DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

(Da «Prometeo» n. 1 – luglio 1946)  

Indubbiamente la guerra porta con sé quel fascino sottile e macabro che in ogni suo rinnovarsi accende la fantasia e sommuove gli istinti primitivi delle grandi masse. La sua stessa «terribilità» si manifesta non tanto nella somma paurosa delle sue vittime innumeri e delle sue distruzioni senza fine, quanto nell'evidenza tra­gica della sua inutilità ed incapacità a risolvere i problemi per i quali era apparsa ai più, fin dal suo esplodere, come la sola atta, la sola risolutiva. Oggi è possibile affermare che il vero volto della guerra si precisa con evidenza o crudezza nello spirito delle masse solo a conflitto compiuto, quando il profondo squilibrio della società, le privazioni, la disoccupazione e la fame ridanno un po' a tutti il senso vivo delle proporzioni, del limite e della realtà concreta.

 Per questo una visione prospettica della guerra ci appare oggi non solo pos­sibile, ma necessaria, al fine di un esame critico, al lume del marxismo, delle ideologie che nella guerra hanno trovato l'ambiente adatto al loro sorgere ed affermarsi.

 

I motivi, che hanno sospinto l’economia capitalistica verso la fase del monopolio hanno i caratteri della inevitabilità e inesorabilità storica. Vero è che nell’imperialismo la struttura capitalistica si completa e si svolge fino all’inverosimile, ma è altrettanto vero che in questo suo completarsi e svolgersi si approfondiscono e si palesano le ragioni della decadenza.­

 

Questa contraddizione, già presente all'apparire del capitalismo, lo accompagna nel suo sviluppo, e giganteggia nella fase culmine di questa sua ascesa pro­digiosa, nel mondo dell'economia.

 

Il suo profilo è del resto facilmente individuabile; esso si precisa nella costante preoccupazione del capitalista di ridurre il prezzo della forza-lavoro al livello del suo costo di mantenimento, per assicurarsi una sempre più larga ripro­duzione del plus-valore!

 

Si ha così un duplice aspetto del processo economico, un decrescere costante della capacità d'acquisto in rapporto alla crescente capacità generale di produ­zione, da cui discende un corrispondente decrescere del consumo dei beni prodotti.

 

Il capitalismo cerca di sottrarsi a questa stridente contraddizione che l'atta­naglia allargando la produzione su scala sempre più vasta, ciò che l'accumulazione agevolmente gli consente, e dando all'aumentata produzione mercati capaci di assorbirla. Tutte queste attività economiche sono azionate e pungolate dalla concor­renza, motore primo e costante ad ogni fase del capitalismo. E' la concorrenza che affina, pone in urto e seleziona i produttori individuali nella fase di crescenza del capitalismo; è la concorrenza che sotto lo stimolo delle fondamentali esigenze dell'accumulazione supera il conflitto tra i singoli produttori per dar posto agli enti collettivi di produzione, alle società anonime, ai cartelli, ai trusts, in una pa­rola alle odierne imprese monopolistiche che, insofferenti del troppo angusto ambito nazionale, si allacciano in imprese colossali abbraccianti interi continenti.

 

Dominato dalla stessa legge dell’accumulazione, il capitalismo deve nel contempo risolvere il problema d'allargare senza limite le zone di sbocco nei paesi ad economia arretrata; problema, questo, rimasto sul tappeto senza pratica possi­bilità di soluzione. Mentre il processo tecnico produttivo procede senza soste e limitazioni nel proprio sviluppo, il mondo del consumo ha raggiunto il limite di saturazione. Ad una sovrapproduzione crescente fa riscontro una crescente rarefazione di sbocchi. E' la tragedia germogliata nel seno dell'economia che imporrà al capitalismo le soluzioni estreme sul piano della forza: guerre e rivoluzioni sono la materializzazione politica di questo profondo e insanabile conflitto d'interessi che mette di fronte le due forze essenziali della storia che viviamo: il capitalismo e il proletariato.

