DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

A proposito dei referendum per l’“esproprio della Deutsche Wohnung” e simili grandi gruppi immobiliari

La questione degli alloggi – vale a dire il problema dell’aumento rapido e costante degli affitti – nelle città tedesche come in tutta Europa è diventata negli ultimi anni particolarmente acuta per la classe operaia, in particolare per chi percepisce i salari più bassi. Una porzione sempre maggiore del salario è assorbita dall’affitto e sempre meno rimane per vivere. Ci siamo già espressi in volantini, articoli e interventi pubblici su questo tema per illustrarne le cause e indicare prospettive di lotta contro questa forma di esproprio dei lavoratori e delle lavoratrici, mantenendo sempre uno sguardo critico sulle lotte già in corso. Ora, a fronte del cambio di governo a Berlino e in Germania e della vittoria del referendum sull’esproprio della Deutsche Wohnung e dei grandi gruppi immobiliari, vogliamo ribadire nuovamente le nostre posizioni.

Il modo di produzione capitalistico si trova dagli anni Settanta alle prese con una crisi globale (vedi al proposito le nostre indagini sul “corso del capitalismo”); la sua straordinaria spinta propulsiva, prodotta dalle innovazioni tecnologie introdotte dall’industria bellica e dalle immense distruzioni (di mezzi di produzione, merci e forza lavoro in eccedenza) causate dal secondo conflitto imperialistico, si era improvvisamente esaurita. Da allora si sono tentate diverse vie per contrastare questa crisi, talvolta coronate da momentanei successi, ma – come un incendio non sedato – essa ha continuato a riproporsi. Alcune di queste misure consistono in una riduzione dei costi superflui a carico del capitale grazie alle prestazioni dello “stato sociale” (sussidi di disoccupazione, assistenza medica ecc.), altre attaccano invece direttamente le condizioni di lavoro attraverso tagli salariali, aumenti dell’orario, accorpamenti, delocalizzazioni in paesi a minor costo del lavoro, aumento della concorrenza internazionale all’interno della classe operaia. Si tenta inoltre di aumentare la produttività intensificando il progresso tecnologico e l’efficienza dei processi produttivi, si cerca di aumentare la circolazione del capitale e di diminuire i costi di magazzinaggio delle merci; parole chiave in questo senso sono just-in-time e lean production. Last but not least, gli Stati con le loro banche si sforzano di tenere viva l’economia attraverso politiche fiscali sempre più estreme, ricorrendo a  misure che erano impensabili solo fino a pochi anni fa quali gli interessi passivi e l’immissione massiccia sui mercati di liquidità fresca.

E con ciò torniamo alla questione degli alloggi: perché sono la riduzione degli interessi, il diluvio di liquidità, e il disperato tentativo del capitale e di molti investitori di far rendere ancora in qualche modo i loro patrimoni e di metterli in sicurezza contro la minaccia dell’inflazione a far salire alle stelle i prezzi del “mattone d’oro” e a sottomettere l’intero mercato immobiliare (quindi anche lo spazio abitativo destinato alla classe operaia) al bisogno degli investitori di realizzare il massimo profitto, dal momento che in altri settori non può più essere realizzato un profitto adeguato per il capitale in eccesso. Si produce in questo modo una gigantesca bolla immobiliare che, sganciata dal valore reale degli immobili, è condannata prima o poi ad esplodere con tutte le conseguenze drammatiche per i mercati finanziari e l’economia capitalistica. I santi protettori di questi interessi orientati alle proprietà di pochi sono tutti i partiti e gli organi dello Stato (ad esempio i tribunali) che agiscono sul terreno costituzionale vigente. Possiamo vederlo già molto chiaramente dai risultati delle elezioni berlinesi e di quelle nazionali, e prima ancora che i nuovi governi siano entrati in funzione: anche nella prossima legislatura non assisteremo a un intervento significativo nel mercato degli alloggi da parte dello Stato.

Il 26 settembre, a Berlino, con le elezioni politiche si è votato anche per il referendum sull’esproprio dei grandi gruppi immobiliari: 59,4 percento dei voti a favore, 39 contrari. Si sono stappate bottiglie di champagne tra i promotori, ma poi è subentrata la disillusione. Noi avevamo messo in guardia da quanto si è poi realizzato dopo le elezioni e abbiamo criticato come segue le illusioni connesse all’istituto referendario:

1 Il referendum popolare non è una campagna di esproprio, come si è voluto fare intendere, bensì una campagna di riscatto delle proprietà con denaro pubblico. Come tale è condizionata dall’entità dei risarcimenti, e dei mezzi di finanziamento pubblico disponibili, così come, naturalmente, da questioni di ordine costituzionale, che riguardano la legittimità da parte dello Stato nel costringere gruppi immobiliari alla vendita del loro patrimonio. Perché nel capitalismo il diritto alla proprietà e a trarne profitto con qualsiasi mezzo e a spese della maggioranza è garantito dalla Costituzione.

2 Il referendum non è altro che la richiesta al Senato berlinese di elaborare un progetto di legge, ma non ha alcuna forza giuridica vincolante. Il problema di fondo dei referendum (a meno che non trattino di parchi o di piste ciclabili) è che, o falliscono (a causa dell’enorme opposizione delle forze lobbistiche) con conseguente delegittimazione dei movimenti che li hanno promossi, oppure che, in caso di successo, ci pensano i meccanismi trituranti di Stato e giustizia a riportare nei ranghi  i movimenti stessi (che, per altro, già nella formulazione dei quesiti referendari devono mostrarsi compatibili con gli interessi dello Stato).

