DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

I recenti fatti di Ucraina, con il loro codazzo di colpi di scena e ricorsi giuridici ma anche di dichiarazioni diplomatiche infuocate, omicidi eccellenti e suicidi altrettanto di rango e di dubbia natura, sono stati l’occasione per la stampa borghese internazionale di riproporre l’elogio del principio democratico e del legalismo elettoralistico come caratteri distintivi della cosiddetta “rivoluzione arancione”, con cui la fazione del capitale finanziario filoamericano rappresentata da Yushenko si è imposta – a dire il vero con un colpo di mano da consumati maestri - sulle residuali forze interne, legate all’apparato burocratico ereditato dallo stalinismo e poggiante sull’industria pesante e statale. Il termine “rivoluzione” – che pure era stato utilizzato ( “rivoluzione rosa” stavolta) per il recente cambio al vertice avvenuto in Georgia sotto la benedizione USA (la cui diplomazia sembra essere anche imbarazzata dal troppo esuberante filoamericanismo di Sakhasvili) – non è impiegato in maniera ingenua o casuale: anzi, sembra proprio ricercato ad arte allo scopo di sottolineare una rottura che non c’è e soprattutto per allontanare anche sul piano semantico il vero concetto di quello che deve essere una rivoluzione (per quanto borghese essa possa caratterizzarsi). Non bastano a giustificare tale termine, infatti, le pur numerose manifestazioni organizzate dal partito americano e che pure godevano del sostegno incosciente di masse ignare (e magari destinate a far da carne da cannone nell’ipotesi di una recrudescenza degli scontri, quando tutte le “pasionarie” di turno si fossero dileguate dalla prima linea in attesa di nuovi ordini). Come non basta l’altrettanto inconsapevole e pilotata reazione delle masse operaie dei bacini minerari, scese in piazza a rivendicare un ritorno impossibile alla “madre Russia”: ovvero un abbraccio col rinnovato capitalismo russo, sempre più costretto a rinculare dal proprio “estero vicino”, ormai simbolo della grandezza perduta. Da quando la strategia dell’imperialismo americano è stata costretta a spostarsi sul triangolo rappresentato da Mar Nero - Mar Caspio e Mediterraneo Orientale, allo scopo di contendere da posizioni di maggiore forza il ritorno degli imperialismi concorrenti ( in particolare la Germania, ma in generale tutti gli altri interessati alle risorse energetiche e alle postazioni strategiche dell’area eurasiatica, nucleo centrale del famoso arco di crisi – includente il Medio Oriente – che da Brzezinsky in poi ha caratterizzato le attenzioni necessarie della politica estera americana), l’Ucraina rap- presenta una posta in gioco di rilevanza notevole. Negli equilibri interimperialistici, dopo il cambio di campo della Polonia (primo sponsor della “nuova leva” politica ucraina), l’Ucraina rappresenta infatti l’immediato confine della Nato con la Russia e uno dei tasselli fondamentali nella “battaglia dei corridoi e delle rotte energetiche” che caratterizza l’attuale fase dello scontro interimperialistico, ora sotterraneo ora aperto, oltre ad essere un paese fondamentale nell’approvvigionamento alimentare russo (per quanto dipendente sul piano energetico dalla stessa Russia). La famosa distinzione coniata da Rumsfeld sulla “nuova Europa” (rappresentata da quei paesi che hanno appoggiato la guerra americana in Irak) contrapposta alla “vecchia” (fondata sull’asse franco-germanico) è il simbolo mediatico di una lotta senza esclusioni di colpi che coinvolge tutte le potenze imperialiste, qualunque sia oggi l’alleanza di appartenenza. L’imperativo americano è esplicito¹: spostare a Est il grosso delle basi e delle postazioni militari americane per incrementare le possibilità di controllo sugli avversari più diretti, utilizzando anche gli ex paesi del Comecon quale leva per indebolire tutti i tentativi europei di dotarsi di strutture politiche e decisionali più autonome.

In questi ultimi anni, e nonostante l’euro, la Germania ha dovuto così poco per volta abbandonare posizioni di tutto rilievo nell’Est Europa (dove si era instaurata una vera e propria “area del marco”), a vantaggio degli investimenti e del capitale americano; nella partita degli oleodotti e dei gasdotti, gli USA si stanno poi progressivamente adoperando per rendere più difficile il rapporto diretto fra Russia ed Europa (le esportazioni di gas naturale e di petrolio russo destinato all’Europa passano appunto rispettivamente da Ucraina, Slovacchia e Repubblica Ceca, oppure da Bielorussia, Ucraina, Slovacchia, Ungheria e Croazia). Un’Ucraina sotto controllo americano consentirebbe un ulteriore salto di qualità a questa strategia, consentendo nuove vie alternative al flusso di petrolio del Caspio e dell’Asia Centrale, indipendenti dalle rotte di transito sotto controllo russo, magari investendo massicciamente nella creazione di un collegamento Mar Nero-Mar Baltico molto gradito alla Polonia. Questo basterebbe a spiegare il massiccio sostegno americano all’Ucraina fin dalla sua indipendenza e, più in particolare e in certi determinati frangenti, a certe fazioni politiche. Secondo dati riportati dalla rivista Limes e relativi agli investimenti strategici americani nell’Est Europa previsti per il 2003, l’Ucraina era al primo posto considerando tutte le diver se causali di finanziamento. La stessa stampa borghese² non ha potuto fare a meno di ammettere che gli USA in questi anni hanno pompato miliardi di dollari in Ucraina (senza contare l’attivismo delle fantomatiche “organizzazioni non governative” e “fondazioni” varie): dunque, il cambiamento della classe dirigente era il minimo che il capitale americano potesse pretendere per evitare che tutti questi investimenti si mostrassero poco redditizi.

In questa fase, almeno esplicitamente, né i principali paesi europei né la Russia (sebbene contro voglia) hanno potuto far altro che stare al carro o abbozzare, esattamente come è avvenuto per le vicende georgiane di qualche mese fa. Ma ognuno dei contendenti sta preparando la risposta e le vicende dello sconnesso processo di unificazione europeo non potranno non risentirne in un modo o nell’altro.

Per il proletariato, sia esso inquadrato dietro le bandiere del Partito filoamericano o dietro quelle del Partito filorusso, non cambierà assolutamente nulla dal punto di vista delle condizioni materiali di vita e di lavoro, che andranno difese con le unghie e i denti perché saranno presto attaccate da “riforme” marcianti sotto il vessillo della Libertà e della Democrazia. Esso non può aspettarsi nulla né dalla “rivoluzione arancione” né dalla compiacente benevolenza dei vari imperialismi che si contendono per la propria sopravvivenza le quote di plusvalore mondiale estorto a tutto il proletariato internazionale: solo la rivoluzione rossa potrà rappresentare per la classe proletaria l’avvio della strada che porta alla sua vera emancipazione, la Società di specie e senza classi.

 

  1. Si veda al riguardo il discorso tenuto da Rumsfeld in Germania nel giugno 2003 (riportato da Limes, n.3/2003) sulla necessità di inserirsi “in profondità nel cuore e nell’anima dell’Eurasia”.
  2. l’articolo di Caracciolo su La Repubblica del 28/12/2004.
INTERNATIONAL COMMUNIST PARTY PRESS
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