DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

 

 

PARTITO PROLETARIO DI CLASSE E ATTESA DELLA DUPLICE RIVOLUZIONE

 

1. Originale uscita dall'ancien régime

Nella prima parte di questo rapporto abbiamo ampiamente visto come la prospettiva storica della Russia venisse giudicata dal movimento marxista d'Occidente, e quali eventualità venissero da questo definite per l'estensione alla Russia della grande rivoluzione democratica e borghese europea, e per gli sviluppi ulteriori della lotta di classe e di una rivoluzione socialista.

Dato infatti il grande ritardo storico della prima rivoluzione, e dato il vigore del movimento operaio in Europa e della sua perfezionata dottrina, era da attendersi che il secondo problema si sovrapponesse al primo e si trattava di stabilire quali compiti ne derivavano alla Internazionale proletaria[1].

La liquidazione delle forme medievali e feudali si poneva in maniera originale rispetto ai paesi di Occidente, in cui al momento della rivoluzione antifeudale la classe operaia non era ancora tanto potente da essere in grado di svolgervi una parte autonoma, e non aveva avuto altra funzione che di risoluto sostegno a tutte le insurrezioni liberali, democratiche e di indipendenza nazionale.

Reiteratamente abbiamo detto come la situazione non fosse del tutto nuova, ma ripetesse soprattutto quella della Germania nel 1848, quando una rivoluzione borghese pari a quella inglese e francese era decisamente prevista, non si dubitava del suo avvento vittorioso (diluito invece poi in una lunga serie di lotte di Stati e di classi), e già si chiamava la classe operaia tedesca, dopo averne favorito il successo, a tentare di andar oltre, come gli operai francesi avevano invano tentato nel '31 e nel '48 (e non meno invano avrebbero ritentato nel '71).

Abbiamo ricapitolato le differenze fra le due situazioni a fianco della loro analogia di fondo. Le caratteristiche di "inerzia storica" dell'area grande-slava sono assai maggiori di quelle dell'area germanica, tengono delle forme statali asiatiche e del monolitismo dello stato dispotico centrale di antica formazione, antecedente o almeno contemporanea a quella della dominante aristocrazia, sicché il potere unitario militare poliziesco e burocratico non è una moderna risorsa della forma capitalistica di produzione, ma si attaglia alla precedente forma rurale e premercantile – tutto ciò in rapporto lontano con le diverse condizioni materiali di ambiente fisico e naturale che hanno provocato una ben diversa forma di organizzazione umana stabile sul suolo.

Confermato tutto questo punto di vista – inseparabile dall'altra formulazione che il decorso russo si studia e si spiega col metodo storico dialettico e materialistico scoperto attraverso l'analisi dell'economia inglese e calzante come un guanto su tutta la storia sociale dell'Occidente bianco – con la compulsazione a fondo di tutto il materiale della scuola marxista europea, passiamo a fare la stessa cosa col materiale del movimento russo, fulmineamente (evento principe della nostra generazione) passato in testa alla Rivoluzione Mondiale.

Studio e spiegazione di un corso storico, scoperta delle sue leggi, nulla direbbero se non sfociassero in una rischiosa ma non esitante profezia, in una ipoteca – sissignori – sul futuro. Bancarotta dottrinaria se questa non verrà pagata a suo tempo, presto o tardi, e, se più tardi, a rischio e carico di quelle definite forme di produzione, riluttanti a crepare.

Si tratta ora di sottoporre alla stessa prova in cui abbiamo confrontato il contributo del marxismo d'Europa, la tormentata prospettiva di tutti i recenti movimenti di Russia, e di quello venuto potentemente in primo piano: il bolscevismo.

La formula con cui lasceremo il primo contributo è quella, come sempre di irraggiungibile sintesi, che Marx pose in una sua lettera a Sorge – da noi già altra volta citata – dell'1 settembre 1870, a guerra franco-prussiana scoppiata: «LA PRESENTE GUERRA - CIO' CHE GLI ASINI PRUSSIANI NON VEDONO - PORTERA' TANTO NECESSARIAMENTE ALLA GUERRA FRA GERMANIA E RUSSIA, QUANTO LA GUERRA DEL 1866 HA PORTATO ALLA GUERRA FRA PRUSSIA E FRANCIA ... E QUESTA GUERRA NUMERO 2 FUNGERA' DA LEVATRICE DELL'INEVITABILE RIVOLUZIONE SOCIALE IN RUSSIA»[2].

 

2. Concordanze leonine

L'immenso materiale critico offerto dai russi nel torrentizio concorrere di opposte ideologie riflette – standone all'altezza – gli scontri apocalittici delle forze sociali in Russia e il loro ciclonico accavallarsi, non certo concluso. Nel che si conferma un'altra legge: non goda troppo, il fariseo capitalista, del
ritardo a giungere di quanto a suo terrore "sta scritto", perché egli espierà il respiro conseguito con una conferma di gran lunga più clamorosa del carattere catastrofico che abbiamo teorizzato per la sua fine.

Sceglieremo molte delle più rigorose costruzioni, oltre che nell'opera di Lenin, in quella di Trotsky, che in molti casi non rimane indietro ad alcuna delle formulazioni del "pensare della storia" attraverso la voce dei suoi attori.

Anticipiamo una bella sintesi della posizione storica squisitamente leninista – checché dicano le serie molteplici di "facce tagliate" che, nella loro impotenza a lontanamente sfiorare la dialettica, leggono in Lenin chi il liberale, chi l'anarchico, chi il democratico repubblicano borghese, chi il piatto operaista, chi (disgraziati!) il contadinista, chi (spudorati!) il bloccardo piccolo borghese – in quanto è su una linea da “filo del tempo”[3]. Citiamo Trotsky quando da vero marxista ripubblica battuta a battuta nel 1922 quanto aveva scritto – dopo la guerra civile – nel 1906[4], e nella prefazione dipinge come i marxisti russi vedessero il problema centrale della duplice rivoluzione:

«Già nel 1905 noi eravamo infinitamente lontani dal misticismo della democrazia; noi non consideravamo lo sviluppo della rivoluzione come una realizzazione delle norme assolute della democrazia, ma come una lotta di classi che per le loro necessità temporanee si servivano delle parole d'ordine e delle istituzioni della democrazia. A quell'epoca proponevamo con la massima decisione la parola d'ordine della conquista del potere da parte della classe operaia e deducevamo l'inevitabilità di tale conquista non dalle probabilità che poteva darci una statistica elettorale "democratica", ma dai rapporti di classe. Gli operai di Pietroburgo già nel 1905 chiamavano il loro Soviet: governo proletario. Questa definizione divenne allora abituale, inserendosi perfettamente nel programma di lotta per la conquista del potere da parte della classe operaia. Nello stesso tempo, contrapponevamo allo zarismo l'intero programma della democrazia politica (il suffragio universale, la repubblica, la milizia popolare, ecc.). Non potevamo far diversamente. La democrazia politica è una tappa necessaria nello sviluppo delle masse proletarie, con questa sostanziale riserva: in certi casi, per percorrerla ci vogliono decine d'anni; in altri, invece, la situazione rivoluzionaria permette alle masse di liberarsi dai pregiudizi della democrazia politica ancor prima che le sue istituzioni abbiano potuto realizzarsi»[5].

Queste parole, e quelle che le seguono e ricordano un evento tanto importante che, per esso, valeva la pena di aver fatto una grande Rivoluzione e poi vederla tristemente sfumare («lo scioglimento dell'Assemblea costituente [gennaio 1918] ad opera delle forze armate del proletariato richiese, a sua volta, la completa revisione della questione riguardante i rapporti reciproci tra democrazia e dittatura. L'Internazionale Proletaria, a conti fatti, da tutto questo trasse soltanto un beneficio, sia sul piano teorico che su quello pratico»)[6] ci serviranno ancora trattando della prospettiva di Lenin sulla "dittatura democratica degli operai e dei contadini", che ha fatto rompere tante adialettiche teste, rispondendo al confluire in un vortice storico, e non per un patto da ladri di Pisa ma per una tumultuosa lacerante fecondazione, di quattro correnti ribollenti in direzioni inconciliabili e tuttavia, in quel momento, componenti della risultante storica.

Per il marxista Trotsky non può essere questione di immutabili essenze, ma di campi e cicli storici, secondo l'impostazione della nostra scuola, che oggi per la millesima volta è qui - ricopiando ostinatamente - difesa. Portare l'interferenza tra classi e forme sociali da quel campo e da quel tempo all'Occidente ultraborghese, e all'oggi, e adoperarvi medesimamente la solleticazione democratica, è come equiparare il cedere alle seduzioni di una vergine acerba e rigogliosa di vita, al seguire il roco richiamo di una maturissima, floscia professionista da bordello.

E va chiesta a Trotsky un'altra formulazione, all'unisono con quello che uno qualunque di noi può aver scritto fra le date 1875, 1905, o 1925, nella prima battuta dello storico volume: «La rivoluzione [e, in nota, T. aggiunge: "Ci riferiamo alla rivoluzione del 1905, ai cambiamenti che essa ha apportato nella vita sociale della Russia: formazione dei partiti, rappresentanza della Duma di Stato, lotta politica aperta, ecc."] ha ucciso la nostra "originalità". Essa ha dimostrato che la storia non aveva creato per noi delle leggi speciali. Ma, al tempo stesso, la rivoluzione russa ha un carattere tutto particolare, che è la somma delle peculiarità del nostro sviluppo storico-sociale; e, a sua volta, apre delle prospettive storiche assolutamente nuove»[7].