3 I referendum spostano le lotte di strada e gli scioperi aziendali sul terreno delle votazioni democratiche riconoscendo interamente le regole del gioco dello Stato borghese, della sua Costituzione, delle sue leggi, dei suoi obblighi, delle sue forme politiche. Anche se nel caso del referendum sugli espropri (DWE) esiste un movimento popolare, esso monta tuttavia il cavallo sbagliato: un movimento sociale deve ottenere miglioramenti con la lotta, cioè imporli e non elemosinarli – solo così si sono conseguiti successi nella storia recente e passata. Prendere la strada delle manovre democratiche conduce il movimento a estinguersi o a soggiacere alle false illusioni di una campagna borghese in tutto e per tutto.  In questo modo non si produrrà né nel medio né nel lungo termine una coscienza di lotta nella classe lavoratrice, e i prossimi attacchi sono già alle porte. Dovranno esserci in futuro referendum contro la guerra, contro l’adeguamento delle pensioni al mercato capitalistico, contro i licenziamenti di massa, contro l’attacco ai nostri salari? Il referendum attuale è una tigre sdentata di cui nessuno ha seriamente paura: anche in questo caso i gruppi immobiliari e i partiti borghesi hanno la vista ben più acuta che non l’estrema sinistra borghese.

Breve critica del riformismo

Il referendum si rifà direttamente alle forme politiche del riformismo borghese che noi rifiutiamo radicalmente, e non per ‘dogmatismo’, ma sulla base della nostra analisi scientifica delle vigenti condizioni sociali che è stata sempre confermata – storicamente come attualmente – dalle reali esperienze di lavoratrici e lavoratori!

Naturalmente noi non rifiutiamo riforme che producano miglioramenti immediati, al contrario: esse sono una parte necessaria del cammino che la classe operaia deve compiere per acquisire di nuovo consapevolezza della propria forza. Le riforme, inoltre, sono irrinunciabili per concedersi un attimo di respiro in mezzo ai quotidiani attacchi sociali cui si è esposti. Ma anche sul fatto che i successi estorti al capitale o allo Stato debbano alla fine tradursi in una forma di contratto o di legge per potere essere validi o vincolanti e perché l’apparato di potere dello Stato borghese ne assicuri il rispetto, anche su questo non ci facciamo illusioni utopiche: that’s part of the game. In ogni caso non si devono coltivare false illusioni sulle possibilità dei miglioramenti sociali conseguibili all’interno del capitalismo, o sul carattere dello Stato borghese e delle sue istituzioni, per quanto ottimismo ed euforia qualcuno voglia cercare di coltivare...

Ecco la differenza tra riforme e riformismo: riformismo – come dice la parola – è fare delle riforme uno scopo a sé stante e ad esso subordinare tutto cadendo nell’abisso delle illusioni e delle fantasie. Ma la cosa va ben oltre e produce un accecamento e una distorsione ideologica del reale scopo riformistico.

Il riformismo non si contraddistingue perché vorrebbe introdurre le riforme più efficienti, ma perché millanta di farlo, e non mantiene in realtà le sue promesse. Si tratta di un colossale raggiro, di un potente autoinganno. Un esempio famoso viene dai sindacati statali che celebrano come grande successo l’aumento salariale del 4%, ma tacciono del fatto che esso è già vanificato da pagamenti una tantum e spalmati su più anni, sicché alla fine l’aumento resta inferiore al tasso di inflazione ufficiale. Lo stesso vale per i partiti di ‘sinistra’ che siedono in parlamento e che qualche volta, ogni tanto, strappano qualche magra miglioria. E’ a questa strategia del riformismo che si collega il referendum, il quale promette l’esproprio ma non è nemmeno in grado di mantenere la promessa dei riscatti. E aggiungiamoci la partecipazione costruttiva, democratica, il partenariato sociale e l’adesione a uno Stato e ai suoi meccanismi che altro non è che lo Stato del capitale: quanta stupidità in tutto questo statalismo!

Non è un caso che gli animatori del referendum siano di estrazione trotzkista, una variante pseudo-comunista del riformismo, con deformazioni socialdemocratiche. La stessa scelta di molti promotori del referendum di collaborare strettamente col partito della Linke per portare direttamente nei parlamenti la questione degli alloggi è, a fronte delle esperienze degli ultimi anni, alquanto ingenua. Il riformismo, tuttavia, è ben di più che una mera fantasticheria: il fatto che sia in condizione, per quanto limitatamente, di ottenere dei miglioramenti o di impedire dei peggioramenti e che alimenti in permanenza questa speranza – un po’ come la speranza di vincere alla lotteria – costituisce la sua base materiale reale e spiega perché sia così duro a morire.

Il nostro compito come sinistra rivoluzionaria non è di cavalcare “ronzini morti”, come è il caso dell’ala naif dei riformisti (degli altri non si può far altro che pensare che è loro intenzione soffocare le lotte!), ma esercitare sempre una implacabile analisi e critica delle attuali condizioni di sfruttamento e oppressione e delle possibili forme di lotta e di intervento politico. E se in determinati ambiti le lotte sociali o gli scioperi subiscono pesanti sconfitte, dobbiamo affrontarle apertamente e non interpretarle a posteriori come un successo. Possono infatti avere cause assolutamente reali, come la mancanza di organizzazione o di disponibilità alla lotta della nostra classe, oppure una tattica sbagliata. Inutile nascondersi la realtà: i problemi, anche di difficile soluzione, devono essere affrontati apertamente e si deve indicare una prospettiva che consenta un cambiamento. Dobbiamo impegnarci perché la classe lavoratrice torni di nuovo a essere consapevole della sua forza e sia in condizione di respingere  attacchi sociali – come quelli oggi in atto – invece di restare imprigionata sul piano delle rivendicazioni e riforme borghesi, altrimenti non faremo che preparare ulteriori sconfitte.

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