 

Da questa complessità di squilibri, di urti e di crisi è nato l'imperialismo; si potrebbe anzi affermare che l'imperialismo è l'espressione unitaria di questi squilibri, di questi urti e di queste crisi. Esso non è la proiezione sul piano storico di questo particolare momento economico espresso dal regime dei monopoli, ma attraverso questo si riallaccia al complesso dell'economia capitalista, al suo grado di evoluzione, o meglio al suo nucleo vitale, l'accumulazione. Se fosse vero il contrario l'umanità potrebbe lottare con efficacia contro l'imperialismo indirizzando la sua azione demolitrice contro il regno dei monopoli per spezzarlo e spazzarlo via, risanando così il capitalismo da questa specie di escrescenza maligna che mi­naccia di perderlo. Ma non c'è terapia, non c'è l’intervento chirurgico che valgano. L'imperialismo è il capitalismo di questa nostra epoca, il capitalismo della fase monopolistica; e la lotta per l'estirpazione del monopolio o non ha storicamente senso o lo ha soltanto in quanto significa lotta per l’abbattimento di tutto il capi­talismo. Questo problema è ormai acquisito alla coscienza del marxismo rivolu­zionario, tanto che sembra lontano e scialbo il dissenso che su quest'argomento ha messo di fronte, più che Lenin e Rosa Luxembourg, i loro epigoni. Questi tardi e maldestri epigoni, legati al capitalismo imperialista, vanno giustificando oggi la loro politica di compromesso con la denuncia scandalistica delle cento o duecento famiglie che detengono di fatto il potere dei complessi monopolistici e finanziari, come se questo stato maggiore dell’imperialismo fosse qualcosa di diverso da quel capitalismo con cui essi hanno solidarizzato nella guerra e con cui solidarizzano ora che c'è tutta l'economia borghese da ricostruire.

 

E' merito della scuola marxista, rimasta fedele al metodo dialettico, quello di aver individuato nell'attuale fase di sviluppo del complesso produttivo capitalistico i motivi essenziali, la tragica inevitabilità della guerra.

 

Le guerre nazionali chiudevano praticamente il periodo dell'economia indivi­dualistica che nel suo esaurirsi aveva posto e sviluppato i motivi dell'incipiente accumulazione capitalistica.

 

Lo guerre coloniali chiuderanno più tardi il periodo classico della corsa alla conquista dei mercati di sbocco necessari allo smaltimento della incessante sovra­produzione dei paesi capitalisti.

 

La prima guerra mondiale apre per certo la fase delle guerre imperiali­stiche a ripetizione. In sede economica ciò che ieri era solo tendenza, è divenuto ora realtà vivente; il processo di accentramento ha condotto all’organizzazione mo­nopolistica dell’economia, e alle sue leve di comando manovra incontrastata l'alta finanza. E non a caso; il capitale finanziario anonimo e senza scrupoli ha soppian­tato dalla direzione il tradizionale tecnicismo capitalista o lo ha asservito, ché la partita tra i colossali complessi monopolistici internazionali richiede saldo potere politico nelle mani di chi dirige, capacità d'iniziativa e di manovra nel mare magno e tormentato della politica economica mondiale, prontezza e decisione per parare colpi avversi, o per gettare in questa o in quell'avventura capace di assicurare comunque un alto tasso di profitto. E il profitto lo si difende conquistando e assicurando posizioni ben solide contro le forze della concorrenza economica su scala nazionale e internazionale, ma sopratutto aumentando e accentrando quel potere politico poliziesco e militare che solo può assicurare al capitale i mezzi materiali atti a fronteggiare il pericolo d'una diminuzione del profitto, incidendo sul salario dei lavoratori.

 

In questa fase il gioco tra le forze politiche è reso alla sua massima semplicità. I partiti, qualunque ne sia l'origine, il programma e gli obbiettivi immedia­ti e finalistici, o servono la causa dell'imperialismo e si piegano a qualunque biso­gna, o sono ributtati inesorabilmente ai margini della vita nazionale e spazzati via anche fisicamente se osano formulare una composizione attiva e mettere in atto una qualsiasi azione di attrito.

 

I sindacati, infeudati direttamente o indirettamente allo Stato, cessano di essere gli organi di combattimento o di difesa di classe per trasformarsi in effettivi organi di collaborazione tra le classi.