 

3. Quadro sociale russo fino all'800. Lo Stato

Di questo quadro ci è abbastanza noto quanto Engels descrisse ponendo al loro posto lo Stato dispotico, la classe nobile, il clero, la classe contadina. Le descrizioni dei primi marxisti russi sono conformi a tali valutazioni. Ad essi poi chiederemo maggiori contributi, oltre che sull'apparire del capitalismo, già fermamente delineato e sottolineato da Marx ed Engels, soprattutto sui primi moti del proletariato industriale, e poi sulla critica delle varie tendenze politiche apparse, spesso mal valutate come vuote dispute di emigrati politici.

Possiamo chiedere a Trotsky, e più che altro al solito scopo di evitare ogni lontano dubbio che si costruiscano teorie di comodo post festum, altre felici formule di conferma – anzitutto sui caratteri dello storico Stato russo.

Il problema è già stato inquadrato; quindi ci limitiamo a passi che restano significativi anche se isolati, e giustificano le nostre espressioni: statalismo terriero, statalismo agrario, feudalismo di stato – piuttosto che feudalismo nobiliare terriero – come definita forma di produzione, in cui, fin dall'inizio, lo Stato è un agente economico, un fattore economico.

«Lo Stato russo, in fondo, è soltanto un poco più giovane degli Stati europei: le cronache datano dall'anno 862 l'inizio della vita statale russa [mille anni prima del pivello Stato italiano, che nacque borghese]. Tuttavia l'estrema lentezza dei tempi di sviluppo economico, determinata dalle infelici condizioni dell'ambiente naturale e dalla scarsa densità della popolazione, ha frenato il processo di cristallizzazione sociale ed ha impresso su tutta la nostra storia l'impronta di una estrema arretratezza»[8].

«La storia dell'economia russa è una catena ininterrotta di sforzi, eroici nel loro genere, vòlti ad assicurare all'organizzazione militare i mezzi neces- sari [per difendersi da nemici meglio armati; quindi una industria ed una tecnica]. Tutto l'apparato governativo venne strutturato e, di volta in volta, ristrutturato nell'interesse dell'erario pubblico. Il suo compito consisteva nell'appropriarsi di ogni minima parte del lavoro accumulato dal popolo, e utilizzarla per i propri scopi. Nella ricerca dei fondi il governo non indietreggiava di fronte a nulla: gravava i contadini di imposte arbitrarie e sempre eccessivamente onerose, alle quali la popolazione non poteva assolutamente adeguarsi. [Stabilì la responsabilità solidale delle comunità nel rispondere del totale delle tasse imposte: lato dialettico del comunismo e, meglio, del microcomunismo vassallo dello Stato, che gode in comune il prodotto comune, ma previa tangente allo Stato, non al nobile o al proprietario fondiario borghese, come il singolo contadino parcellare di tempi ulteriori] … Sottraeva denaro ai mercanti e ai monasteri. I contadini fuggivano in tutte le direzioni, i mercanti emigravano»[9].

Nel XVII secolo forte diminuzione della popolazione. Il bilancio statale era un milione e mezzo di rubli oro (circa due miliardi di odierne lire italiane) e serviva per l'85% a fini militari. A metà del XVIII secolo si era a 20 milioni (una trentina di miliardi) e circa il 70 per cento per la guerra. Nel XIX secolo e al tempo della guerra di Crimea si andò a ben oltre.

Non bastò taglieggiare la popolazione. Già Caterina II (1762-96) aveva contratto prestiti esteri. «L'accumulazione di enormi capitali sui mercati finanziari dell'Europa occidentale comincia ad esercitare da questo momento una influenza fatale sul corso dell'evoluzione politica in Russia»[10].

Il debito al 1908 toccò i 9 miliardi di rubli. In quell'anno la spesa per la guerra raggiunse il miliardo di rubli ed era il 40 per cento del bilancio totale. Osserviamo che non deve impressionare la popolazione allora quasi doppia di quella attuale italiana mentre oggi il bilancio italiano è di quello stesso ordine di grandezza. Il fatto rilevante è che nessuno Stato, in proporzione anche agli abitanti, ha raggiunto lontanamente un tale movimento economico prima della rivoluzione borghese-capitalista.

Ma l'economia non conosce patrie e confini giuridici. «In seguito alla pressione dell'Europa occidentale, l'autocrazia russa ha assorbito una parte sproporzionatamente grande del prodotto addizionale, cioè è vissuta a spese delle classi privilegiate già formate, frenando in tal modo il loro già lento sviluppo. Ma non basta. Lo Stato si è impadronito anche del prodotto indispensabile dell'agricoltore, gli ha sottratto le fonti di sussistenza, lo ha costretto ad abbandonare i luoghi dov'era appena riuscito a sistemarsi e, con questo, ha ostacolato l'incremento demografico ed ha frenato lo sviluppo delle forze produttive. In questo modo, lo Stato, assorbendo una parte sproporzionatamente grande del prodotto addizionale, ha rallentato il già lento processo di differenziazione dei ceti [delle classi]»[11].

Ancora due osservazioni che confermano la collimazione con quanto detto nella prima parte. «Lo zarismo - dice l'una - è dunque una forma intermedia tra l'assolutismo europeo e il dispotismo asiatico, forse più vicina a quest'ultimo»[12]. E l'altra vale a dimostrare quanto siano vecchie certe distorte formulazioni, che oggi taluno crede di avere inventate, sullo Stato che forza l'economia e capovolge il gioco delle classi; taluno che non si accorge di pensare involontariamente, da borghese, che il forte centro politico emani non dalla sottostruttura sociale data dalle specifiche condizioni di produzione, ma dalla potenza volitiva del monarca, del condottiero o del politicone di turno, nella vicenda di nomi da cui fessi antichissimi e modernissimi restano abbacinati.

«Affermare, come fa Miljukov [il capo liberale russo] nella sua storia della cultura russa, che, mentre in occidente i ceti [le classi] creavano lo Stato, da noi il potere statale creava, nei suoi interessi, i ceti [le classi], sarebbe […] la negazione di ogni prospettiva»[13].

 

4. Le classi agrarie

Lo scaglionamento della popolazione agraria al momento della riforma del 1861, come sappiamo, divideva la popolazione in due parti quasi uguali, servi dei nobili e servi dello Stato. Secondo le cifre date da Trotsky i primi erano 11.907.000 e i secondi 10.347.000. Molto diversa era però la ripartizione delle terre su cui gli stessi lavoravano, e che furono loro assegnate. Gli ex servi dei nobili ebbero circa 38 milioni di desjatine, quindi 3,17 per contadino; gli ex servi dello Stato ne ebbero assai più: 70 milioni circa, e per ciascuno più del doppio: 6,74 desjatine. Già allora vi erano pochi contadini proprietari parcellari liberi (non certo liberi dalle carezze del fisco): quasi un milione con 4.260.000 desjatine, in ragione di 4,90 per ciascun contadino.

La riforma interessò dunque 23 milioni di contadini e 112 milioni di desjatine. La desjatina è poco più di un ettaro, e quella superficie equivale a circa quattro volte la superficie agraria italiana. Per chi osservi essere la superficie geografica della Russia europea quindici volte maggiore di quella italiana, e la popolazione circa tripla, va notato che non erano quelle tutte le terre agrarie russe, che raggiungevano oltre 350 milioni di desjatine, un centinaio già appartenenti a privati (di cui 80 circa di grandi e medie proprietà rimaste ai nobili e ai ricchi), 150 milioni circa alla Corona, in minima parte lottizzabili e arabili, e 9 milioni o poco meno ai conventi.

Il movimento dei possessi terrieri determinato dalla riforma si svolse nel senso della frammentazione in minimi possessi, che sebbene divenuti autonomi resero più spinta la miseria del contadino provocando una diminuzione drastica della popolazione.

Sette desjatine di quella terra estensiva possono ritenersi il minimo sufficiente alla vita e al lavoro di una famiglia. I lotti, invece, di tre desjatine dati ai servi dei nobili corrispondevano alla metà della loro possibilità di lavoro, in quanto prima della riforma ogni contadino doveva lavorare tre giorni per settimana nelle terre del boiardo: fu liberato da quest'obbligo, ma restò con la famosa fame di terra. Di più, su questi lotti in mano ai servi fu prelevato circa il 20 per cento di ottimi terreni, che passarono ai nobili. La nota immensa miseria del mužik russo fu poi aggravata dai riscatti che gli emancipati pagarono, da un lato per la concessione della terra, dall'altro per la liberazione personale. Essi versarono 867 milioni di rubli per la terra, con stime esorbitanti dei funzionari statali, e altri 219 milioni per il riscatto personale. E dopo la riforma il peso delle imposte statali sul reddito delle terre, a parità di superficie, risultò molto superiore a quello delle terre dei ricchi.

L'evoluzione successiva alla riforma avvenne nel senso di sperequare gravemente tra loro i contadini delle antiche comunità, formando una classe di contadini ricchi, kulaki, che possedevano terra, scorte e denaro e in ogni modo sfruttavano i contadini poveri: inizio di una vera borghesia rurale.

