ormai delineata l'esigenza di riunire le associazioni operaie in un partito politico nazionale, ma i programmi non potevano essere chiari in un paese, come l'Italia, con una stratificazione sociale ambigua, e tra le influenze di tipo piccolo-borghese dei libertari da una parte e dei liberali o semiradicali costituzionali dall'altra. Siamo alla vigilia della costituzione di un Partito Operaio, che avrà origine a Milano.

Ma di grande interesse è la riunione a Rimini, nell'agosto 1881, del I congresso del Partito Socialista Rivoluzionario di Romagna. Anima di tale iniziativa fu Andrea Costa. Nel '79 il grande agitatore si era staccato dai libertari, dei quali era stato uno dei maggiori esponenti in Italia, e nell'81 aveva fondato a Cesena il glorioso Avanti!. Non è nel nostro proposito svolgere tali dettagli storici, ma lo potrebbero fare ricercatori che non si fermino alle polemiche e alle vicende personali e di persecuzione ed esilio degli agitatori del tempo, ma guardino a fondo al loro apporto alla precisazione dei programmi di partito. È noto che il Costa fu un propagandista e un agitatore magnifico, e non solo, anche un ottimo organizzatore; ma forse la sua opera di teorico è rimasta poco conosciuta mentre indubbiamente fu notevole. Alla fine di quel decennio il marxismo si introdusse in Italia; e con grande fatica si dispersero, seppure non in tutto, le deformazioni polemiche dei Mazzini e dei Bakunin. L'errore libertario cominciò a vacillare. A noi non sembra molto importante che un grande anarchico, Carlo Cafiero, prima di morire nel 1882 abbia inviato al Bignami della Plebe una lettera in cui approvava la partecipazione alle elezioni politiche; molto importante è invece che proprio Cafiero abbia stampato in Italia il famoso riassunto del "Capitale", quando era intellettualmente in pieno vigore.

Per Andrea Costa, era cosa ben chiara che l'adozione della tattica elettorale, se distingueva i socialisti dagli anarchici (e non da tutti questi), non aveva affatto il carattere, a cui per venti o trent'anni tutti hanno creduto, di ammettere che il potere politico possa dal proletariato essere conquistato per via legale e senza rivoluzione armata.

La premessa al programma del Partito Socialista Rivoluzionario di Romagna (Rimini 1881) è, sotto questo profilo, di una straordinaria lucidità, e di una formulazione ineccepibile (in appendice a G. Manacorda, Il movimento operaio italiano attraverso i suoi congressi, Roma, ed. Rinascita, 1953): "Considerando:

che condizione primordiale della emancipazione umana delle classi lavoratrici, e perciò di tutti gli esseri umani, è la emancipazione economica;

che questa non può ottenersi se non quando le classi lavoratrici delle città e delle campagne si impossessino, pel bene di tutti, della terra e dei capitali e, per conseguenza, di tutto il potere politico militare e sociale, che da il loro possesso;

che, l'esperienza storica dimostrando come una classe privilegiata non ceda mai pacificamente i suoi privilegi secolari, l'appropriazione della terra, del capitali e di ogni potere sociale non può avvenire se non per via di rivoluzione, tanto che la rivoluzione non é soltanto il miglior modo, che noi proponiamo, per sciogliere efficacemente la questione sociale ed emancipare le moltitudini, ma è una fatalità storica inevitabile, che noi non facciamo se non formulare, rendere cosciente ed affrettare con tutte le forze nostre; per queste ragioni:

il Partito Socialista di Romagna è e non può non essere rivoluzionario.

La rivoluzione è, prima di tutto, un'insurrezione materiale violenta delle moltitudini contro gli ostacoli, che le istituzioni esistenti oppongono alla affermazione e alla attuazione della volontà popolare.

La rivoluzione é perciò, prima di tutto, dittatura temporanea delle classi lavoratrici, cioè accumulazione di tutto il potere sociale (economico politico militare) nelle mani dei lavoratori insorti, allo oggetto di atterrare gli ostacoli, che il vecchio ordine di cose oppone all'instaurazione del nuovo, di difendere, di provocare, di propagare la rivoluzione, e di eseguire l'espropriazione dei privati, di stabilire la proprietà collettiva e l'ordinamento sociale del lavoro".

