DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Son trascorsi ben trent’anni dalla data della prima pubblicazione di questo nostro lavoro di partito.

Trent’anni durante i quali protagonisti e comprimari della tragica commedia dei conflitti economici, politici e militari tra gli Stati capitalistici si sono perfezionati, alternandosi nei loro ruoli e seguendo fedelmente, nelle loro improvvisate interpretazioni, la trama dettata dal canovaccio dei rapporti di produzione capitalistici.

In questi trent’anni, il periodo di crisi di accumulazione del capitale, seguito alla fase espansiva figlia del secondo massacrante conflitto inter-imperialistico, ha proseguito il suo sincopato alternarsi di pseudo-riprese e ben più concreti tonfi (il più significativo è stato quello del 2008), rafforzando le cause profonde degli scontri imperialisti che si preparano a generare un nuovo, necessario, conflitto inter-imperialistico.

Altri nostri lavori seguono e analizzano l’evoluzione di questi scontri, il rafforzamento e l’indebolimento dei protagonisti: ma le dorsali dell’analisi critica di questa marcia verso il conflitto rimangono costanti.

Così come rimane necessariamente immutabile l’unica strategia per contrastare, interrompere, trasformare la guerra del capitale; e immutabile rimane la faticosa via dell’organizzazione di un’opposizione proletaria, coagulata intorno alla teoria, ai principi, al programma, alla tattica del partito comunista, netta e decisa, in aperto contrasto con tutti gli intellettuali (di ogni ordine e grado) che vogliono succhiare, come tanti inutili e dannosi parassiti, le sofferenze e le energie della stragrande maggioranza di noi venditori di forza-lavoro, per costruirsi le loro carriere di funzionari del capitale. Non un soldo, non un soldato per le guerre del capitale, disfattismo e nessuna concordia con le nazioni borghesi: trasformare la guerra imperialista tra gli Stati borghesi in guerra rivoluzionaria dentro gli Stati borghesi.

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La definizione che von Klausewitz diede della guerra, secondo cui essa è “la continuazione su un altro piano, e con mezzi diversi, della politica” (la politica, aggiungeremmo noi, di preservazione del capitale), si attaglia così bene alla società borghese, che la si potrebbe tranquillamente capovolgere, e definire la politica come proiezione su un piano e con mezzi diversi di quello stato di guerra permanente, anche se per lo più sotterranea, che è il modo reale d’essere e di divenire del capitalismo. Guerra fra capitali individuali nella vita economica quotidiana; guerra commerciale fra concentrazioni di capitali e quindi, alla lunga, anche fra Stati per il possesso di mercati e per il predominio in settori vitali della produzione o nell’approvvigionamento di materie prime; guerra diplomatica prima, guerreggiata poi, quando gli antagonismi indissolubilmente legati al processo di espansione del capitalismo raggiungono un livello di tensione estrema e cercano la loro “soluzione” nella violenza armata organizzata, nella guerra tout court.

Ovviamente, è necessario il concorso di molteplici fattori perché il legame fra gli stadi successivi di un unico processo appaia evidente, e crollino miseramente al suolo le teorie costruite e propagandate a sostegno della vantata possibilità che gli equilibri raggiunti in uno di essi si consolidino in una sorta di sia pure irrequieta “pace perpetua”.

È accaduto così che, prima dello scoppio della crisi del Golfo (come notava di recente il segretario generale dell’ONU, Perez de Quellar), la guerra sembrasse ormai divenuta “cosa di altri tempi”; illusione alla quale dava un certo credito la fine del bipolarismo Usa-Urss[1]. È tuttavia bastato che un’area di vitale importanza per il capitalismo (in primo luogo – ma non soltanto – per quello statunitense) agli effetti sia degli approvvigionamenti energetici, sia e soprattutto della salvaguardia della rendita petrolifera, della sua ripartizione e della gigantesca rete di interessi cresciuta sulla sua base, diventasse un nodo di contrasti insolubili sul puro piano economico o diplomatico, perché lo spettro di scontri militari di cui si era appena celebrata la definitiva scomparsa tornasse prepotentemente in scena; perché un conflitto in origine apparentemente periferico (“da Terzo Mondo”) assurgesse a conflitto ormai quasi planetario; e perché, di là  dall’oggetto contingente dello scontro, si profilasse lo scenario sia pure lontano di una terza carneficina mondiale, protagoniste le maggiori potenze economiche di oggi, Usa, Giappone, Germania, Europa in generale.

