DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

 

La frase che più spesso si sente pronunciare dagli osservatori borghesi della crisi economica in atto è un mostro a due teste. La prima testa proclama a gran voce: “Il peggio è passato, si cominciano a vedere segni di ripresa”. La seconda testa aggiunge, fra il sottovoce e il preoccupato: “Ma la disoccupazione è destinata a crescere”.

Lasciamo perdere per il momento la congenita incapacità borghese di comprendere l’andamento della crisi, con i suoi alti e bassi, i suoi “rimbalzi tecnici” e le sue rapide accelerazioni: il pensiero economico borghese, dopo aver dato il meglio di sé ormai più di due secoli fa (Smith, Ricardo), dimostra in maniera infallibile d’essere il pensiero di... un corpo in decomposizione. Marx ed Engels l’avevano dimostrato un secolo e mezzo fa e Lenin ribadito mezzo secolo più tardi. C’interessa qui ora la frase della seconda testa del mostro, quella pronunciata sotto voce ma con preoccupazione.

In primo luogo, perché riafferma che per costoro il fatto che la disoccupazione sia destinata a crescere evidentemente non è “il peggio”; mentre lo è per milioni di proletari che in quell’abisso ci sono già caduti, stanno per caderci o temono di caderci, con tutte le tragedie (individuali e collettive) che ne conseguono. Questo non ci stupisce: la classe dominante (con i suoi osservatori stipendiati) pensa a dominare e non si lascia certo distrarre dal modo in cui la stragrande maggioranza della popolazione mondiale è costretta a sopravvivere.

In secondo luogo, quella frase c’interessa perché dice (sia pure sotto voce, oppure con quel tono sapientemente sensazionalistico che lascia poi tutto come sta) molte cose illuminanti. Per esempio, dice che la borghesia sa bene, per esperienza storica, quale sia l’accumulo di esplosivi sociali che si va creando. E’ chiaro infatti che la “risposta borghese alla crisi” potrà avere solo due prospettive: una, a breve scadenza (riorganizzazione, centralizzazione, razionalizzazione, taglio dei rami secchi e improduttivi, riduzione del costo del lavoro, investimenti per l’introduzione di nuove tecnologie, aumento dello sfruttamento, ecc.), che non farà che accrescere la componente disoccupata dell’esercito del proletariato; e un’altra, a lunga scadenza (la preparazione – economica, sociale, ideologica, militare – di un nuovo conflitto mondiale), che dovrà servire anche a ridurre drasticamente (e sanguinosamente) quella parte della sovrapproduzione di merci e di capitali (motore primo della crisi economica) che ha nome forza-lavoro, sia occupata che disoccupata.

Nel frattempo, però, i rischi sociali per la borghesia sono molti: la riduzione del costo del lavoro in tutte le sue forme e l’accresciuto sfruttamento possono innescare, sul corpo della crisi economica, una crisi sociale di vaste proporzione, potenzialmente non governabile.

E qui emerge un altro aspetto di quel discorso sulla disoccupazione che il mostro a due teste pronuncia sotto voce e con malcelata preoccupazione. Con il dilagare della disoccupazione (ricordiamo che cosa volle dire negli Stati Uniti e nella Gran Bretagna degli anni ’30 del ‘900) e con la tendenziale dissoluzione di ogni rigido e stabile argine separante occupati e disoccupati, il capitale in crisi sta tendenzialmente ricompattando e unificando, suo malgrado, quanto negli ultimi decenni aveva diviso e frantumato – per l’appunto, un esercito mondiale di proletari, sempre più accomunati dalla minaccia presente e futura della mancanza dei mezzi elementari per sopravvivere. Se infatti, in altri tempi (per rimanere nel secondo dopoguerra, gli anni ’50 e ’60), la caduta nell’esercito industriale di riserva era un “fenomeno” quantitativamente relativo o “congiunturale” o legato ad aree particolari di un mondo capitalistico caratterizzato dallo “sviluppo ineguale” (e comunque un fenomeno sempre presente e fluido a seconda delle necessità immediate del mercato del lavoro), con l’avanzare e con l’approfondirsi della crisi essa diviene diffusa e preponderante – diviene sempre più strutturale, nel senso che nessuno ne è al sicuro. Ecco dunque che il capitale, contro la sua volontà ma obbedendo alle sue proprie leggi, unifica, proprio come, ai suoi albori, con il sistema di fabbrica, aveva concentrato. Si delinea così con sempre maggiore chiarezza (anche se non in maniera meccanica e automatica, e questo va ribadito a chiare lettere) un autentico esercito proletario mondiale, unificato dalle medesime condizioni di vita e lavoro oggi, e dalle crude necessità della lotta, domani – un esercito di occupati, di precari, di disoccupati, uniti insieme dalla sofferenza dello sfruttamento, dall’angoscia della miseria, dalla rabbia per l’abbrutimento cui sono costretti, dalla volontà di reagire all’attacco quotidiano che viene loro portato.