Il programma osserva poi che la "trasformazione dalle radici di tutto l'ordinamento sociale" al quale il socialismo mira, non può avvenire per opera "di cospirazioni, di raggiri diplomatici e di decreti", né di "tentativi di rivolta di minoranze audaci" (tentativi che non sconfessa, ma lascia alla "iniziativa individuale"), bensì richiede "non solamente la cooperazione degli individui coscientemente socialisti e rivoluzionari, che non sono generalmente mai se non una piccola minoranza, ma... la cooperazione efficace ed energica delle moltitudini dei salariati industriali e agricoli".

Non respinge le riforme e le rivendicazioni immediate e contingenti, ma proclama che "per noi [esse] non sono che un'occasione, un mezzo di attrazione e di lotta - mezzo passeggero il quale non impedisce che rendiamo possibili e approfittiamo di altre manifestazioni dell'attività popolare e rivoluzionaria, particolarmente quando ogni manifestazione legale ci sia resa impossibile".

Dichiara che la rivoluzione deve: "essere preceduta da un'ampia propagazione delle idee socialistiche rivoluzionarie ed aver per organo un partito fortemente ordinato [ecco un balzo avanti nettissimo dal concetto anarchico del partito come rete elastica di gruppi autonomi, o addirittura del non-partito], capace di provocarla, quando esistano le condizioni necessarie alla sua buona riuscita, e d'inspirarla e anche di dirigerla, quando sia scoppiata.

Perciò il nostro partito ha un doppio oggetto: quello di svegliare con la parola, con gli scritti, con gli esempi, e all'uopo con altri mezzi, le moltitudini assopite delle città e delle campagne, preparandole alla rivoluzione che si va compiendo inesorabilmente nella società per opera di quegli stessi fattori sociali, che ora ci tengono oppressi; e quello di approfittare della occasione favorevole per rovesciare le moltitudini stesse sull'ordine esistente, inspirarle e dirigerle nella lotta e far ogni sforzo perché la rivoluzione dia quei frutti, che le moltitudini ne aspettano".

Quanto sappiamo dell'Andrea Costa dei momenti migliori, tra l'altro precursore del più reciso anticolonialismo, permette a noi di inserirlo nella traccia storica dell'autentica sinistra italiana.

Abbiamo qui l'attestazione programmatica della dittatura marxista del proletariato, che i socialisti tedeschi tenevano nascosta, come Lenin svelò. Essa non era ignota in Italia, sebbene soffocata dalla menzogna che gli anarchici sono per la violenza e che i socialisti se ne staccarono per pacifismo sociale.

La storia dell'Angiolini ("Cinquant'anni di socialismo in Italia"), noto riformista, e ben destro, edita a Firenze nel 1900, in tutte le pagine presenta gli antianarchici non solo come autoritari, che è termine valido e da noi rivendicato, non solo come legalitari, ma perfino come "transigenti" ed "evoluzionisti", il che è grossa svista programmatica almeno quando non si guardi alla tendenza socialista di destra che, come vedremo, nasce non nel 1890 ma nel 1900, per dominare fino al 1910 (e debordare oscenamente oggi, dal 1925 in poi).

Eppure l'Angiolini, che a modo suo rivendica il marxismo teorico, non può non scrivere a pag. 61 queste parole: "Il Marx voleva come scopo finale l'associazione dei produttori basata sulla proprietà collettiva del suolo e degli strumenti di lavoro, e come mezzo la dittatura politica e transitoria della classe operaia".

È il passo dove lo contrappone giustamente a Bakunin, il quale voleva che l'Internazionale "fosse del tutto indifferente alla questione della forma di governo".