Perciò, comunque si concluda la vicenda attuale, la “questione guerra” è ormai stata posta sul tappeto.

 

Due vane risposte alle prospettive di guerra

In occasione della crisi del Golfo, due illusorie risposte alla prospettiva di una guerra sia pure contenuta entro limiti ristretti si sono, come al solito, fatte sentire.

L’una è quella di un generico quanto imbelle pacifismo, fatto di petizioni, proteste, manifestazioni (naturalmente pacifiche) convoglianti forze sociali fra le più disparate; un pacifismo impotente ad intaccare anche in minima parte la sostanza della questione; pronto infine a capovolgersi nel suo opposto non appena siano o sembrino lesi o anche soltanto minacciati i sacri valori del suolo patrio o gli interessi non meno sacri della nazione. Basato sull’idea, priva più che mai di senso nell’epoca attuale, di una divisione delle guerre in “giuste” e “ingiuste”, questo pacifismo  si converte nel più bieco interventismo – come la storia ci ha ripetutamente insegnato – ogni qualvolta gli imperativi della cosiddetta giustizia lo impongano.

L’altra, più legata a fattori contingenti (come, nel caso specifico, il riavvicinamento fra Est ed Ovest e le sviolinate sull’apertura di una nuova “era di pace”), consiste nell’appellarsi – come si è fatto da tutte le parti politiche – ad istituti seducentemente investiti di ruoli e poteri sovranazionali, in grado quindi di imporre il riconoscimento di un ordine internazionale pacificamente instaurato, e di risolvere per vie diplomatiche gli eventuali contenziosi. A parte l’assurdo di una visione della storia in generale e di quella del capitalismo in particolare come regolata o regolabile in base a diritti, leggi e convenzioni (“l’ordine internazionale” che si pretende violato dal malfattore di turno trae forse origine, a sua volta, da qualcosa di diverso dal gioco di forze e controforze al cui centro stanno le grandi potenze imperialistiche?), ci si dimentica che di organi cosiddetti sovranazionali ne esistono più di uno, ciascuno rispondente agli interessi di questa o quella potenza o gruppi di potenze. I sette Paesi più industrializzati, i famosi G7, agiscono come una sorta di comitato economico mondiale, più o meno concorde al suo interno ma, in genere, unito verso l’esterno; il consiglio di sicurezza dell’ONU agisce come braccio destro di cinque membri permanenti della stessa organizzazione, il cui parere, omogeneo o disomogeneo, determina a sua volta quelle che passano per decisioni autonome dei componenti l’Assemblea; un numero imprecisato di organismi regionali ed interregionali difende, nei limiti del possibile, gli interessi tutt’altro che “ideali” di gruppi di potenze appartenenti ad aree specifiche, ecc. L’intero meccanismo funziona sulla base non di codici internazionali di buona condotta, ma di ben precisi rapporti di forza economica, politica, militare, e la sua capacità non tanto di garantire, quanto di sanzionare un certo “ordine” o, come si dice, un sistema di “diritto internazionale” dipende dal grado in cui una o più potenze fra le maggiori riescono a far valere il loro diritto, cioè il diritto del più forte: frutto di precedenti rapine e spartizioni di bottino, esse mirano ad assicurarne la conservazione. Né nelle loro origini, né nelle loro finalità, il diritto internazionale e gli organismi ad esso preposti sono strumenti di pace: in realtà, sono armi di guerra.

 