Dall'altro canto, salvo casi rarissimi, le grandi proprietà raccolte nelle mani di una stessa persona od ente non erano, specie nella Russia centrale, organizzate in grandi aziende. Il nobile e il latifondista, in una agricoltura tanto arretrata, avevano vantaggio non alla gestione diretta delle loro terre, e neppure alla grande affittanza capitalistica, ma allo sfruttamento della fame di terra dei contadini dei villaggi, che anelavano all'affitto di un piccolissimo lotto in cui investire la loro forza-lavoro, in parte disoccupata.

I terreni delle grandi proprietà spezzettati in questi lotti erano locati a canoni altissimi.

«Il contadino si vede costretto […] a prendere in affitto la terra dal proprietario nobile al prezzo che gli viene chiesto. Ed egli non solo rinuncia ad ogni profitto, non solo riduce al minimo possibile il suo consumo personale, ma vende anche i suoi attrezzi abbassando ancora di più il livello estremamente basso della sua conduzione. Di fronte a questi fatali "vantaggi" della piccola produzione, il grande capitale arretra impotente: il proprietario nobile abbandona l'idea di un'amministrazione razionale dei propri fondi e spezzetta le sue terre dandole in affitto ai contadini»[14].

Questo quadro è completato da Trotsky con il computo del reddito totale agrario russo alla fine del 1800. Esso è bassissimo rispetto ad ogni paese agricolo estero: di 2,8 miliardi di rubli, 2,3 ai contadini e mezzo ai nobili e latifondisti. Anche la totale confisca di questo reddito, la cui aspirazione determina la tensione di classe nelle campagne, non migliorerebbe che di un 15 per cento la situazione del miserrimo contadiname: del resto, fatto dall'autore un bilancio della classe contadina che tiene conto degli affitti pagati e delle imposte, si trova un deficit di 850 milioni di rubli all'anno, che non sarebbe colmato dai 500 di reddito nobiliare e fondiario[15].

 

5. L'indice delle cimici

«In certi posti la miseria dei contadini assume proporzioni tali, che la presenza nell'isba [l'abituro di legno e paglia] di cimici e scarafaggi viene considerata un eloquente indizio di agiatezza. Ed effettivamente […] Šingarev, attualmente deputato liberale alla Terza Duma, ha accertato che nelle abitazioni dei contadini senza terra da lui visitate nei distretti del governatorato di Voroneš, di cimici non ve n'è affatto, mentre nelle abitazioni di altre categorie della popolazione campagnola la quantità di cimici è, in genere, direttamente proporzionale all'agiatezza del nucleo familiare. Lo scarafaggio, a quanto pare, è meno aristocratico; anche lui però ha bisogno di condizioni migliori di quelle cui può aspirare il misero bracciante […]: a causa della fame e del freddo, gli scarafaggi si rifiutano di vivere nel 9,3% delle dimore contadine»[16].

Quelle graziose bestiuole hanno bisogno di un minumum termico e di rinvenire in giro minimi rimasugli di cibi: dove la miseria sociale del nobile animale uomo, re della natura, passa un certo limite, il gelo e l'inedia le hanno sterminate tutte.

Nelle terre nere, di cui ora diremo, ove la comune di villaggio sopravvive, i contadini alla fine del secolo non si sono ancora socialmente differenziati, perché nessun risparmio si è accumulato o ha potuto essere destinato a una migliore tecnica e allo sviluppo di forze produttive. Misera fine del microcomunismo che abbiamo prima discusso!

«All'interno della comunità agricola delle terre nere regna incontrastata l'eguaglianza della miseria […]. Al disopra delle nascenti contraddizioni domina l'acuto antagonismo tra contadini impoveriti e nobiltà parassitaria»[17].

Come tutti i marxisti, come Lenin, Trotsky fin dal 1905 sta agli antipodi degli "spartitori di terra". La frammentazione di grandi possessi fra i contadini, creduta la grande scoperta rivoluzionaria dei russi (mentre è una vecchia magagna di riformatori di tutti i tempi e messa oggigiorno in prima linea nei programmi agrari di tutti i movimenti piccolo-borghesi, cristiani, mazziniani, socialdemocratici e stalinisti, nonché fascisti), è da tutti noi considerata la più antimarxista delle pidocchierie; spinta agli estremi, ai pidocchi stessi riesce esosa, ed essi dignitosamente si ritirano.

Anche pensata nel campo borghese, la questione agraria non si risolve con la piccola proprietà del lavoratore, ma con la formazione di aziende estese, mediante l'apporto sulla terra di capitale di esercizio, e la trasformazione dei contadini proprietari in salariati.

Così Trotsky enuncia nel 1906 queste antiche tesi marxiste:
«L'espropriazione [della nobiltà e del grande possesso fondiario borghese] ha un senso solo se sui fondi strappati a mani oziose potrà svilupparsi una libera economia rurale di alto livello, che aumenti in maniera considerevole il reddito complessivo agricolo.

«Una conduzione della terra di tipo americano [media azienda meccanizzata con notevole capitale di gestione], a sua volta, sarebbe concepibile in Russia soltanto dopo la soppressione totale dell'assolutismo zarista, con il suo fisco, con la sua tutela burocratica, con il suo vorace militarismo, con le sue obbligazioni verso la Borsa europea. La formula sviluppata della questione agraria dice: espropriazione delle terre della nobiltà, soppressione dello zarismo, democrazia.

«Soltanto in questo modo si può far muovere l'agricoltura dal suo punto morto. Ciò farebbe aumentare le sue forze produttive, e, contemporaneamente, la sua domanda di prodotti industriali. L'industria riceverebbe una forte spinta per un ulteriore sviluppo, e assorbirebbe una parte cospicua della mano d'opera agricola in eccedenza. Ma tutto questo non ci offre ancora, neanche lontanamente, la "soluzione" della questione agraria: in un sistema capitalistico essa non potrà mai essere risolta. In ogni caso, tuttavia, la liquidazione rivoluzionaria dell'autocrazia e del regime feudale deve precedere questa soluzione»[18].

Questa soluzione, dunque, ancora prettamente borghese e capitalista.

Su questo rapporto tra produzione agraria e industriale, consumo delle città e delle campagne, sono in sostanza ancor oggi ad arrabattarsi i capoccia del governo russo: pronti sempre ai famosi svolti che sembrano da ieri ad oggi buttare all'aria teorie e programmi e piani di produzione; esposti a passare, esplosivamente, da eroi a traditori, da superuomini a fessi.

La stessa tesi che la soluzione non è possibile nella forma capitalistica si esprime dicendo che non è possibile nella forma mercantile-monetaria. Principio marxista fondamentale è che, fin quando il lavoro si scambia con salario e il prodotto con denaro, lo squilibrio tra città e campagna non solo non si risolve ma si esaspera sempre più.

Non è ancora programma agrario socialista quello di abolire la rendita fondiaria e passarla allo Stato che gestisca la terra con grandi aziende e lavoro salariato, lasciando anche allo Stato il profitto di azienda. Non lo è tanto meno quello di abolire la rendita padronale e affidare la terra alla gestione di intraprese di affitto capitalista e private che versino i loro canoni allo Stato (formula di Ricardo).

Ma non è neppure un programma agrario di sviluppato capitalismo quello che abolisce la rendita dei grossi fondiari mediante la consegna ai contadini di piccoli lotti, in modo che l'agricoltore parcellare tragga dal prodotto quello che era prima rendita, profitto e salario: bilancio che, come sappiamo dallo studio sulla questione agraria[19] si rende spesso passivo: il parcellare non somma rendita e profitto al lavoro che eroga, ma deve dare smisurato tempo di lavoro, oltre quello che il proletario agricolo darebbe, per il salario normale.

 

6. Gli strati della popolazione agricola

Conosciamo dalla trattazione della questione agraria in Marx[20] quale sia il "modello" della produzione agraria borghese, come d'altra parte conoscevamo quello feudale. In questo la classe dominante è una: l'aristocrazia terriera, le cui famiglie ereditariamente controllano un dato territorio, o feudo, avendo un diritto signorile sulle persone di tutti gli abitatori, che sono contadini servi. Questi eserciscono un lotto di terra del cui prodotto vivono, ma devono al signore quote dei prodotti, tempi del loro lavoro. L'esercizio tecnico della terra è per piccoli campi, essendo a ciascuno legata una famiglia di servi. La borghesia, ove appare, fatta di artigiani che non sono né agricoltori né nobili, è classe oppressa e tenuta fuori del potere politico.

Nel modello borghese tipico della produzione agraria, vi sono due classi dominanti: i proprietari fondiari e i capitalisti agricoli, o fittavoli, che versano al padrone giuridico del fondo il canone di affitto (rendita); i lavoratori braccianti salariati, che non hanno terra come non hanno capitale, formano la classe oppressa. Il prodotto è diviso fra queste tre classi, la terza sola lavora e produce sopralavoro, spartito fra le altre due.

Nei moderni paesi capitalistici, questa forma – tecnicamente pervenuta alla grande azienda unitaria – non si rinviene mai allo stato puro. Ammesso che la classe serva sia definitivamente liquidata, e così la classe nobiliare come privilegio sociale, essendo ormai tutta la terra commerciabile ed ogni
lavoratore libero di lavorare mutando sede quando lo voglia (sotto le alee dell'ingaggio salariale), persistono a fianco delle tre classi-tipo (fondiari, fittavoli, salariati) vari tipi spurii.

Il piccolo colono e il mezzadro hanno il carattere di detentori di limitato capitale e prestatori di personale opera, ma non hanno terra, che viene loro concessa dal proprietario fondiario contro la rendita in canone di denaro o di prodotti (giustamente ha detto Vanoni che la colonia parziaria è forma arretrata, residuo di quelle feudali; ma, col libero accesso dell'agricoltore al contratto, diventa forma borghese).