Se dunque è vero, come abbiamo cento volte denunziato, che nel secondo volume dell'edizione Avanti! delle opere di Marx, Engels e Lassalle, 1914 (lettera di Marx sul programma di Gotha) la parola dittatura (quel Wörtchen del cornutissimo Kautsky) fu falsata in "critica rivoluzionaria del proletariato", non è men vero che dal 1900 essa girava stampata (come gira in Europa dal 1848 nelle "Lotte di classe in Francia") per tutta Italia.

I filistei indigeni finsero di scoprirla nel 1917. I filistei russi la stanno in questi giorni seppellendo!

Da questo momento abbiamo due correnti che confluiranno nel formare il partito proletario di classe: una è quella del Partito Socialista Rivoluzionario di Romagna di cui ora abbiamo detto e che dal terzo congresso a Forlì nel 1884 prenderà il nome di P.S.R. italiano, l'altra è quella del Partito Operaio, la cui prima sezione nasce a Milano nel 1882 e alla cui attività in quegli anni contribuirà il giovane avvocato Filippo Turati. È da notare che il Partito Operaio al suo inizio è "operaista", o, per dirla all'inglese, laburista, non vuole avere una ideologia politica, non vorrebbe organizzare se non lavoratori salariati e manuali, ed è - come gli anarchici - astensionista elettorale per orrore degli intrighi corruttori della politica borghese. Rispetto a tali posizioni sarà un passo avanti quello di ammettere nel partito tutti i militanti aventi un'opinione teorica socialista, di darsi un chiaro programma politico e di partecipare in opposizione a tutti i partiti borghesi alle lotte elettorali. Nel 1885 si tiene a Milano il I congresso del Partito Operaio Italiano. Ancora si respinge, pur salutando il Partito Socialista Rivoluzionario e auspicando la riunione con esso, la lotta politica, e si definisce il partito come "economico". Al partito aderiscono associazioni operaie e di arte (oggi diremmo di categoria): suo strumento principale di lotta è lo sciopero. A Mantova nel 1885 il partito si unifica con la Confederazione Operaia Lombarda, influenzata da radicali democratici, ma poi svoltasi in senso socialista. A questo congresso vi è Costantino Lazzari, autentico proletario marxista. È originale la sua soluzione agnostica del problema elettorale: il partito "non avendo alcun programma di governo" lascia libere le sezioni di partecipare o no alle lotte elettorali. Chi conosce il pensiero del bravo Lazzari sa che egli non intendeva dire che la borghesia tenesse pure in mano il governo quanto voleva, ma, all'opposto, che i socialisti non dovevano entrare in governi borghesi democratici; sbocco della tattica parlamentare che il futuro dimostrò in Europa quasi inevitabile. La detta posizione fu ribadita ancora a Mantova nel 1886. Ma nelle elezioni di quell'anno il Partito Operaio, pur riaffermando la propria "indipendenza di fronte a tutti i partiti politici come rappresentanti degli interessi dei capitalisti", scese in lotta a Milano senza successo, mentre il Partito Socialista Rivoluzionario faceva riuscire Costa ad Imola e Moneta a Mantova. Il Partito Operaio, oggetto di processi e persecuzioni, tenne il III congresso a Pavia nel 1887, il IV a Bologna nel 1888, il V (che fu l'ultimo) a Milano nel 1890. L'evoluzione interessante è la sostituzione delle vecchie società operaie di mutuo soccorso con le leghe di resistenza e l'adozione aperta del metodo dello sciopero. Mentre i congressi delle Fratellanze di mutue, già dominate dai mazziniani, si andavano svuotando di ogni carattere di classe, maturavano le condizioni per un congresso di unificazione di tutte le forze socialiste in un partito politico unico.