 

La stampa diviene quella perfettissima organizzazione a catena a cui un ufficio di ministero fa da centro irradiatore ed a cui si affida il compito grave e delicato di indirizzare l'opinione pubblica e di montarla preparandola spiritualmente alla ne­cessità di maggiori sacrifici di danaro, di libertà e di sangue.

 

Nelle scuole, nei centri di cultura, nelle assisi tradizionali della democrazia, i parlamenti, ovunque possa esservi libera circolazione di idee, lì è l'intervento dello Stato che impone dall'alto una disciplina unitaria, il peso di una gerarchia, il marchio d'una idea fondamentale, ossessiva, quella che tutto subordina alla conservazione del privilegio capitalista.

 

In questa fase l'oppressiva macchina dello Stato moderno imperialista è dav­vero l'impressionante protezione politica del complesso monopolistico dell'economia, è la paurosa arma di guerra che pone come pregiudiziale la rottura delle reni delle forze motrici della rivoluzione per dar quindi l’avvio alla guerra. E tanto più tale rottura di reni sarà radicale, quante più agevole sarà per questo e quell’imperialismo una condotta della guerra capace d'assicurare una maggiore somma di benefici.

 

E' l'epoca, in una parola, della furia cieca del capitalismo decadente preso dalla disperazione di sentire in sé ingrandire senza rimedio i motivi della propria fine storica come classe dirigente.

 

La seconda guerra mondiale non differisce sostanzialmente dalla prima se non nell'intensità maggiore dei motivi economici sociali e politici che l'hanno determi­nata e nella giustificazione ideale che le si è voluto attribuire, allo scopo di renderla accettabile anche a quegli strati operai che per interessi, ideologie e indirizzo po­litico erano più portati ad avversarla anche sul piano della forza.

 

La ingigantita sovrapproduzione, contemporanea ad una sempre minore disponibilità di colonie e di zone extracapitalistiche da sfruttare come mercati di consumo, è caratteristica tanto della prima che della seconda guerra imperialista.

 

Dominava allora, come domina tuttora il teatro del mondo, l'asfissiante problema di chi controllerà le grandi strade commerciali; sono le forze anglo-sassoni che continuano a sbarrare a chiunque il passo e relegano anche gli Stati a grande sviluppo industriale o demografico, ad aspro mordente razziale o ideologico, nel chiuso dei loro mari interni o di salde barriere continentali; contro questa secolare egemonia si urterà a turno il restante mondo non anglo-sassone.

 

E' storia recente, è storia di oggi e sarà purtroppo storia di domani.

 

In mancanza di colonie e di vaste regioni extra-capitalistiche da sfruttare, il conflitto si accenderà tra potenze capitalistiche, meglio tra blocchi di queste potenze. Quale la posta? Sconfiggere militarmente l'avversario, scardinarne l'ap­parato produttivo, fare della sua economia, del suo lavoro e dei suoi domini coloniali una economia sussidiaria, e della sua popolazione una sicura massa di consumo.

 

E' da rilevare tuttavia che il capitalismo del paese sconfitto si riprenderà in funzione del capitalismo del paese vincitore; ma non così per gli operai che nel consolidamento temporaneo del capitalismo dell'uno o dell'altro paese imperialista vedranno pregiudicata la loro condizione economica e politica e allontanati gli scopi finali della loro azione di classe.

 

In realtà la guerra tra gli imperialismi ha come principale obiettivo il superamento temporaneo della crisi a spese all'avversario imperialista, ciò che assicura al vincitore la conquista di posizioni più vantaggiose per meglio con­durre la difesa di classe contro l'assalto più pericoloso del proletariato rivoluzionario.

 

Definiti così i limiti di classe entro cui va considerato il problema della guer­ra, non assume significato particolare per noi chiederci se la guerra sia una funzione progressiva o no. Per l'analisi marxista ciò non ha davvero importanza perché la guerra, in quanto caratteristico fenomeno costituzionale del capitalismo, ne è sempre sulla linea di sviluppo, quindi progressiva se osservata con parzialità di classe, ossia dall'angolo visuale delle esigenze e degli interessi del capitalismo, mentre cessa di essere obiettivamente tale, cioè progressiva, se osservata dal punto di vista opposto, quello della classe antagonista.