Il piccolo contadino proprietario infine è allo stesso tempo fondiario, capitalista e lavoratore: come dicevamo, cumula – nella più stupida miseria e sperpero di forza e valore – rendita, profitto di capitale e lavoro molecolare; ma soprattutto troppo lavoro per troppo basso consumo.

La società russa della campagna nella fase prerivoluzionaria era un misto di forme borghesi, feudali, e prefeudali, ossia patriarcali e di primo comunismo.

Naturalmente i tipi erano diversamente importanti nelle varie regioni, e dopo aver ancora una volta ricordato pazientemente le forme-tipo, i modelli-base, riporteremo da Trotsky anche la ripartizione del paese in tre principali zone.

Questa ripartizione riguarda i 50 governatorati in cui la Russia europea si divideva. Sono, fino agli Urali e comprese le piccole ma popolose Ucraina e Russia Bianca, circa 5 milioni di kmq (che oggi hanno 150 milioni di abitanti, al principio del secolo ne avevano circa 90).

La prima zona è di "industria vecchia", la seconda di "industria giovane", la terza di agricoltura primitiva.

 

7. Le tre zone russe

La prima zona era quella di Pietroburgo-Mosca, la prima ad essere sede di una industria di stato e di fabbriche soprattutto tessili. L'agricoltura vi era già evoluta, con la coltivazione del lino, colture orticole e relativamente intensive per la produzione commerciale (diretta al consumo degli agglomerati urbani); mentre bassa era la produzione di grano, importato dal sud.

In questa zona al 1900 si può considerare che non vi sono più servi, i nobili hanno figura di fondiari del tipo borghese, vi sono piccoli e medi coloni, piccoli e medi proprietari, ancora in certa quantità i villaggi agrari già servi dello Stato, meno poveri, con un discreto artigianato. La Russia russa.

La seconda zona al sud-est confinante col Mar Nero e col Basso Volga è per le grandi ricchezze minerarie divenuta più di recente sede di industria pesante. Sarebbe l'America russa. Vi sono infatti affluite masse di contadini migrati dalla terza zona miserabile, di cui in seguito, e questi si sono trasformati in proletari. Mano d'opera e capitale disponibile fecero sì che sorgessero nell'agricoltura grandi aziende per la produzione soprattutto del frumento, che si dicevano "fabbriche di frumento". Questo veniva esportato sia nella Russia di nord-ovest sia all'estero dai porti del Mar Nero, esportazione oggi del tutto cessata; col grano duro serviva nell'Italia meridionale a fare i maccheroni, che da mezzo secolo hanno conquistato il pianeta.

Questa zona non aveva quasi conosciuto la servitù della gleba. Nella campagna si facevano fortemente sentire le differenziazioni sociali. Di fronte a ricchi fittavoli si levavano i proletari agricoli, venuti in molti casi dalla terza zona. In essa quindi non vi sono servi e semiservi, al detto tempo prima del 1905: vi sono capitalisti agricoli e salariati agricoli, proprietari fondiari di tipo borghese, e anche, in data misura, piccola proprietà, piccolo affitto, colonia.

La terza zona, che è la più vasta e sta al centro, è quella immensa delle "terre nere", chiamata l'India russa. Essa è anche la più arretrata. Era relativamente popolata prima della riforma del 1861: questa, rendendo liberi i contadini servi della gleba, decurtò le terre che essi coltivavano del 24 per cento, nei lotti migliori, che passarono ai proprietari e feudatari. Qui si inscenò dopo la riforma il tremendo pauperismo, con conseguente fuga della popolazione. Nella terza zona non vi è né grossa industria, né agricoltura capitalistica. Qui si verifica il tipo parassitario di godimento della grande proprietà, la situazione: grande possesso giuridico, piccola azienda tecnica; in quanto, come già detto, i grandi latifondisti hanno adottato un sistema di gestione del tutto parassitario, hanno fatto lavorare le loro terre con gli strumenti e le bestie da soma del villaggio, oppure le hanno affittate ai contadini che non hanno potuto uscire dalle condizioni di una penosa vita da fittavoli minimi.

La coerenza dello scrittore con la teoria agraria marxista è assoluta.

«L'agricoltore capitalista, qui, non è in grado di far concorrenza all'affittuario povero, e l'aratro a vapore esce sconfitto nella lotta con l'elasticità fisiologica del mužik, il quale, dopo aver speso per il canone non solo tutti i profitti del suo capitale [mal tradotto nell'edizione IET con "tutte le rendite"], ma anche una notevole parte del suo salario, si ciba di pane fatto di farina mischiata con segatura o con corteccia macinata»[21].

In questa zona sono ancora presenti servi, o almeno semiservi, la cui disperata emigrazione è ancora un'evasione, una volta colpita con il knut. Vi sono boiardi, figure spurie tra feudatari e latifondisti borghesi. Non vi sono in genere capitalisti agrari, e proletari agrari. Vi sono dopo la riforma piccoli coloni e in minor numero piccoli proprietari liberi.

È questa la zona dove, ridotta ad un'economia infima, sopravvive la comunità di villaggio, legata però all'arretratezza del consumo immediato sul luogo della parte del prodotto salva da imposte e affitti a canoni, sempre più esosi, di terra (supplementare alla poca comunale) strappata ai nobili. Ma questo residuo di comunismo, mentre per le distribuzioni duodecennali ha perso il carattere del lavoro in comune con la spartizione del prodotto, sostituito da attribuzione familiare delle parcelle autonome, vive in quanto non ha conosciuto le forme sviluppate e ricche di svolgimenti in ogni senso della vita sociale che si devono allo scambio dei prodotti, come per la prima zona che mangia il grano lavorato nella seconda.

Come il giro mercantile e lo scambio monetario segnano che il microcomunismo iniziale è superato, così il loro impiego nella ripartizione dei beni di consumo segna che il passo al (ci si conceda il termine) pancomunismo è ancora lontano dall’essere spiccato.

 

8. Riforma e rivoluzione agraria?

L'umanità in buona sostanza sfrutta la terra negli stessi modi da più migliaia d'anni, da quando cioè andò oltre la semplice raccolta di frutti spontanei della vegetazione, comune agli animali inferiori.

Non potrà introdurre nella coltura le enormi - rivoluzionarie - nuove forze di produzione che hanno spinto ad altezze immense la produzione di manufatti, sia utili a mille forme di diretto consumo, sia impiegati come utensili che prolungano enormemente la breve mano anatomica dell'animale superiore - non potrà sostanzialmente applicare sulla terra che la nutre la divisione tecnica del lavoro, la collaborazione in grandi masse, la concentrazione dei lavoratori, il grande impiego dei mezzi e delle energie meccaniche, se non quando avrà spezzato le catene del salariato e vinto il modo di produzione capitalistico.

Il socialismo allora, nella produzione dei manufatti, significherà sparizione dei limiti tra le imprese a profitto e organizzazione in un meccanismo unico di tutta la produzione attiva del mondo conosciuto; una collaborazione che, dopo essere andata dall'individuo alle masse di fabbrica, va da queste masse alla società intera.

Nella produzione agraria, socialismo sarà il consumare derrate ricevute in toto dalla società e non dalla propria attività locale, sarà cancellazione dei confini fra tutte le parcelle ad uso di gruppi liberi, ad uso di individui liberi, ad uso di possessori monopolisti e parassiti, o anche di aziende a lavoro diviso e salariato[22].

Non fu riforma quella russa del 1861 che cancellò il personale servaggio, in quanto, laddove non era sorta una economia manifatturiera capitalistica, ciò condusse ad una maggiore miseria materiale e ad un minor uso di terra per il contadino libero o anche per la comunità di villaggio sciolta da tributo di prodotti o di "comandata", e a un decadimento economico e sociale generale.

E non fu atteso e non fu vantato come rivoluzione (se non dalle correnti e dai partiti non marxisti di Russia, vaganti tra il liberalismo scimmiottato da Occidente, ciarlatano e idilliaco, e un istintivo violentismo terrorista) lo spezzettamento dei possessi di signori nobili e borghesi, di monasteri, dello Stato e della Corona – sotto forma o, meglio, nome di spartizione, municipalizzazione, o nazionalizzazione, come vedremo nelle analisi rigorose di Lenin – tra i milioni di contadini poveri.

I servi della gleba non hanno affatto insegnato al mondo che cosa è una rivoluzione sociale e tanto meno politica. In Francia nel 1789 combatterono non vilmente, e anche disperatamente, come nelle insurrezioni del passato, ma la grande rivoluzione la fece un'altra classe: la borghesia cittadina nazionale e capitalista.

In Russia nel 1917 – come nel 1905 – i contadini poveri seppero anche insorgere, ma la rivoluzione fu condotta innanzi dal proletariato urbano. Urbano, come la borghesia, ma non, come essa, nazionale. Il giovane e grande proletariato russo poté avere come alleati subordinati e contingenti i contadini russi, ma poteva trarre la forza di andare al socialismo solo da una rivoluzione internazionale[23].

In un paese ove una borghesia nazionale mancò ai suoi compiti storici, lo zarismo fece parodisticamente una riforma terriera borghese. Il proletariato fece, purtroppo, non una rivoluzione socialista nel suo contenuto, ma una rivoluzione terriera borghese.

Questa è la dura verità, che non cessa di essere una verità rivoluzionaria[24].