 

5. Genova 1892: il Partito Socialista

 

Il celebre congresso di Genova del 1892 che dette i natali, come si suo] dire, al Partito Socialista Italiano, è anche ben noto non come un congresso di unificazione, ma come il congresso della divisione fra anarchici e socialisti. In effetti le correnti romagnole del Partito Socialista Rivoluzionario e quelle lombarde del Partito Operaio trovarono un terreno comune di natura pratica nella partecipazione alle elezioni, a cui gli anarchici e gli operaisti puri si opponevano, sebbene in quel torno non senza alcune concessioni (Comuni, candidature agitatorie di condannati e simili). Il congresso fu drammatico e tumultuoso: vi prevalsero i socialisti politici che si erano formati al marxismo e che erano per la fondazione di un partito solidamente unico e disciplinato che conducesse tutta l'azione del proletariato italiano. Dall'incontro uscirono due partiti dello stesso nome: Partito dei Lavoratori Italiani; ma l'uno era di principi anarchici, l'altro di principi marxisti. Nel campo marxista, come sempre avviene in tali svolte, non si chiarirono le differenze tra la visione rivoluzionaria e quella, già allora apparsa in Europa, riformista o revisionista. Ne venne il famoso programma di Genova 1892 che il partito conservò fino al 1921, quando a Livorno ne uscirono i comunisti. Occorre riportare questo programma nel suo testo integrale, perché giustifica la critica che i rivoluzionari ne fecero dopo la guerra 1914-18, pur non avendo prima chiesto che fosse modificato.

In esso la tattica della partecipazione elettorale prende una formulazione di principio che non si concilia con la teoria marxista dello Stato e del potere, chiarissima già nel Manifesto del 1848 e negli "Statuti della Prima Internazionale" del 1864, a cui pure il partito proclamò sempre fedeltà. Non è infatti detto che solo a fini di propaganda e di agitazione si entrerà nel parlamento e nelle amministrazioni locali, ma si giunge a dire che tali organi, e lo stesso Stato, sono da conquistare per "trasformarli" in strumenti di espropriazione della borghesia capitalistica.

Ecco il testo del trentennale programma: "Considerando

che nel presente ordinamento della società umana gli uomini sono costretti a vivere in due classi: da un lato i lavoratori sfruttati, dall'altro i capitalisti, detentori e monopolizzatori delle ricchezze sociali;

che i salariati d'ambo i sessi, di ogni arte e condizione, formano per la loro dipendenza economica il proletariato, costretto ad uno stato di miseria, d'inferiorità e di oppressione;

che tutti gli uomini, purché concorrano secondo la loro forza a creare e a mantenere i benefici della vita sociale, hanno lo stesso diritto a fruire di cotesti benefici, primo dei quali la sicurezza sociale dell'esistenza;

riconoscendo

che gli attuali organismi economico-sociali, difesi dall'odierno sistema politico, rappresentano il predominio dei monopolizzatori delle ricchezze sociali e naturali sulla classe lavoratrice;

che i lavoratori non potranno conseguire la loro emancipazione se non mercé la socializzazione dei mezzi di lavoro (terra, miniere, fabbriche, mezzi di trasporto, ecc.) e la gestione della produzione:

ritenuto

che lo scopo finale non potrà raggiungersi che mediante l'azione del proletariato organizzato in Partito di Classe, indipendentemente da tutti gli altri partiti, esplicantesi sotto il doppio aspetto:

della lotta di mestieri per i miglioramenti immediati della vita operaia (orari, salari, regolamenti di fabbrica, ecc.) lotta devoluta alle Camere del Lavoro ed alle altre Associazioni di arti e mestieri;

di una lotta più ampia intesa a conquistare i poteri pubblici (Stato, Comuni, Amministrazioni pubbliche ecc.) per trasformarli, da strumenti che oggi sono di oppressione e di sfruttamento, in uno strumento per l'espropriazione economica e politica della classe dominante;

i lavoratori italiani, che si propongono la emancipazione della propria classe, deliberano:

di costituirsi in Partito, informato ai principi suesposti".

Tradizionalmente i "principi" che dal programma di Genova venivano stabiliti, erano: lotta di classe - socializzazione dei mezzi di produzione - organizzazione del proletariato in partito politico - indipendenza da tutti gli altri partiti. Non dobbiamo qui richiamare come in tali formule non si racchiuda tutto il marxismo rivoluzionario, che da quando era sorto aveva chiaramente parlato di conquista del potere politico col mezzo della violenza rivoluzionaria, di distruzione dello Stato parlamentare borghese, di dittatura del partito proletario per l'abbattimento del capitalismo. L'espressione finale di espropriazione economica e politica della classe dominante fu particolarmente vaga, e lunga causa di confusione. Egualmente poco chiara è la rivendicazione della "gestione della produzione", in cui manca il soggetto: il sindacato? lo Stato? E allora, lo Stato dovrebbe durare in eterno?

