DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

E’ una legge storica che, in certe fasi, dopo lunghi periodi di apparente inerzia, le dinamiche economico-sociali prodotte dallo stesso capitalismo nella sua fase più agguerrita e distruttiva (quella imperialista) accelerino di colpo, con contraccolpi violenti, con strappi improvvisi, avvicinando il momento della resa dei conti all’interno dello stesso modo di produzione capitalistico e coinvolgendo in essa il proletariato mondiale. E’ troppo presto per dire se ci troviamo in una di queste fasi e nostro compito (teorico e pratico, politico e organizzativo) dev’essere per l’appunto quello di seguire e analizzare passo passo l’evoluzione della crisi economica mondiale, nei suoi riflessi sociali, nel modo in cui le classi (e, al loro interno, gruppi e fazioni) si muovono, operano e cominciano a schierarsi. Il dato di fatto, su cui non cessiamo di soffermarci, è che la crisi economica mondiale sta continuando a lavorare nel profondo, erodendo certezze e convenzioni (e soprattutto quelle fittizie riserve economiche – risparmi, pensioni, case di proprietà – e sociali – pensioni, assistenza sanitaria, istruzione – che hanno costruito l’illusione concreta di ogni riformismo), sgretolando ipotetiche solidità, suscitando a livello collettivo e individuale, nei duri fatti dell’economia come in quelli della vita quotidiana, una situazione di crescente incertezza e instabilità. Osservatori e opinionisti non molto intelligenti fanno ricorso a terminologie medico-psichiatriche per definire l’odierna “condizione umana”: e parlano di “avvento dell'ansia globale”, di “globalizzazione e crisi di rigetto”. Penosa dimostrazione dell’abisso in cui è ormai sprofondata la casta degli ideologi del potere! Dietro questo sfoggio d’ignoranza storica, teorica, concettuale, si agitano comunque tensioni profonde, lacerazioni non più ricomponibili, che toccano e feriscono la nostra stessa classe proletaria.

Proviamo a delineare molto schematicamente alcuni di questi scenari, prendendo lo spunto da certi fatti salienti verificatisi negli ultimi mesi.

Le lotte dei lavoratori francesi contro la Loi Travail

Tra marzo e giugno, in Francia s’è sviluppato un ampio movimento di lotta contro la cosiddetta Loi Travail, qualcosa di molto simile all’italiano Jobs Act: una serie di disposizioni di legge riguardanti il rapporto lavoratori/padronato/Stato, che implicano precarizzazione diffusa, libertà di licenziare, peggioramento complessivo delle condizioni di lavoro. Ci sono state grosse manifestazioni in tutte le principali piazze francesi, violenti scontri tra manifestanti e “forze dell’ordine”, feriti e arresti e, da ogni parte, il solito levar di ragli sulla “violenza dei casseurs”. Il controllo dell’Intersindacale (l’equivalente dell’italiana Triplice) è stato ferreo, a ulteriore dimostrazione del ruolo che i sindacati di regime svolgono sempre più: quello di poliziotti in borghese. Noi abbiamo salutato con entusiasmo la volontà di lotta dei lavoratori francesi che, soprattutto in settori vitali come i trasporti e le raffinerie, è stata notevole: ma non abbiamo mai nascosto quanto sia stato completo, in ogni momento, questo controllo sindacale, come la diffusa rabbia proletaria sia stata abilmente contenuta e incanalata, diluita nel tempo e sfiancata da scioperi e mobilitazioni a scacchiera e a singhiozzo (l’ultima manifestazione a metà giugno ha rappresentato il canto funebre del movimento ed è stata accompagnata dalla proposta sindacale di sottomettere la legge a un… referendum popolare!). Qualcosa di molto simile era accaduto in Italia nel 1992, quando il segretario generale della CGIL Bruno Trentin, durante un comizio a Firenze al culmine di una stagione di lotte, era stato accolto da un fitto lancio di bulloni: con consumata abilità, il sindacato aveva lasciato sfogare la collera dei lavoratori, contenendola, sorvegliandola e reprimendola quando necessario – da allora, al massimo si sono lanciate uova (e nemmeno marce!)… Intanto, l’esecutivo francese ha mostrato che cosa intendiamo per “dittatura democratica”: senza alcuna violazione della Costituzione, anzi applicandola, ha lavorato per decreto come ogni esecutivo forte che si rispetti, scavalcando a muso duro l’imbelle (e imbecille) parlamento democraticamente eletto – la stessa prassi applicata in Italia da tutti gli esecutivi che si sono succeduti, dalla fine degli anni ’80 all’ultimo Renzi. Lasciata sfogare la collera, è seguito il silenzio: e in silenzio la legge è… diventata legge. Nel commento a caldo delle manifestazioni, abbiamo sottolineato come ben altra violenza e determinazione siano necessarie per piegare, anche solo sul piano delle rivendicazioni economiche, il padronato e lo Stato che lo rappresenta; che l’Intersindacale (guidata da una CGT che cerca di riprendersi dall’emorragia di iscritti) ha svolto un perfetto lavoro di pompieraggio; e che nessuna fiducia di alcun genere va riposta in essa, come invece hanno fatto, con toni diversi ma convergenti, i cosiddetti “estremisti”: dal piagnucoloso Nouveau Parti Anticapitaliste ai vari gruppi trotskisti, dai maoisti di Voie Prolétarienne ai marxisti-leninisti del Rassemblement Organisé des Communistes Marxistes Léninistes – tutti in fin dei conti concilianti nei confronti della CGT e pronti a riconoscerle un positivo ruolo di guida nei conflitti sindacali. Al contrario, non c’è stato nessun sia pur minimo tentativo di lavorare al difficile compito di restituire alla nostra classe una propria autonomia organizzativa e di contenuto nei confronti di partiti e sindacati ultra-compromessi con la classe dominante e con il suo Stato.