 

9. L'avanzata del capitale

Siamo al momento in cui i personaggi tradizionali devono aumentare di numero. Fino all'aprirsi dell'Ottocento sono stati quelli di cui abbiamo tanto parlato, in un modello ternario: nobiltà terriera, contadini servi, Stato dispotico. Modello diverso da quello del precapitalismo occidentale, che molti secoli prima aveva ammainato bandiera, e che si può dire binario: aristocrazia e contadiname servo, con Stato politico e amministrazione centrale assenti. Quando questi si formano nettamente (già nel mille come Comune, mezzo millennio dopo come nazione) gli è che è entrato in scena un altro personaggio sociale, la classe borghese, oppressa tuttavia, ed estremamente rivoluzionaria.

In Russia (ad ogni ripresa, ci si vorranno perdonare le deliberate ripetizioni) quando la borghesia era ancora inesistente, era ben presente lo Stato centrale, come amministrazione finanziaria, militare, poliziesca, e come apparato economico e sociale agente nella produzione terriera. Questo il punto messo a fuoco, che abbiamo tentato di ridurre a fattori materialistici stabilendo la tesi secondo cui in Russia abbiamo, è certo, fattori originali, ma ciò non imbarazza il materialismo storico che tanti di tali rapporti ha chiarito nelle sue proprie luminose linee. Ad esempio la forma dello Stato comunale politico-artigiano non fu conosciuta dalla Gran Bretagna, e fu anche quasi ignota alla Francia, mentre allignò potentemente in Italia, Fiandre, Germania occidentale; parimenti si svolse una strada verso la generale odierna forma di produzione capitalistica. E – fermamente per noi – come strada al socialismo.

Il nuovo personaggio che viene sulla scena russa non lo possiamo definire come classe borghese di vitalità comparabile a quella dell'Occidente, ed è più esatto definirlo come capitalismo. Ineluttabilmente viene con esso sulla scena il suo contrapposto: il proletariato salariato.

Da ben più di un secolo è aperta una questione ardente. Ove la classe borghese non giunga ad essere quella protagonista della storia che è stata in Europa e in tutti i paesi poi occupati dalla razza bianca, a condurre le memorabili lotte sociali vittoriose che vanno dalle libertà comunali alle grandi rivoluzioni nazionali e alle grandi guerre di sistemazione dell'Europa, che non meno di quella americana furono vere guerre civili, creando fino al 1870 la platea mondiale del trionfante ordine capitalistico; ove questo atto del dramma non sia rappresentato, che ne sarà del compito storico della classe operaia (in essa i salariati dell'agricoltura)?

Verrà questa ad assumere una missione di primissimo piano senza il suo storico buttafuori borghese, che dalla nascita odierà e amerà, cui in tremende alternative ripeterà il disperato appello: nec tecum nec sine te vivere possum?[25] Non posso, o borghesia, avanzare per altra via che per quella del solco fiammeggiante da te aperto nelle guerre civili che squarciarono il ventre della sacra Europa e nelle invasioni conquistatrici del pianeta, respirare senza la tua cultura e la tua tecnica; ma vivere non posso e crescere a vita vera senza smascherare la tua natura negriera, convellermi contro il tuo sfruttamento, ed infine travolgere le tue istituzioni e il tuo ordine, al cui avvento dedicai la vita di milioni di combattenti; e ciò dopo aver bruciato nell'agone teorico, uno per uno, i tuoi miti ed idoli, di cui bevvi con inesausta sete le suggestioni antiche.

Ancora modernissimi scritti osano contestare a Marx di aver visto a torto come solo costruttore della nuova storia il proletariato, e come portatore universale della fiaccola delle rivoluzioni moderne; e pretendono che un simile potenziale abbia, soprattutto nella zona orientale, la classe dei piccoli contadini, appaiando a questa tesi storica quella economica che la linea della dottrina agraria di Marx sia stata smentita dal mancato concentrarsi del possesso della terra, laddove in Marx (se i lettori rammentano la nostra riesposizione ortodossa) questo compito, cui l'ordine borghese è impotente, si riserva al socialismo industriale, alla rivoluzione che fonderà in un unico crogiuolo tutto lo sviluppato aziendismo (anche della terra), che tuttavia in nessun paese domina totalitariamente l'economia[26].

 

10. Gloria di Ottobre

Anche pervenendo alla tesi che il grande proletariato di Russia è fallito (perché a tanto è fallito il proletariato internazionale) al risultato di erigere la produzione e distribuzione socialista al posto della produzione e della distribuzione di merci storicamente già instaurate dal capitale, la nostra tesi resterà che la rivoluzione di Ottobre è stata una rivoluzione proletaria e non contadina o, con la detestata espressione, popolare. Ben oltre una vittoriosa definitiva rivoluzione del popolo sta una storicamente sconfitta rivoluzione della classe operaia; e questo fu per noi l'Ottobre: rivoluzione condotta dalla classe operaia e quindi proletaria, e quindi socialista[27]. Non chiamiamo solo rivoluzione socialista quella che fonda il socialistico modo di produzione, ma anche quella nella quale il proletariato, dopo avere abbattuti tutti gli alleati extraclassisti di fasi precedenti, conduce da solo e contro tutti la guerra civile: allo stesso titolo furono socialiste le rivoluzioni del giugno 1848 in Francia, quando il proletariato tentò di strappare il potere a borghesi e piccolo-borghesi, e cadde nell'assalto disperato - del marzo 1871, quando quello stesso proletariato tolse il potere ai repubblicani demopopolari, per tenerlo tanto brevemente da non poter attuare la trasformazione economica e soccombere alla confederazione controrivoluzionaria di tutti gli Stati e gli eserciti – dell'ottobre 1917, in quanto tutta la gamma dei partiti semiclassisti fu liquidata in un ciclo quasi apocalittico, anche se l'esitare su questa strada del movimento internazionale aiutò il capitalismo internazionale a salvarsi, e così condannò il potere stabilito in Russia al triste destino di costruirvi il modo di produzione capitalista, non socialista.

Anche in questo senso - come nell'altro egualmente basilare dello stroncamento della prima guerra imperialistica e di tutte le alleanze imperialistiche – siamo con Lenin: «anche in questo caso[28], il peggiore fra tutti, la tattica bolscevica [di liquidare la guerra] avrebbe tuttavia recato la massima utilità al socialismo e avrebbe promosso l'avanzata dell'invincibile rivoluzione mondiale[29]»,

Per noi, sciaguratamente (ma logicamente secondo il materialismo storico) spogliati della possibilità di procedere verso l'economia comunista, la lotta per l'Ottobre, e l'Ottobre, restano la più grande vittoria e la fase più gloriosa della Rivoluzione Comunista Mondiale.

 

11. Lo sviluppo industriale

Abbiamo, ad un richiamo di tesi già allineate, fatto seguire una anticipazione delle conclusioni di arrivo, ed ora ci riportiamo in riga. Non è del resto la prima volta che facciamo il punto su un errore affiorato da qualche parte: dato che in Russia classe e partito proletario dovevano preoccuparsi della completa interferenza di due rivoluzioni sociali, e dato che di questa una sola, la capitalista, ha avuto svolgimento completo, deve dirsi che la vittoria del 1917 non fu vittoria comunista? Si dava così un sostegno a certe tesi, secondo cui Lenin, mente positiva sopra ogni altra, avrebbe (con intenti di comunista) lavorato a una vittoria demoborghese, e a questa per lunghi anni mirato. La nostra assunzione è un po’ complessa: il marxismo europeo ha visto bene la prospettiva russa – il marxismo russo l'ha vista altrettanto bene; lungo tutta la lotta dei bolscevichi, ha preso posizioni politiche giuste, sulla base di una giusta teoria: quanto oggi avviene ha condotto alla totale deviazione della dirigenza di quello che fu il partito bolscevico, e ciò in conseguenza delle forze in gioco nei rapporti internazionali di classe, non perché la linea di prima del 1917 non fosse quella veramente rivoluzionaria. La visione di Lenin, fino alla sua morte, sulla dottrina della Rivoluzione russa nei rapporti con quella internazionale, è la stessa del marxismo generale, ed è da noi accettata in pieno e seguita in questa trattazione come nella ulteriore sugli sviluppi in Russia dal 1917 ad oggi.

Altra questione è quella della politica rivoluzionaria in Europa e nel mondo dopo la rivoluzione russa del 1917, quella che correntemente si chiama questione di tattica, e soprattutto in riferimento ai paesi di stabilito ordine capitalistico; sul quale argomento la divergenza della "sinistra italiana" prese a stabilirsi fin dal 1919, Lenin vivente[30]. Vanno tuttavia su questo punto integrate bene le questioni di principio e il succedersi delle valutazioni sulla congiuntura…

E veniamo sul serio a bomba.

In tutti i classici testi sulle vicende russe, sia dovuti ai marxisti della russa età "aurea", sia ai successivi capi dello stato sovietico, vi sono ampi riferimenti agli indici che dimostrano l'avanzare, e in certe fasi l'irrompere, delle forme capitalistiche nel loro Paese.

La stranissima illusione dei fautori dell'eccezionalità e originalità della storia russa, che la produzione industriale moderna in massa potesse rimanere fuori dell'uscio, fu smentita tanto, che allo "sfondamento" della barriera la storia forzò a lavorare sia zaristi, sia "comunisti".