Non sono dubbi su formule letterarie: è il contenuto reale di una lunga e sanguinosa lotta di decenni in Italia e in Europa.

Nei primi cinque congressi del nuovo partito, fino a Bologna 1897, fu per tutti chiaro che lotta di classe e indipendenza. da tutti gli altri partiti significavano rifiuto di alleanze elettorali e parlamentari con ogni partito, anche radicale. Dopo le lotte del 1898, quando la monarchia italiana si poggiò su governi di destra, questo principio venne scosso, e la sanzione se ne ebbe a Roma nel 1900 (VI congresso) con la vittoria della corrente riformista e dei suoi brillanti esponenti (Turati, Bissolati, Prampolini, Treves, Modigliani, ecc.).

A Reggio Emilia nel 1893 tutti furono per l'intransigenza e contro ogni alleanza. Nelle firme dell'ordine del giorno che prevalse sull'altro, pure intransigente, firmato da Turati, troviamo i nomi di Lazzari, Serrati, Agnini; nel seguito, e fino alla crisi del dopoguerra, esponenti con altri del marxismo di sinistra.

III congresso, Parma 1895. La maggioranza adotta in tema di organizzazione un chiaro ordine del giorno centralista contro uno di stile federalista. Da questo momento si parla di Partito Socialista Italiano. Sulla tattica, la maggioranza è per l'intransigenza contro un ordine del giorno che ammette timide eccezioni locali.

IV congresso, Firenze 1896. Segue alla caduta di Crispi che aveva represso i Fasci siciliani, e all'amnistia concessa da di Rudini ai condannati. Di importante il voto contro l'ammissione al partito di associazioni economiche e peggio elettorali, e per la sola forma dell'adesione personale. Sulla tattica elettorale, a un ordine del giorno Sambucco di assoluta intransigenza ne fu preferito uno di Enrico Ferri con lievi eccezioni per i ballottaggi.

V congresso, Bologna 1897. Fu respinto un tentativo contro l'organizzazione accentrata del partito. Sulla questione agraria fu votato un ordine del giorno Agnini per l'organizzazione dei salariati e la constatazione che la piccola proprietà tende a sparire. In questo congresso Turati mise avanti l'idea dell'autonomia dell'organizzazione locale negli accordi elettorali. Ferri - che allora passava per marxista di sinistra, - propose la conferma della tattica di Parma. I voti furono: Ferri 97, Turati 90. L'intransigenza assoluta in un ordine del giorno Ciotti era stata respinta con 123 voti contro 66: si andava verso la vittoria dei riformisti al congresso di Roma.

Non è solo nei congressi, tuttavia, che possiamo trovare traccia della lotta della sinistra radicale e marxista, ma anche in altre manifestazioni della lotta socialista. Una delle più difficili è quella della difesa dei militanti processati nei giudizi successivi alle repressioni poliziesche, e che pure ai fini della difesa, e sotto la pressione degli avvocati patrocinatori inviati dal partito, avrebbero avuto ogni ragione di smussare le formule dei loro principi.

Dopo di aver citato Andrea Costa ricorderemo quindi un altro autentico rappresentante della sinistra rivoluzionaria: Nicola Barbato, medico, processato a Palermo dopo il movimento dei Fasci nel 1894. Aveva 34 anni, la condanna fu a 14. Il brano del suo discorso, che prendiamo dal volumetto delle Edizioni Avanti!, Milano 1958, "Autodifese di militanti operai... davanti ai Tribunali", è mirabile non solo per il coraggio ma per la chiarezza teorica che in tutta la sua vita caratterizzò quel compagno modesto quanto valoroso, vero esempio di marxista genuino.