(vedi il nostro articolo “Dalla Francia. Breve nota sulle manifestazioni contro la ‘Loi Travail’”, Il programma comunista, n. 3/2016).

L'uscita della Gran Bretagna dalla UE

Com’è noto, il referendum popolare del 23 giugno è risultato favorevole all’uscita della Gran Bretagna dall’UE. Sconcerto di politici, economisti, opinionisti, e panico nelle Borse e nelle piazze finanziarie: che cosa mai è successo? è possibile una cosa del genere? e adesso? che ne sarà dell’Europa? Le nostre considerazioni vanno in tutt’altra direzione. Per prima cosa, l’esito del referendum mostra come la crisi economica mondiale pesi sulla stessa classe dominante: crei cioè fratture interne alla stessa borghesia, lacerata da opzioni diverse nel vano tentativo di far fronte allo sfacelo del proprio modo di produzione – isolazionismo contro apertura, protezionismo contro liberismo, e via discorrendo. D’altra parte, la Gran Bretagna ha sempre occupato una posizione del tutto particolare (né dentro né fuori, ma ai margini, e con lo sguardo rivolto agli Stati Uniti) in un'Europa che non è mai esistita come soggetto politico e che sotto la pressione della crisi va via via sfaldandosi, mostrando di non essere altro che un “mercato comune” di litigiosi concorrenti. La situazione sociale britannica è critica già da anni, al di sotto del brillare (per pochi) delle sue grandi metropoli: dentro o fuori dell’UE, poco cambierà per il proletariato britannico che da decenni viene bastonato da questo o quel governo, costretto nella camicia di forza di sindacati e Labour Party (con le sue risibili “ali sinistre” alla Jeremy Corbyn: altro eroe che vacilla, per tanti miserabili piccoli borghesi in cerca di miti, insieme ad Alexis Tsipras di Syriza e a Pablo Iglesias di Podemos!). La sua condizione andrà solo peggiorando: ma non per l’uscita della Gran Bretagna dall’UE, bensì per l’approfondirsi della crisi economica mondiale. Vale poi la pena di fare un’altra considerazione: per qualche giorno, “il re è rimasto nudo” – cioè, il meccanismo democratico (che cosa c’è di più democratico di un referendum popolare, dove tutti, ma proprio tutti, dicono la propria opinione?!) ha mostrato la propria fallacia. Infatti, nei (pochi) giorni successivi, in molti – osservatori e politici – si domandavano: “ma che senso ha dunque affidare all’‘opinione dell’uomo/donna della strada’ una questione così delicata, che non è chiara nemmeno a noi, ai ‘tecnici’, agli ‘esperti’?” (soprattutto poi se il risultato contraddice le attese!). Ohibò, ma non è così che funziona la democrazia? Non illude forse che tutti, eguali davanti alla legge, alla coscienza e alla conoscenza (oltre che, naturalmente, al buon dio!), sono in grado di dir la propria su tutte le questioni – basta che s’informino… ? Così funziona la beneamata e benedetta “democrazia”: sapendo bene che coscienza e conoscenza sono salde in pugno a chi ha il potere (scuola, chiese, mezzi di comunicazione di massa, abitudini sociali, interessi economici, ecc.). E’ proprio questa la “democrazia blindata”, o – forse ancor meglio – la “dittatura democratica”: l’uso del consenso statistico per autorizzare l’esercizio del dominio borghese.