Sono quindi di uso corrente le serie di cifre progressive che stanno a indicare (tenuto giusto conto delle varianti cifre di popolazione, e badando bene che spesso in tempi diversi si considerano territori diversi nell'enorme complesso dell'euroasiatico Stato politico russo) l'aumento del bilancio statale, dell'aliquota di esso concernente le spese militari, della produzione industriale e delle popolazioni addette all'industria, della lunghezza delle ferrovie. E altresì del debito statale interno ed estero, della bilancia commerciale, e così via.

Questi indici nella loro seriazione attestano che lo sviluppo è ingente e continuo, ma per intenderli va tenuto conto che essi non possono esprimere in modo diretto la maggiore o minore distanza "storica" da una completa forma borghese. Ad esempio la Russia zarista costruì un'imponente lunghezza di ferrovie, eppure Francia e Inghilterra erano già compiutamente
uscite dalla rivoluzione borghese quando non avevano ancora il primo chilometro di binari.

Le forme tecniche della produzione si diffondono prima delle forme politiche e giuridiche, e la Russia, paese in ritardo con l'uscita dal medioevo, non poteva, pur serbando rapporti giuridici e politici immutati, non risentire dell'evoluzione subita dalla produzione manifatturiera e dagli scambi nella vicina Europa. Prima ancora di allacciarsi ai paesi vicini attraverso lo scambio, un paese con diversa organizzazione sociale, ma che sia una grande potenza, si incrocia con essi ai fini degli stessi conflitti politici e militari. Lungo un' immensa frontiera l'esercito zarista sarebbe stato messo in condizioni di inferiorità non solo per tutta la tecnica dell'armamento, ma soprattutto per i mezzi di dislocazione e le reti di trasporto alle proprie spalle; ed è noto che furono le guerre coi vicini a costringere gli zar a rinnovare le attrezzature militari e ad integrare la forza numerica delle loro armate con una adatta rete di ferrovie parallele e trasversali ai classici fronti di guerra a nord-ovest, ovest e sud-ovest. Se la classica strategia della terra bruciata, che sarebbe stata – secondo la storia banale – la causa del declino di Napoleone, fu allora utile, in realtà essa era controproducente in un paese che aveva sì un territorio sconfinato, ma di questo la parte più ricca e produttiva proprio nella fascia a contatto col nemico.

 

12. Poche cifre essenziali

Furono dunque gli zar a far sorgere in primo tempo, attorno a Mosca, le prime industrie militari, e, prima di quelle metallurgiche, quelle tessili che provvedevano le divise per la truppa. Sicché la prima industria non sorse, come in Occidente, da un artigianato efficiente che a poco a poco concentrava gli operatori in gruppi organizzati da un privato gestore capitalista, in genere anche lui artigiano arricchito ovvero mercante e banchiere, bensì con investimento di denaro dello Stato, che poteva accumularlo non solo per le ordinarie vie fiscali, ma soprattutto dal margine della produzione agraria, dalla vera e propria rendita proveniente dalla sua titolarità su circa metà delle terre date al lavoro dei servi e delle comunità locali tributarie.

Nella via classica dell'accumulazione capitalistica, che Marx trasse dal modello inglese, le prime concentrazioni di capitale si fanno dal fittavolo rurale che coltiva le terre della nobiltà e poi del grande possesso borghese con manodopera salariata, di agricoltori senza terra; e in genere è dopo che questo capitale si investe nelle manifatture urbane.

In Russia una tale via non è assente, ma è in grande ritardo, dato che solo dopo la riforma del 1861 comincia timidamente a nascere una borghesia delle campagne, appaiono i contadini ricchi, i kulaki, che hanno parecchia terra ma solo in poche province più fertili sono alla testa di vere aziende che impiegano braccianti. I loro metodi di sfruttamento dei contadini poveri e poverissimi sono esosi ma primitivi, e in genere si adagiano sulla coltura parcellare in piccoli affitti e in piccole mezzadrie con patti leonini.

È quindi lo Stato che viene a capitanare l'accumulazione, come avrebbe potuto fare in Gran Bretagna un grande landlord (i casi non mancarono) che avesse fatto cassa con i suoi privilegi fondiari investendo il denaro nelle industrie.

Le cifre che interessano riguardano quindi lo Stato. Nell'apposito paragrafo di questa seconda parte abbiamo fatto cenno delle cifre dei bilanci e dei debiti pubblici.

La progressione infatti di tutti questi indici, come già rilevato, tra il 1880 e il 1910 è impressionante, e fa sì che lo stato politicamente non capitalistico russo si metta in linea tra le potenze borghesi quanto a volume della finanza statale e del commercio estero, con cifre che, anche se riferite alla popolazione enorme, tuttavia non sfigurano. A questo si è giunti con lo sviluppo della produzione industriale favorito dall'alto con tutti i mezzi fino alla vigilia della prima guerra imperialistica. La Russia è allora uno dei paesi meno meccanizzati, ma il suo Stato è uno dei più ricchi, come lo è del resto il suo sottosuolo, che può esportare nel mondo ferro e carbone come la sua agricoltura esporta grano. La riserva aurea dello Stato sorpassa prima della guerra i due miliardi di rubli oro, ossia oltre i mille miliardi di lire odierne, almeno.

 

13. Indici ferroviari

Nicola I già favoriva il sorgere di industrie con la liberazione di servi dei fabbricanti non nobili: nel 1837 si costruisce la prima ferrovia, e tra il '43 e il '51 la Pietroburgo-Mosca. La prima italiana è costruita dai Borboni nel '39.

Dal 1881 al 1891 le ferrovie vanno da 21 mila a 31 mila verste (la versta è un chilometro e 66 metri). La grande industria conta già un milione di operai. A detta della storia ufficiale dell'attuale partito bolscevico[31] l'industria in genere, che aveva 700 mila lavoratori nel 1865, raggiunse nel 1890 il doppio. Il commercio estero dai 276 milioni di rubi i del 1855 aveva raggiunto i mille.

Con i 113 milioni di abitanti, il bilancio statale era nel '92 verso il miliardo. Dal 1894 con lo zar Nicola II (ultimo) e il ministro Witte l'ascesa continua, con un fermo indirizzo di economia di Stato. Nel 1899 è ultimata la Transiberiana, e nel 1905 la rete è di 56 mila verste. Fu favorita la penetrazione di capitali stranieri, specie francesi e belgi, che esaltarono la resa dell'industria mineraria specialmente nel sud (Donetz). Nel 1899 la Russia prendeva il quarto posto mondiale nella produzione dei metalli ferrosi. Non abbiamo bisogno di dare le cifre progressive della produzione di ghisa ferro e acciaio, e poi di carbone e nafta. Le ferrovie sono alla fine del 1910 verste 61.600; al 1913, 63.000; nel 1917, all'inizio della rivoluzione, ne erano in preparazione altre 14 mila verste, andando alle 77 mila.

La rete russa nel 1947 aveva raggiunto i 114.000 chilometri, che altra volta avemmo a citare per l'indice che ragguaglia i chilometri di ferrovia a cento chilometri quadri di territorio, uno scacco di dieci per dieci.

Un tale indice, che (da uno spunto preso da Engels) può dare una certa idea dello sviluppo capitalistico moderno, è per l'Europa di quattro chilometri: ma risulta di otto se dall'Europa togliamo la Russia europea. È di dieci in Inghilterra, di quindici in Germania. Negli Stati Uniti, per l'immensità del territorio, è di soli cinque chilometri (se lo riferiamo invece alla popolazione, abbiamo il massimo di 27 chilometri ogni 10.000 abitanti, laddove in Germania sarebbero, con 200 abitanti per chilometro quadro, e 20.000 sul nostro scacco di 100 kmq., solo 7,5 per 10.000 abitanti).

Su tutto il territorio russo di 22 milioni di chilometri quadri, i detti circa 120 mila chilometri odierni danno l'indice di 550 metri, poco più di mezzo chilometro: la Cina, dicevamo allora, ha, sebbene densissima, soli 150 metri[32].

Dato che circa 80 mila chilometri sono nei circa 5 milioni di chilometri quadri della Russia europea, deducevamo l'indice di circa un chilometro e mezzo, tuttora molto basso rispetto a quello medio europeo di otto. Se tuttavia teniamo conto delle popolazioni, l'indice russo in chilometri per 10.000 abitanti verrà intorno a 5 chilometri (densità 30 ab. p. kmq.); mentre quello europeo, con densità 80, e 8000 abitanti sui 100 chilometri quadri, che hanno 8 chilometri ferrati, è di 10 chilometri per 10.000 abitanti.

Oggi dunque lo sviluppo in Russia sarebbe la metà di quello medio del resto di Europa, mentre secondo il territorio ne sarebbe un quinto, se si parte dall'infittimento della rete di ferrovie.

Da questo confronto è facile risalire a quello con la Russia alla fine dello zarismo, ossia prima della grande rivoluzione. Contiamo per metà le ferrovie in costruzione, e avremo circa 70 mila chilometri in tutto lo Stato. In proporzione erano circa 50 mila nella parte europea, con l'indice per superficie di 1 chilometro e l'indice per popolazione (assunta di 125 milioni) di 4 chilometri.

Quale grado di sviluppo moderno, alla stregua di questo schematico dato, aveva dunque allora raggiunto la Russia zarista? Esso era pari al 40 per cento di quello occidentale rispetto alla popolazione, e a soltanto un ottavo rispetto al territorio.

Vogliamo fare un tale confronto con l'Italia a dati attuali [1954].