Ineluttabilità della guerra in regime capitalista

Nella visione marxista, non è soltanto vero che in epoca capitalistica le guerre sono un prodotto necessario e ineluttabile del modo di produzione vigente, e solo la rivoluzione proletaria può impedirne lo scoppio o interromperne violentemente il decorso. È anche vero che, in determinati periodi – periodi cioè di crisi del meccanismo di accumulazione del capitale – essa è il rimedio estremo al quale la borghesia non può non ricorrere per salvaguardare il proprio dominio attraverso la distruzione in massa di capitali, merci e forze-lavoro – di uomini, insomma, e di prodotti delle loro mani. Ciò non significa che la borghesia entri in guerra in base a calcoli ben ponderati o a libere decisioni dei propri organi legislativi od esecutivi: è l’esistenza stessa del capitalismo, sono le sue esigenze di vita, a mettere in moto il meccanismo del conflitto, a cominciare dai preliminari di quella che sarà poi formalmente la dichiarazione di guerra fino alla sua attuazione pratica, materiale e ideologica. La guerra non scoppia né “per caso”, né per “volontà” di singoli o gruppi: è lo sbocco ultimo di una situazione oggettiva maturatasi in tutta una varietà di settori, ed esplosa nel punto di rottura verificatosi nei rapporti di forza fra le economie dei paesi candidati al ruolo di belligeranti.

Scopo primo del capitale una volta investito, è di riprodursi con un profitto; è quindi l’accumulazione che domina l’intero ciclo di funzionamento del capitalismo, imponendo di allargare oltre ogni limite la produzione e le conseguenti aree di smercio. È la concorrenza, in ogni fase del processo di accumulazione, a selezionare e mettere in urto prima i capitali individuali (o, detto alla spiccia, i capitalisti singoli), poi, man mano che le esigenze dell’accumulazione si fanno più serrate, gli enti collettivi di produzione, le società per azioni, i trust, le multinazionali  insomma le imprese tendenzialmente o effettivamente monopolistiche, i cui interessi, in genere, superano bensì i confini nazionali, ma che nello Stato nazionale trovano insieme la loro espressione politica e il garante dei loro interessi, la grande macchina di forza organizzata in loro difesa.

Ora, mentre – sotto il profilo tecnico – il processo produttivo cresce senza soste né limitazioni traendo impulso dallo stesso carattere vulcanico della produzione di merci, tende invece a ridursi la possibilità di collocare i prodotti alle condizioni di “redditibilità” indispensabili perché nelle condizioni date il processo di accumulazione non si interrompa [2]: al “vulcano della produzione” tende a contrapporsi “la palude” di un mercato, che invece di allargarsi ristagna: ecco allora esplodere in seno all’economia capitalistica la più violenta delle sue contraddizioni; ecco la crisi del sistema imporre il ricorso a soluzioni estreme sul piano della forza.

Nei Paesi industrialmente più avanzati, la classe imprenditrice incontra seri limiti all’investimento del capitale accumulato o nella mancanza (o insufficienza) di materie prime di origine locale o di manodopera indigena, o di mercati di acquisto delle merci prodotte. Ora, l’approvvigionamento in materie prime non locali, l’ingaggio di manodopera straniera, la conquista di mercati esteri, sono oggi processi che, lungi dal poter essere condotti soddisfacentemente a termine con mezzi puramente economici o col mero gioco della concorrenza, implicano lo sforzo costante di regolare e controllare i prezzi di vendita e di acquisto, e i privilegi via via ottenuti, attraverso provvedimenti di stato o convenzioni interstatali. L’espansionismo economico tende così a trasformasi da concorrenziale in monopolistico, e trova la più tipica espressione, appoggiata – ove occorra – da potenti mezzi militari, nella sua forma finanziaria. Si tratti di controllare i grandi giacimenti minerari, o le masse da proletarizzare, o i mercati di sbocco in grado di assorbire i prodotti dell’industrialismo capitalista, è la forza a decidere l’esito della corsa all’accaparramento, al controllo o al dominio diretto di settori sempre più vasti dell’economia mondiale. Manifestazione globale degli urti e delle crisi che ne derivano è l’imperialismo, che sul piano economico si manifesta nel processo di accentramento il cui punto di approdo è l’organizzazione monopolistica della produzione e degli scambi.