 

Nell’ambito della stessa esperienza capitalista, dato l’evidente sviluppo ineguale della sua economia a cui si riallaccia la diversa stratificazione delle sue forze sociali e politiche, sono pur sempre le contraddizioni, anche se non di im­portanza fondamentale, a spingere avanti quelle esperienze per cui i suoi moti e le sue stesse guerre fanno di volta in volta balzare sulla scena della storia e al timone dello Stato quelle nuove energie che meglio interpretano le esigenze di quel dato momento del capitalismo ed hanno da dire proprio a questo mondo una parola nuova. Se così non fosse, il capitalismo, come sistema di reggimento economico e politico, e come particolare visione del mondo, chissà da quanto tempo sarebbe stato sommerso dalle sue stesse crisi.

 

In questo senso le guerre possono avere un reale contenuto progressivo. Così le guerre nazionali che dovevano porre e risolvere il problema dell'af­fermazione unitaria del moderno capitalismo e gettare concretamente la base al suo sviluppo. Cosi le guerre coloniali che all'irrobustito capitalismo nazionale dovevano assicurare fonti di materie prime e adeguati sbocchi. Se si vuole, le stesse guerre imperialiste di oggi che danno al capitali­smo decadente la possibilità di allineare, compiuta l'esperienza fascista, su scala mondiale le forze tradizionali della democrazia per l’esercizio d'una rinnovata dittatura di classe (fascismo a volto democratico) indispensabile per portare a compimento il nuovo ciclo dell'accumulazione, preludio alla terza guerra mondiale.

 

Le forze del capitalismo, entrate nel girone infernale della guerra per ri­solvere i problemi posti da questo o quell’imperialismo, non sono in nessun caso, per dei marxisti, suscettibili di essere suddivise in forze contrapposte in quanto progressive le une e reazionarie le altre. E come nessuna formulazione di simpatia e di auspicio si ebbe ieri da parte nostra per la vittoria delle forza dell’asse sol perché esse, più di quelle anglosassoni, erano considerate dalla no­stra analisi critica più rispondenti nel piano della organizzazione economica e politica al corso attuale del capitalismo, così nessuna formulazione di simpatia e di auspicio si avrà domani per la vittoria, ad esempio, delle forzo sovietiche in lot­ta contro quelle anglosassoni solo perché il regime sovietico, il regime cioè del più avanzato e caratterizzato capitalismo di stato, rappresenta storicamente una fase più progressiva di questa economia evolvente verso le forme più vaste e radi­cali della produzione collettiva, più vicine perciò e più pregne di socialismo. L’e­voluzione capitalistica procede per virtù delle proprie interne contraddizioni e non per le simpatie e i voti che gli possono venire dagli avversari di classe.

 

Quando la guerra imperialista scuote nel profondo il sistema di produzione capitalistico e le stesse leggi che lo regolano, compito essenziale e immediato del partito rivoluzionario è quello di operare conseguentemente all'analisi marxista della natura di tutte le guerre dell'imperialismo, che trovano la loro necessaria giustificazione storica da un dato punto dello sviluppo economico del capitalismo e degli antagonismi di classe e non in questo o quel motivo esteriore a cui suol legarsi la fortuna degli opportunisti. Tenendo presente che il proletariato, benché appaia temporaneamente sotto il peso di peggiorati rapporti di forza, è pur sempre artefice non secondario della storia, sta al partito «illuminarlo», trarlo progres­sivamente dall’influenza pestifera delle ideologie della guerra, rianimarlo, ricondurlo sul piano della comprensione e della lotta di classe e convogliarne quanto e più possibile le forze per trar profitto da una eventuale situazione favorevole che gli consenta di porre concretamente il problema della trasformazione della guerra imperialista in guerra sociale.