Con il suo territorio di circa 300.000 kmq. l'Italia ha ormai 48 milioni di abitanti, densità 160. Le ferrovie sono 22 mila chilometri. Abbiamo dunque 7,3 chilometri di ferrovia ogni 100 chilometri quadri. Indice poco sotto l'Europa non russa.

Per ogni 10.000 abitanti abbiamo chilometri 4,6. Esso è notevolmente al di sotto di quello europeo odierno di 10.

Se quindi vogliamo dare peso all'indice di secondo tipo, avremo che esso in un paese di avanzato capitalismo (Stati Uniti), raggiunge 27.

Nell'Europa centroccidentale è 10.

Nella attuale Russia europea è 5.

In Italia è 4,6.

Nella Russia europea al momento della rivoluzione era 4.

Sotto questo sommario punto di vista, lo sviluppo economico della Russia in senso capitalistico, alla caduta degli zar, equivaleva quasi a quello dell'Italia attuale e probabilmente quello dell'Italia della medesima epoca.

Molto più sfavorevole alla Russia sarebbe il confronto se si prendesse il primo indice, ferroviario-territoriale.

In effetti un paese più esteso ha bisogno, a parità di dinamica dei trasporti, di maggiore lunghezza ferroviaria: a parità di tonnellate prodotte e trasportate dalla produzione al consumo, avrà bisogno di impiegare più tonnellate-chilometri, ossia di spendere di più per carbone ed altro. (In effetti il carbone costa in Russia meno che in Italia, e così la nafta, facendo il pari della forza elettrica).

Ma anche l'Italia è un paese lungo se non spazioso, ed entrerebbe in gioco la configurazione complessiva.

Non filosoferemo dunque più su questo aspetto del confronto, limitandoci a dire che il capitalismo era palesemente penetrato in Russia, a dispetto di quelli che pensavano che potesse restarne estraneo almeno tanto, quanto è fra noi a deliziarci in questa borghese vezzosa Italia.

 

14. Volumi della produzione

Ripetiamo che non è il caso di addentrarsi nel mare di cifre che cercano la temperatura, il potenziale industriale, nella quantità di merci prodotte, nel loro valore, e nelle aliquote di tali grandezze date in ragione del numero di abitanti, anno per anno, in lunghi periodi. Ai paragoni fra tali dati, anche in testi accurati, fanno pure ostacolo le esatte relazioni tra unità di misura, da cui vengono talvolta grossi equivoci, soprattutto per la diversa importanza della moneta non solo da luogo a luogo ma nel corso del tempo.

Si sogliono considerare indici decisivi le quantità della produzione di ghisa-acciaio, di carbone, di petrolio, il numero di fusi delle industrie tessili e così via.

Nel caso russo non abbiamo un’industria che, per essere proprio giovanissima, abbia dovuto rincorrere quella di altri paesi. Tale è stato ad esempio il caso del Giappone. L'industria russa, specie estrattiva, è antica, ha proceduto a rilento, è stata sopravanzata dalle altre dei paesi avanzati del mondo, e a un certo tempo ha preso la rincorsa.

Ad esempio nel 1725 la Russia produceva più ghisa che l'Inghilterra, sebbene in questa le industrie manifatturiere, soprattutto la tessile, fossero in pieno rigoglio. Sotto Caterina II nel 1795 la Russia era avanti a tutto il mondo per la produzione di ghisa, ferro, rame. Tuttavia le quantità di quei tempi erano basse: 150.000 tonnellate di ghisa nel 1767, che crescevano lentamente, tanto che dopo un secolo, nel 1865, secondo certi dati, erano solo raddoppiate. Ma poi la corsa si accelera: nel 1896 eravamo a circa un milione e mezzo di tonnellate: nel 1905 a 2 milioni e mezzo. (È bene avvertire il lettore che consulti il 1905 di Trotsky nella edizione I.E.I. di Milano, che le cifre ivi date in milioni di libbre derivano da errore nella traduzione dell'unità di misura: la libbra inglese ammessa in Russia è gr. 0,454, e questi dati vanno moltiplicati circa per 30). Ma già a questo punto il primato se n'è andato da tempo: nel 1906 la Russia è a circa 3 milioni di tonnellate, ma l'America è a 14, l'impero britannico a 9, l'Europa centrale a 15. Tuttavia l'ascesa continua: nel 1913 la Russia dà 4 milioni e mezzo.

Si stima ad esempio che oggi la Russia produca oltre 300 milioni di tonnellate di carbone contro il doppio degli Stati Uniti, poco meno in Inghilterra, 150 mila circa nella Germania ovest.

Questo può dare una certa idea dell'intensità di industrializzazione dopo la rivoluzione, ove si pensi alle cifre antecedenti: circa 14 milioni nel 1898, 19 milioni nel 1905, 36 milioni nel 1913.

Osserviamo ad esempio che, per le cifre del 1905, contro 19 milioni in Russia si estraevano in America ben 250 milioni di tonnellate: quindi, in mezzo secolo, mentre l'America ha all'incirca raddoppiata la sua potenzialità, la Russia, pur senza raggiungerla, ha reso la propria quindici volte maggiore.

Non ci interessa ancora, qui, il tema dell'evoluzione economica russa dopo il 1917, ma quello dello sviluppo antecedente, della accelerazione con la quale il modo di produzione capitalistico invase l'impero degli zar, facendo saltare l'involucro di potenza sotto il quale i mužik avevano mille anni dormito, né da soli mai si sarebbero destati.

 

15. Confronto internazionale

Quale dunque il ritmo della progressione industriale in Russia e fuori? Nei dati aggiunti dall'economista Varga all'Imperialismo di Lenin, vi è un diagramma dell'evoluzione industriale dal 1860 al 1913[33], molto interessante salvo i soliti dubbi sul rigore di questi raffronti. Sono indicati gli incrementi annui percentuali della potenza industriale: la media mondiale sarebbe il 3 e mezzo per cento e quindi in cinquant'anni il capitalismo avrebbe aumentato nell'industria come da 100 a 550: il risultato ci sembra scarso.

Comunque, mentre in quel periodo le già industrializzate nazioni inglese, francese, belga, procedono a ritmo inferiore a quello mondiale, più rapide sono, ed è logico, Germania ed Italia, e poi, appaiate, America e Russia che procedono al grado del 5 per cento annuo, superate solo da Finlandia, Canada e Svezia, paesi in materia anch'essi "inseguitori". Col 5 per cento "composto" si va da 100 a 1150.

Nel periodo successivo 1913-1928 l'incremento annuo mondiale è solo il 2 e mezzo per cento (ed è logico, se influisce la fase della prima guerra universale, per oltre quattro anni su quindici). In questo periodo gli Stati Uniti scendono al 3 per cento, mentre l'Inghilterra si ferma (?); fila, con l'8 per cento annuo, un poderoso nuovo arrivato: il Giappone.

E la Russia? La cosa interessante di questo audace diagramma, che crediamo non pretenda dare un'idea del ritmo dell'accumulazione (sarebbe assai controproducente ai fini della teoria di Marx, di cui Varga si assume seguace: e vedi in Vulcano della produzione o palude del mercato?[34] il confronto tra le velocità di sviluppo economico dedotte dalla nostra teoria e da quella americana della scuola del benessere) è che, nei nuovi dati di Varga dopo la rivoluzione, tutti i quadri statistici IGNORANO LA RUSSIA. Il piccolo gracchiante economista aulico sovietico non è fesso: intento a dimostrare, coi dati del periodo successivo a Lenin, che persistono gli indici dello sviluppo imperialista del capitalismo, omette quelli russi, perché darebbero a loro volta questa precisa incontrovertibile dimostrazione.

E se teniamo conto dell'avanzata nella produzione del carbone (come dei minerali ferrosi, del petrolio e così via) possiamo indurre che in cinquant'anni la produzione è divenuta 15 volte maggiore. Questo significa salire da 100 a 1500, con l'incremento di 1400, che col calcolo maccheronico rappresenta il 28 per cento annuo, e matematicamente il 5,5 per cento all'anno: indice congruo a quelli - giusta Varga - del capitalismo ad acceleratore premuto.

L'industrializzazione della Russia non è dunque il primo esempio di costruzione del socialismo – che sarà l'opposto di una corsa alla catastrofe – ma un altro classico esempio di avanzata capitalistica.

Se dopo la prima guerra mondiale l'indice progressivo nel mondo capitalista è calato da 3,5 a 2,5, ciò vuoi dire che la guerra ha agito come valvola di sicurezza contro la ipertensione accumulatrice.

Mentre l'Inghilterra tra il periodo "pacifico" e il "dopoguerra I'' (posto che questo finisca con la crisi del 1929, e segua un'altra fase, l'anteguerra II) sarebbe scesa da 2,5 a 0 (è da fare qualche riserva) - l'America è calata dal 5 al 3, ma la Russia invece è salita dallo stesso 5 al 5,5! E bisogna notare che, nel cinquantennio considerato per trovare tale indice, sono comprese due guerre mondiali e la rivoluzione: il vero indice è ancora più alto se togliamo gli anni di stagnazione e ripiegamento. Come andrebbe lo stesso calcolo per gli Stati Uniti, tra il 1905 e oggi? Il carbone, appena raddoppiato o poco più, dà un tasso di incremento inferiore al 2 per cento; la ghisa, andata da 14 milioni di tonnellate a una sessantina, non arriva al 3 per cento. In effetti l'Inghilterra dà indici assai bassi. Il Giappone ha fatto seguire ad una strepitosa avanzata una ritirata grave.