Attraverso il capitale finanziario, le potenze di America, Giappone, Germania ed altri paesi europei od extra-europei manovrano oggi incontrastati lo scenario economico mondiale, pronte a gettarsi in questa o in quell’avventura, a stringere questa o quella forma di alleanza, o, viceversa, a minacciarsi e infine aggredirsi l’un l’altra, pur di reagire alla caduta tendenziale (e, in periodo di crisi attuale) del saggio di profitto. Ma a ciò si addiviene solo assicurandosi e sforzandosi di mantenere posizioni di forza contro i concorrenti su scala nazionale ed internazionale, e, quando entrano in collisione due o più imperialismi dagli interessi vitali inconciliabili, ecco mettersi necessariamente in moto quel meccanismo tipico del capitalismo, e per esso inevitabile, che è il conflitto armato. E questo non ha soltanto per obiettivo il superamento almeno temporaneo della crisi a spese dell’avversario, e grazie alla conquista di posizioni più vantaggiose nello sfruttamento delle risorse e del lavoro del o dei Pesi sconfitti, ma (e soprattutto) il rilancio del ciclo di accumulazione del capitale attraverso la distruzione su vasta scala di merci e forze-lavoro e la successiva orgia di ricostruzione – obiettivo comune (questo è il punto nodale) ad amici e nemici, belligeranti e non belligeranti, vincitori e vinti.

 

E oggi?

Nella fase attuale, i grandi vincitori della Seconda guerra mondiale, USA e Russia, stentano in varia misura a conservare il predominio economico e politico, quindi anche militare, acquisito mediante la sconfitta della coalizione avversaria: assistiamo così alla decadenza di fatto degli accordi di Yalta, al crollo dell’impero dell’Est, all’unificazione della Germania, e contemporaneamente allo sfacelo economico e politico dell’Urss, e al declino, sia pure con ritmi per ora assai meno veloci, della strapotenza americana. Oggi ben più che ieri, a farsi concorrenza sui mercati mondiali non sono più le merci e i capitali americani e russi, ma quelli americani, giapponesi e tedeschi (per tacere, ovviamente, dei “personaggi” minori, ma non meno potenzialmente aggressivi, della scena); sono essi i candidati a divenire i protagonisti di un nuovo scenario di scontri imperialistici, anche se per ora si assiste al perdurare di una fase di alleanza formale al di sopra dell’Atlantico e del Pacifico. Il problema - posto all’ordine del giorno dalla crisi del Golfo e dall’intervento americano nel Medio Oriente – del controllo delle forniture energetiche e dei flussi finanziari della rendita petrolifera, finora monopolizzato dagli USA, e del dominio diretto o indiretto sulle loro fonti, non potrà non occupare in futuro, intrecciandosi a mille altre questioni vitali, il centro delle preoccupazioni dei gruppi imperialistici ora alleati dell’America ma già in serrata lotta di concorrenza con essa sul mercato che la caduta del muro di Berlino ha dischiuso agli appetiti  dei più forti. Ed è questo probabilmente il primo passo verso un’escalation delle tensioni fra gli amici di oggi. Prima “l’apertura” ad Est, poi l’inclusione del Golfo nello “spazio vitale” (esteso del resto a quasi tutto il pianeta) degli Stati Uniti, tendono a spostare il processo di incubazione della guerra dal piano locale o regionale a un piano generale e, infine, planetario attraverso la “militarizzazione” degli scontri economici e la prospettiva, resa più palpabile dell’intervento-occupazione Usa nella penisola arabica, che vadano maturando non solo nella già travagliatissima area medio-orientale schieramenti politici e militari diversi da quelli usciti dalla conferenza di Yalta.

Nel contesto dell’imperialismo, dati lo sviluppo ineguale, sotto il suo segno, dell’economia capitalistica e la diversa stratificazione delle forze sociali e politiche nei differenti paesi, che ne deriva, sono gli antagonismi fra potenze concorrenti, anche se non di importanza fondamentale, a fungere da detonatore dell’acuirsi delle tensioni fra Stati e all’interno degli Stati. Nell’area medio-orientale, le esigenze a lungo represse del capitalismo irakeno hanno fatto balzare sulla scena della storia e al timone dell’apparato statale le forze che meglio le interpretavano nella contingenza storica presente: Saddam Hussein non è il “barbaro” di turno di cui urge tarpare le ali in nome della civiltà e del diritto, ma l’interprete delle spinte materiali che già sono state alla base dell’attacco all’Iran e sono oggi alle origini dell’invasione del Kuwait e della conseguente rottura dei precari equilibri regnanti nella zona. L’imponenza degli interessi qui concentrati ha messo in moto meccanismi le cui ripercussioni, ben al di là della regione presa a sé, sulla polveriera capitalistica mondiale è già oggi arduo controllare e lo sarà ancor più domani. L’intreccio di tutti questi fattori, riescano o no gli Stati Uniti a sloggiare (o a pilotare) Saddam Hussein, non potrà allora non mettere di fronte, invece delle metropoli superindustriali da una parte e uno o più paesi capitalisticamente minori o arretrati dall’altra, ma l’imperialismo americano oggi dominante ed altre potenze imperialistiche che sono rimaste finora più o meno direttamente al suo seguito sul piano politico, ma che sono economicamente in frenetica ascesa.