Barbato anzitutto deplora che il socialista di destra Montalto, coimputato, abbia sconfessato gli anarchici chiusi nella stessa gabbia. Barbato non nega le differenze teoriche, ma con parola eloquente saluta quei generosi combattenti della rivoluzione alla testa degli sfortunati proletari e carusi di Sicilia.

Entra poi nella parte del discorso difensivo che risponde alle accuse del Tribunale militare. Riportiamo quel testo ammirevole: "Io, milite oscuro del socialismo, mi onoro di appartenere alla falange dei rivoluzionari; cioè non credo che il fenomeno delle insurrezioni a mano armata possa evitarsi nella più grande e più umana delle rivoluzioni della mia specie. Qui è il punto principale che divide me da Montalto, Bosco, Petrina e Verro: essi credono che la rivoluzione socialista si compirà senza insurrezioni armate. Secondo me le distruzioni violente spariranno quando comincerà ad esistere l'umanità.

L'umanità non è esistita mai e non esiste ancora: ci sono stati degli individui umani, cioè uomini che in tutto o nella massima parte degli atti della loro vita, hanno mostrato di avere sentimenti altruistici solidamente organizzati; ma l'umanità, come ente collettivo, incomincerà ad esistere il giorno, in cui l'uomo non sarà più costretto dai bisogni della propria conservazione a fare una lotta da lupi col proprio vicino.

Ammesso anche che la maggior parte degli individui delle nazioni civili sia oggi disposta per eredità e per educazione a vivere umanamente, bisogna pure che essa si adatti a vivere bestialmente, né più né meno come l'altra parte che non vi è disposta, se non vuole esporsi al pericolo di cadere tra i vinti e gli affamati; bisogna pure che ognuno di noi si adatti a levare il pane dalla bocca altrui senza pietà. Con le attuali organizzazioni sociali, sono destinate a perire quelle nazioni e quegli individui che non si sforzano col permesso dei codici, di rapire qualche cosa alle altre nazioni o agli altri individui. Questa vecchia verità è stata già riconosciuta da non pochi conservatori; ma essi, confondendo la biologia con la sociologia e applicando male le leggi darviniane, finiscono sempre col concludere che la lotta per la vita è legge naturale, che ha dominato e dominerà perennemente i rapporti tra nazione e nazione, tra individuo e individuo della stessa nazione.

Noi rivoluzionari, noi socialisti, invece, basandoci sulla storia e sulla sociologia, crediamo che verrà giorno in cui l'uomo non sarà più costretto dai bisogni della propria esistenza ad armarsi di fucili, di cannoni e di codici, per fare il ladro col cosiddetto straniero, col proprio concittadino, e non rare volte coi genitori, coi fratelli e con le sorelle. Saremo degli utopisti: ma non dimenticate che la bestia uomo si è distaccata dalle bestie ed è giunta al punto in cui è per virtù di utopie, le quali, prima di realizzarsi, destarono disprezzi, ire, odi e persecuzioni contro i poveri sognatori.

E la storia è da un pezzo che va preparando la realizzazione alla più bella delle utopie del cervello umano: il giorno, in cui nei codici si affermò che nell'interesse pubblico si può levare la proprietà privata al cittadino, indennizzandolo con moneta, si fece un vero atto di socialismo incosciente; un altro atto di socialismo incosciente può chiamarsi il servizio militare obbligatorio per tutti gli uomini robusti, mentre i deboli e le donne ne vanno esenti... e tanti altri esempi si potrebbero citare di socialismo incosciente. La ripetizione di simili atti e un gruppo complesso di fattori, che non è qui il luogo di esaminare, hanno prodotto la coscienza socialista che oggi non è più un sogno, ma la visione netta di una tendenza sorta da lungo tempo nelle società umane e arrivata a tale grado di sviluppo da farci sperare che non è lontana l'epoca in cui avremo le prime organizzazioni coscientemente socialistiche.

Qui ripeto ciò che dichiarai nel mio interrogatorio: da socialista ho tentato di contribuire alla più umana, alla veramente umana, delle rivoluzioni, con tutti i mezzi che ho creduto necessari e che il codice della borghesia permette a tutti i cittadini italiani.