Il lettore ha indubbiamente inteso come questo indice di medio aumento da un anno al successivo non dipenda dalla popolazione. La massa della produzione russa nei vari settori non raggiunge ancora quella statunitense malgrado la maggiore popolazione (tuttavia con rapporto minore di cinquant'anni addietro). In realtà non tutta la Russia è oggi industrializzata.

Ma la conclusione resta che nel mondo odierno la Russia è al primo posto per velocità di avanzata del modo capitalistico di produzione; indice massimo per la diagnosi di imperialismo nel senso di Lenin. Questo fenomeno è, al tempo stesso, fenomeno rivoluzionario, come Lenin stesso stabilì. Ma in esso, e non nella costruzione del socialismo (il cui procedere avrà ben diversi diagrammi e indici), sta il risultato ripercosso del Grande Ottobre.

[1] Corsivi nostri, per sottolineare quello che sarà un punto nodale del divenire storico in Russia: l'accavallarsi nel 1917 delle rivoluzioni borghese e proletaria.

[2] Traduciamo dal vol. XXXIII, p. 140, dell'edizione Dietz delle Marx-Engels Werke. La frase era già stata riprodotta in L'orso e il suo grande romanzo, cit.

[3] "Sul filo del tempo" si chiamò una serie di articoli usciti, prima in «Battaglia Comunista», poi e soprattutto ne «Il Programma Comunista», fra il 1949 e il 1955, e intesi a ribadire – in antitesi ad ogni revisionismo – la rigorosa continuità della teoria e della prassi comuniste rivoluzionarie nel passato e nel presente, l'invarianza delle posizioni assunte dai marxisti non solo in campo teorico, ma di fronte alle questioni poste dall'evolvere della lotta di classe e degli schieramenti politici da esso determinati e in riferimento non solo alle questioni storiche del passato, ma alle anticipazioni del corso futuro della storia. «Linea da filo del tempo» è quindi sinonimo di stretta aderenza all'ortodossia marxista e alle tradizioni storiche del movimento, in antitesi completa al modo di pensare ed agire della moltitudine di coloro che ricostruiscono il passato e si immaginano il futuro come proiezioni di un presente còlto nella sua fuggevole immediatezza. «Con lo stile filo del tempo abbiamo fatto tanto leva sullo "ieri" perché si capisse il "domani" di un comunissimo "oggi"» - si legge nel già citato La questione agraria e la teoria della rendita fondiaria secondo Marx, paragrafo I, "Prospetto introduttivo alla questione agraria" (nel più volte ricordato volumetto delle edizioni Iskra, Mai la merce sfamerà l'uomo, p. 25).

[4] Il 1905 pubblicato da Trotsky nel 1922 riproduce integralmente l'opera apparsa nel 1909 a Dresda col titolo Russland in der Revolution, ma la integra con alcune pagine della precedente Naša Revoljucija (La nostra rivoluzione), Pietroburgo 1906, e la correda di una prefazione.

[5] Cfr. Trotsky, 1905, La Nuova Italia ed., Firenze 1971, pp. 4-5. Da questa traduzione abbiamo tratto tutte le citazioni che seguono, sostituendole a quelle - meno attendibili - attinte, per l'edizione originale del presente testo, al volume apparso nel 1948 per i tipi dell'Istituto Editoriale Italiano, l'unico allora disponibile (corsivi di A.B.).

[6] Ibid., p. 5.

[7] Ibidem, p. 15.

[8] Ibidem, p. 15 (corsivi di A.B.).

[9] Ibidem, p. 16-17.

[10] Ibidem, p. 17.

[11] Ibidem, p. 18 (corsivi di A.B.). La traduzione italiana da noi seguita usa il termine "ceti" dove Trotsky usava senza possibilità di dubbio quello di "classi".

[12] Ibidem, p. 19.

[13] Ibidem, pp. 18-19. E si intenda: "ogni prospettiva storica".

[14] Ibidem, p. 42 (corsivi di A.B.). La ripartizione delle terre coltivabili citata poco sopra si legge a p. 37.

[15] Ibidem, p. 43.

[16] Ibidem, p. 41 (corsivi di A.B.).

[17] Ibidem, p. 41.

[18] Ibidem, p. 44 (corsivi di AB.).

[19] Il già citato La questione agraria e la teoria della rendita agraria secondo Marx. Cfr. in particolare il XIV capitolo: Miseranda schiavitù della schiappa.

[20] Ibidem, cfr. soprattutto il II capitolo: Stregoneria della rendita fondiaria.

[21] Trotsky, 1905, ed. cit., pp. 40-41 (corsivi di A.B.).

[22] Abbiamo adottato in questo brano il corsivo per dare il massimo risalto a quelli che, secondo la dottrina marxista, sono i tratti fondamentali e distintivi del modo di produzione comunista in antitesi a quelli propri e specifici del capitalismo.

[23] Corsivi nostri, intesi a ribadire, dandogli il massimo rilievo, il nocciolo essenziale delle tesi svolte nella presente trattazione.

[24] Rivoluzionaria sia in quanto distruzione dei rapporti di produzione e del modo di vita associata precapitalistici, sia in quanto costruzione delle basi (per dirla con Lenin) – ma appunto solo delle basi – di un'economia socialista, consistenti nell'estensione su scala il più possibile diffusa della grande industria e della grande agricoltura a lavoro associato; rivoluzionaria dal punto di vista economico, dunque, anche se politicamente e socialmente antitetica alla prospettiva rivoluzionaria proletaria e comunista.

[25] «Non posso vivere né con te né senza te».

[26] Cfr. nella più volte citata Questione agraria ecc. soprattutto il capitolo XV: Codificato così il marxismo agrario.

[27] Corsivi nostri per le ragioni già dette.

[28] Il caso cioè che l'imperialismo mondiale schiacciasse il potere sovietico in Russia – Lenin ha premesso; e allora era sicuramente il caso peggiore, perché il proletariato europeo combatteva ancora (inciso di A.B.).

[29] Cfr. Lenin, La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky, in Lenin, Opere, Editori Riuniti, Roma 1955-1970, vol. XXVIII, p. 298 (corsivi di A.B.).

[30] Le divergenze qui accennate, di cui si può seguire il decorso, ampiamente documentato, nei vol. II e III della nostra Storia della Sinistra Comunista, Milano 1972 e 1986, per il periodo 1919-21 e, per il 1921-24, nel volumetto In difesa della continuità del programma comunista, cit., vertevano non sulla tattica in generale, ma sull'applicazione all'Occidente europeo imbevuto fino al midollo di democrazia, parlamentarismo, riformismo, di alcune delle manovre tattiche brillantemente esperite (ma sempre in modo contingente) dai bolscevichi prima della rivoluzione, quindi in regime preborghese (come il parlamentarismo rivoluzionario, il fronte unico operaio non soltanto sindacale ma politico, ecc.). Non a caso la rivendicazione del nostro dissenso in tale quadro si poté alleare senza alcuna difficoltà in questo dopoguerra alla più appassionata e incondizionata difesa dell’inflessibile "ortodossia" di Lenin nella teoria e nelle grandi linee dell'azione pratica, contro le innumerevoli falsificazioni intese a presentarlo, tutt'all'opposto, come il manovratore senza scrupoli, pronto a sbarazzarsi della zavorra dei princìpi per rincorrere le seduzioni della contingenza e le prospettive, vere o ingannevoli, di successo immediato. Si veda in particolare "L'estremismo malattia infantile del comunismo", condanna dei futuri rinnegati, ed. Il Programma Comunista, 1973 (contenente anche la conferenza tenuta nel gennaio 1924 da A. Bordiga e intitolata Lenin sul cammino della rivoluzione), dove il testo leniniano spudoratamente più sfruttato dagli opportunisti viene rivalutato come severa condanna anticipata proprio dell'abiura oggi corrente dei più elementari princìpi del marxismo.

[31] Storia del Partito comunista (bolscevico) dell'URSS, redatta da una speciale Commissione del CC del Partito russo e approvata dallo stesso CC nel 1938, qui citata dalla trad. it., Soc. Editr. «L'Unità», Roma 1945, p. 9. Si tenga conto, come è ovvio, che nei calcoli non si va qui oltre il 1954, ma tanto basta ai fini della dimostrazione del grado di arretratezza dell'economia russa prima dell'Ottobre.

[32] Cfr., nella serie «Sui fili del tempo», La daga e Venerdì, l'atomica e Mao, nel nr. 24/1950, di «Battaglia Comunista», anche per il rinvio all'Antidühring di Engels e per l'impiego dell'''indice ferroviario" nel confronto fra i gradi di sviluppo economico di diversi Paesi.

[33] Cfr. E. Varga-L. Mendelsohn, Données complémentaires a l'Impérialisme de Lenine, Parigi 1950, p. 231.

[34] Testo apparso nei nr. 13-19/1954, de «Il Programma Comunista» e ripubblicato nel già cito volume A. Bordiga, Economia marxista ed economia controrivoluzionaria, ed. Iskra, Milano 1976. Per la questione qui accennata, cfr. le pp. 33-39, ma anche, in Traiettoria e catastrofe della forma capitalistica nella classica monolitica costruzione del marxismo (testo apparso nei nr. 19-20/1957 de «Il Programma Comunista», poi riprodotto nel volume citato più sopra), pp. 163-177.

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