 

Pacifismo, difesismo, o disfattismo?

Tutti questi problemi sono ormai acquisiti alla coscienza dei marxisti rivoluzionari, e la loro soluzione li distingue con assoluta chiarezza da tutte le forze politiche e sociali che ritengono possibile e, quel che più conta, efficace una lotta dell’umanità contro il regime e la logica del monopolio per una giusta ripartizione delle risorse fra gli Stati e una loro pacifica coesistenza nel segno della giustizia se non addirittura della fratellanza.

Per il marxismo non v’è terapia, non v’è intervento clinico che valga, entro il modo di produzione capitalistico, a circoscrivere e infine eliminare il bubbone degli scontri imperialistici. Noi non possiamo essere pacifisti o “antiguerristi”: esserlo significherebbe ammettere la possibilità di eliminare la guerra prima dell’eliminazione del capitalismo e, per ciò stesso, asservire ulteriormente le masse proletarie al capitale (quindi alla stessa guerra) deviandole dal loro compito storico di classe. Tutta la campagna propagandistica per la salvaguardia della pace e contro “provocatori” ai quali risalirebbe la responsabilità dei conflitti armati non solo non ha per noi nessun serio contenuto, ma va in controsenso alle finalità ultime della lotta per l’emancipazione della classe lavoratrice e, con essa, dell’intera umanità.

Ai proletari non si pone il problema di schierarsi su un fronte di guerra piuttosto che su un altro in difesa, di volta in volta, di postulati che vanno dalla libertà individuale alla democrazia politica, dall’eguaglianza fra gli uomini al “socialismo in un paese solo” e alla sua difesa, dai diritti dell’uomo e del cittadino fino alla salvaguardia del “diritto delle genti”, e che convergono tutti nello sforzo di tenere in vita un modo di produzione ed una società che grondano sangue da tutti i pori. Il circolo vizioso delle crisi e delle guerre, che forma la sostanza stessa del processo di sviluppo del capitalismo, dev’essere spezzato; e spezzarlo può solo la rivoluzione comunista.

Riconoscerlo è il presupposto perfino della difesa delle condizioni immediate di vita e di lavoro dei proletari, perché è attraverso l’interclassismo inseparabile da ogni pacifismo e la solidarietà nazionale propagandata dal difesismo borghese che si infrange l’unità della classe nella sua lotta contro il capitale.

Ma questa lotta non può essere circoscritta ai confini di un paese: o è internazionale, o perde il suo significato, il suo valore, la sua forza.

Sua condizione prima è la rinascita dell’organizzazione classista del partito poggiante sul disfattismo rivoluzionario nei confronti della borghesia, verso l’obiettivo finale dell’abbattimento dell’ordine capitalistico e l’instaurazione del comunismo.

[1] Si noti che questo stesso bipolarismo era stato per anni presentato come garanzia di pace generale (a parte lo scoppio occasionale di conflitti di periferia) sotto la specie di un “equilibrio del terrore”!

[2]Periodicamente si producono troppi mezzi di lavoro e mezzi di sussistenza per farli funzionare come mezzi di sfruttamento dei lavoratori a un saggio di profitto dato; si producono troppe merci per poter realizzare nelle condizioni di distribuzione e nei rapporti di consumo dati dalla produzione capitalistica il valore in esse contenuto e il plusvalore ivi racchiuso, e riconvertibili in nuovo capitale, cioè per poter compiere questo processo senza esplosioni perennemente ricorrenti. Non è che si produca troppa ricchezza [in assoluto]; è che si produce periodicamente troppa ricchezza nella sua contraddittoria forma capitalistica”. (Marx, Il capitale, Libro III, sezione III, cap. XV, “Sviluppo delle contraddizioni della legge [della caduta tendenziale del saggio di profitto])”.

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