 

Questo e non altro è l’insegnamento di Lenin. Se dunque le odierne guerre imperialiste si devono situare, e per noi non ci sono eccezioni, in questa fase storica del capitalismo monopolistico e nei li­miti delle esperienze teoriche e politiche che esprimono sulla sovrastruttura, che è quanto dire in ogni momento della nostra vita sociale politica e intellettuale, le esigenze fondamentali e unitarie di classe, pur nel variare di certi aspetti del tutto esteriori, non c’è dubbio nella ideazione e determinazione della linea di condotta d’un partito proletario che voglia pensare e operare in concreto, in coerenza storica con gli interessi della classe da cui si esprime.

 

Se la guerra è, come realmente è, la continuazione, su di un piano diverso e con mezzi diversi, della stessa politica borghese capitalista, non è pensabile una politica del partito proletario che indirizzi le proprie forze a fianco di quel­le che dirigono in solidale responsabilità la condotta della guerra. E quando questo si verifica è la guerra, quell'inesorabile piano inclinato che fa scivolare le stesse avanguardie proletarie verso la contro-rivoluzione.

 

Se la guerra è, come realmente è, il mezzo, l’unico mezzo rimasto alla classe ­dirigente per uscire ancora una volta dalla crisi e per creare sulle rovine dal blocco imperialista sconfitto le condizioni materiali per una nuova accumulazione, ciò significa che l’apparente e temporaneo sacrificio di certe egemonie economiche nazionali è necessaria per impedire al proletariato di sfruttare ai propri fini rivoluzionari questa permanente e insanabile crisi di tutto il sistema. Sì tratta in rèaltà di un momento del serrato duello tra i due protagonisti della nostra storia, nel quale, se la guerra può rappresentare la sconfitta temporanea di uno dei due contendenti, il proletariato, la rivoluzione può d’altro canto segnare con certezza il superamento radicale e definitivo del capitalismo.

 

Ecco perché, a guerra iniziata e col proletariato praticamente sconfitto, il partito della rivoluzione nella sua avversione alla guerra e ai suoi sostenitori rappresenta la classe ed è premessa ideale alla ripresa anche organizzativa del moto proletario su scala nazionale e internazionale. Eppure qualcosa di nuovo quest’ultima guerra portava con sé, una esperienza particolare e significativa da cui sono scaturiti e scaturiranno ancora in­segnamenti di portata grandissima.

 

I termini dell’antitesi di classe già così aspramente e profondamente ope­ranti, in quanto insanabile contrasto di interessi, nel cuore stesso della esperienza monopolistica del capitalismo, sembrava che si fossero tradotti in termini di antitesi storica sul piano ideologico politico e strategico tra le maggiori po­tenze imperialistiche del mondo. Si è visto che ciò era solo in apparenza. Il fatto nuovo di questa seconda guerra era tuttavia rappresentato dall’inserimento nel conflitto per l’egemonia imperialista sul mondo, proprio della Russia Sovietica che osava ancora definirsi primo stato proletario e socialista.

 

Se per i marxisti questo avvenimento era in sede politica aperta conferma di quanto era stato denunciato in sede di rapporti economici e sociali per cui sull’esperienza rivoluzionaria di ottobre si era ricostruito il sistema del privilegio e dello sfruttamento economico, caratteristici del modo di produzione capi­talista, per gli opportunisti al servizio dell’imperialismo esso significava che era riuscito il tentativo di asservire il proletariato alla guerra più antiproletaria, e di farlo marciare verso il macello dietro le bandiere della riscossa proletaria.

 

Per il capitalismo si trattava di assicurare nella seconda  guerra imperialista la propria esistenza di classe con le armi stesse dell’avversario di classe, e la Russia di Stalin, che non era più la Russia di Lenin, offriva al capitalismo a questo scopo l'enorme riserva delle sue forze armate, delle sue «influenze» sui partiti dell’Internazionale, ma quel che più conta, l’impareggiabile suggestione ideologica d’una rivoluzione che era stata praticamente e definitivamente stran­golata.

 

Proprio da questa complessa matassa di esperienze, di motivi e di ispirazioni sono andati dipanandosi i fili di una ripresa ideologica e organizzativa del par­tito del proletariato nel cuore stesso della guerra. 

 

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