Mezzi che il codice chiama reati, non li ho adoperati, non già perché li rigetti a priori, in sé, ma per la semplicissima ragione che ritengo non essere ancora arrivato il tempo, nel quale simili mezzi saranno utili e dolorosamente necessari.

...La rivoluzione per raggiungere i nostri ideali non è quella di cui mostrano spaventarsi i magistrati. Avete inteso quale deve essere e quale sarà.

Nessuno potrà provocarla: l'insurrezione armata sarà fatale. Sono dolente che quest'ora dell'insurrezione armata non sia suonata.

Credo anzi che sia ancora molto lontana".

 

6. Il socialismo italiano verso il riformismo

 

Tra il congresso di Bologna del 1897 e quello di Roma del 1900 si inserisce un periodo cruciale per l'Italia borghese, quello che i collitorti d'oggi avrebbero chiamato una svolta. Il nuovo corso non poteva mancare, anche se indubbiamente fu meno schifoso di quelli che si danno in pasto ai lavoratori ingenui nell'anno di grazia 1963, in cui avrà successo il piano controrivoluzionario di "apertura a sinistra" che fin da allora è il roseo sogno del capitalismo italiano. Non sono forse pieni di verità i discorsi dei capi democristiani che spiegano che si apre a sinistra per tagliare definitivamente i garretti ad ogni eventuale "pericolo" rivoluzionario?

Ma riprendiamo il filo della nostra storia.

Già prima dei congressi di Firenze (1896) e Bologna (1897) la società italiana era stata turbata dai violenti riflessi della crisi economica della fine del secolo scorso, acuita dalle conseguenze della politica di espansione africana dello Stato italiano, che, sebbene uno dei più deboli sul piano produttivo, volle ingaggiarsi sulla via dell'imperialismo. Il 1° marzo 1896 la tremenda disfatta di Adua provocò la caduta del ministero Crispi, che aveva condotto la feroce reazione seguita ai moti siciliani del 1894. Fu allora che Andrea Costa propose alla Camera il suo storico: Via dall'Africa!, che non era un episodio parlamentare ma un vero schiaffo sul viso della sordida borghesia italiana, con la affermazione che il colonialismo é contrario alla libertà dei popoli di colore quanto agli interessi di quello metropolitano; tesi davvero avanzata a quella data, se si pensa a quanti ulteriori sommovimenti storici abbiano condotto alla fine più ignominiosa l'imperialismo italico. Con le disfatte della borghesia nazionale il partito socialista, che Crispi era giunto a sciogliere, riportava tra le masse, anche stando al metro elettorale, clamorosi successi. Già al congresso di Bologna, esso registrava una potente ripresa.

Ma nel corso del 1897 si sviluppava, come conseguenza anche delle disfatte militari, una grave crisi economica, che infieriva soprattutto sulle miserrime regioni meridionali. Il prezzo del pane era salito gravemente, e il proletariato cadde a un regime di fame. Dalla fine del 1897 alla primavera del 1898 si susseguirono violente rivolte, cui il governo di Rudini rispose con gravi misure di polizia e perfino richiami di truppa. Nel maggio del 1898 i moti guadagnarono la industriale Milano e presero tragiche proporzioni: si parlò ufficialmente di 80 morti, ma si è sempre ritenuto che la cifra fosse maggiore specie nei furibondi scontri al centro fra gli operai scioperanti e la sbirraglia armata. Come nel 1894, si ebbero gli stati di assedio e i tribunali militari, e le condanne fioccarono: Turati, che pur aveva cercato di evitare i tumulti, fu condannato a 12 anni. Il re Umberto chiamò al governo il famoso generale Pelloux (per la repressione di Milano si rese illustre il generale Bava Beccaris).