Si tratta di un processo oggettivo, e come tale l’abbiamo considerato: e così non possiamo non cogliere in quel “sotto voce” la paura della borghesia nei confronti di una condizione oggettiva che le si gonfia sotto i piedi, nel sottosuolo sociale, e contro cui non può fare assolutamente nulla – se non militarizzare l’esercito del lavoro in funzione nazionalistica, per la guerra mondiale prossima ventura.

Esiste poi un versante soggettivo, che è quello che interessa noi comunisti. Per imboccare la via d’uscita da questo ormai superfluo e dannoso modo di produzione, la crisi sociale che si prepara anche con l’aumento della disoccupazione e con l’aggravamento delle condizioni di vita e di (non)lavoro del proletariato deve poter incontrare (cioè riconoscere e al contempo rafforzare) il proprio organo-guida: il partito rivoluzionario che riunisce in sé l’esperienza e la tradizione delle lotte rivoluzionarie del passato, la chiarezza teorica sul percorso compiuto e da compiere, il bilancio scrupoloso e definitivo di vittorie e sconfitte, la salda organizzazione militante e la lucida visione internazionale del suo programma politico.

Infatti, come non è meccanico il trasformarsi della crisi economica in crisi sociale, così non è meccanico il trasformarsi della crisi sociale in crisi rivoluzionaria. L’una e l’altra trasformazione abbisognano, da un lato, di condizioni oggettive favorevoli (e queste già le prepara, in gran parte, il capitale stesso, con la propria clamorosa incapacità di funzionare ulteriormente) e dall’altro di condizioni soggettive, di un vero e proprio reagente, che operi in profondità e in dialettico rapporto con le dinamiche oggettive in corso, penetrando in esse al fine di indirizzarle, organizzarle e dirigerle, e al tempo stesso farle trascrescere dal piano puramente difensivo a quello offensivo, fino all’obiettivo supremo della presa del potere e dell’instaurazione della dittatura del proletariato.

E’ questo il compito di noi comunisti: entrare (nei limiti delle nostre forze e senza mai dimenticare quell’obiettivo supremo, ma agendo in pieno accordo con esso, in sintonia profonda con esso) nel vivo delle lotte che inevitabilmente si sprigioneranno, per estenderle e organizzarle, per guidarle verso la rottura aperta dei limiti delle compatibilità e della legalità, della democrazia e del compromesso, della dimensione puramente aziendale e nazionale, rivendicativa ed economica. E a questo compito noi comunisti chiamiamo tutti quei proletari, quelle avanguardie di lotta, che cominciano a non poterne più delle menzogne e dell’oppressione del capitale e del suo Stato, e sono pronti e decisi a rompere queste catene.

 

Ripresa della lotta di classe aperta e intransigente, radicamento del partito comunista internazionale: è questo il nodo dialettico che infine si stringerà intorno al collo del capitalismo, eseguendo quella condanna a morte pronunciata ormai più d’un secolo e mezzo fa. 

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°04 - 2009)

INTERNATIONAL COMMUNIST PARTY PRESS
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