A questa famosa ondata di reazione rispose il formarsi dì una opposizione popolare di sinistra di cui i socialisti erano la punta estrema. La reazione nel campo elettorale fu drastica; a Milano risultò per la prima volta eletto un consiglio comunale contrario ai clerico-moderati, destra del tempo. Nelle elezioni nazionali del giugno fu travolto Pelloux con 800 mila voti contro soli 600 mila governativi. I padri della generazione che in quei giorni era fanciulla, uomini degni, di vecchia fede liberale democratica, tripudiarono alla notizia: che botte ha preso sù il ministero! Ma intanto l'abile borghesia italiana "aggiornava" la sua finezza politica, e un pericolo nuovo nasceva per il proletariato: il riformismo. Il 29 luglio del 1900 un anarchico di solida fede, invano poi dipinto come un delinquente comune, Gaetano Bresci, di Prato, traeva secondo la propria ideologia le conclusioni, e a Monza uccideva a revolverate Umberto di Savoia. La reazione contro i socialisti, che ovviamente nulla avevano di comune col regicidio, ricominciò ad urlare. Ma ciò non poteva impedire la svolta a sinistra della borghesia italiana col suo Giolitti e col giovane re; ambedue non privi di politico fiuto.

Il congresso del settembre 1900 si trova davanti all'eterno e non ancora risolto problema: come deve agire il partito proletario quando due politiche della borghesia sono possibili, e la "scelta" può dipendere dal gettare o meno il proprio peso sul piatto di sinistra della bilancia?

Oltre sessant'anni sono passati e si solleva ancora il problema delle famose scelte. È chiaro che questo problema si può porre in due modi: quello delle armi e quello della contesa costituzionale.

Nel 1898 le masse avevano lottato in piazza e assai valorosamente, sfidando non solo i fucili ma i cannoni messi in postazione a tutti i crocicchi di Napoli e Milano. Anche allora la destra borghese più reazionaria (che non va confusa con la destra liberale classica, conservatrice socialmente ma ortodossa nel suo legalitarismo statutario) minacciò di sospendere le garanzie costituzionali, anzi le tolse senz'altro - ma non giunse, come doveva fare più tardi il fascismo, fino a porsi contro il responso parlamentare ed elettorale. (In sostanza la differenza storica non è totale, in quanto il 1898 fu abbastanza assolutista e il 1922 abbastanza costituzionale; il diverso giudizio del parere generale non ha diversa origine dalla non marxista valutazione in cui il partito proletario cadde nei due casi). Ma l'argomento dei socialisti di destra è ben noto: interessa la classe operaia che il potere esecutivo non usi la maniera forte, ed è utile ottenerlo col mezzo pacifico di un voto degli elettori e dei deputati: ridotta la questione a un problema di conta numerica, sarebbe logico non rovinare un così utile (o almeno comodo e facile) risultato, per l'ubbia di non sommare i voti nostri con quelli dei borghesi benpensanti, affini, come si dice, alla sinistra... In questi casi, il partito proletario difende la libertà, lo statuto, la costituzione, perché la loro violazione fa comodo alla classe nemica.

Da allora e da sempre, noi della sinistra rispondiamo: questa linea tattica sarebbe convincente se fossimo certi che i postulati della nostra classe potranno un giorno passare senza rompere la "libertà di tutti", l'ordine legale, e la struttura costituzionale. Se questa possibilità è esclusa, sarà un errore aver preparato le masse a salvare (che cosa? quali pretese conquiste già fatte? conquiste fatte insieme alla borghesia contro forme più antiche, o conquiste già fatte contro la borghesia?), diciamo a salvare se stesse dalla aggressione del nemico di classe, rifugiandosi dietro i medesimi baluardi storici che sarà necessario abbattere come sola via per liberare il proletariato dall'oppressione capitalista.

È possibile che la borghesia e il suo Stato prendano l'offensiva, e la storia ce ne dà esempi continui. Ma la risposta della classe lavoratrice non si può ridurre a una difensiva dietro baluardi che sono quelli stessi della conservazione delle forme borghesi: democrazia e pacifismo. La risposta storica per la quale il nostro partito è sorto, è una futura controffensiva che non leverà, come nelle vergogne di oggi, le bandiere storiche cadute di mano al nemico di classe, ma spezzerà i principi e gli istituti che stanno da secoli dietro quelle bandiere.

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