(vedi il nostro articolo “C’è del marcio in Gran Bretagna. Appunti sulla situazione sociale”, Il programma comunista, n.6/2015).

Le crescenti tensioni sociali in USA

“Questione razziale” o “questione sociale”? Gli assassinii a sangue freddo di afroamericani da parte delle “forze dell’ordine” che si moltiplicano anno dopo anno negli Stati Uniti e gli isolati episodi di risposta individuale che si sono verificati a luglio scorso (come quella del cecchino di Dallas che spara uccidendo cinque poliziotti) hanno, per qualche tempo, tenuto banco sui mezzi di comunicazione di massa, per poi essere risospinti sullo sfondo da altre notizie “sensazionali”. Ma la domanda resta in primo piano, in maniera drammatica. La risposta è una sola: questione sociale, o – meglio ancora – questione di classe. La condizione di un enorme settore della classe proletaria statunitense, formato per lo più da afroamericani, portoricani, messicoamericani, latinoamericani in genere, con una consistente sezione di “bianchi poveri”, sta peggiorando di anno in anno, nonostante le continue roboanti affermazioni sulla “ripresa” che, specie in occasione del rivoltante baraccone elettorale, vengono lanciate da ogni rappresentante (di destra o di “sinistra”) della classe dominante statunitense. Purtroppo, la risposta individuale è senza via d’uscita, è soltanto suicida, come ribadiamo nel testo “Usa: lotte razziali o lotta di classe?”. Ben altra prospettiva deve tornare a riaprirsi per il proletariato statunitense, se vuole rispondere all’attacco del capitale superando ogni frattura che da un secolo e mezzo viene alimentata dall’ideologia dominante con costanza e abilità: che, cioè, il problema sia per l’appunto il “razzismo”. Il “razzismo” è uno degli strumenti di dominio borghese sulla classe proletaria (uno dei più luridi fra gli strumenti ideologici e materiali messi in campo), e ciò vale per gli Stati Uniti come per qualunque altro paese, immerso nella disgregazione propria della crisi economica mondiale. La prospettiva dovrà tornare a essere quella dell’organizzazione su basi di classe, e certo non di razza, per rispondere a ogni livello all’attacco e alla repressione statale. E, a proposito di risposte immature e controproducenti, c’è un’altra questione che sta emergendo a poco a poco e che appartiene anch’essa alle strategie di dominio sulla classe: più volte, nei concitati dibattiti e reazioni dopo la sparatoria di Dallas, è tornato ad aleggiare lo spettro della “nazione nera separata”. Per quanto possa sembrare fumoso e assurdo come progetto, esso ha alle spalle una lunga storia che prossimamente ricostruiremo, per mostrarne anche le tragiche responsabilità da ricondurre, una volta di più, alla controrivoluzione gravante come un macigno sul proletariato mondiale da più di novant’anni ormai.

(vedi il nostro articolo “USA: Bolle sociali - e non solo finanziarie - in vista”, Il programma comunista, n.1/2015)

Golpe” e “contro-golpe” in Turchia

Di nuovo, ecco la dimostrazione di come la crisi economica mondiale susciti fratture entro la stessa classe dominante, contrapponendo, in lotta più o meno aperta, fazioni borghesi a fazioni borghesi. Il tema andrà ripreso e studiato ancora: ma il grave pericolo, tutt’altro che lontano nel tempo, è che il proletariato venga catturato in questa lotta non sua, che si rinnovi anche in questo modo il virus tremendo del nazionalismo. Com’è successo ad esempio in Egitto (con la frattura abilmente manovrata tra fazioni pro-Al Sisi e fazioni pro-Morsi), questo “schierarsi partigiano” ha ricadute profonde sulla nostra classe: incide in maniera tragica, menoma la capacità di lotta, prepara futuri, ben più infausti “schieramenti”. La storia l’insegna e la realtà contemporanea ne mostra la tragica evidenza, con le guerre inter-imperialistiche che insanguinano larghe regioni del mondo (dalla Libia all’Afghanistan, passando attraverso la Siria) e che già stimolano, nello stesso variegato mondo dell’opportunismo controrivoluzionario “di sinistra”, il diffondersi del nazionalismo.

(vedi i nostri articoli “Turchia oggi – I e II”, Il programma comunista, nn.1 e 3-4/2014)

Nel frattempo, i ripetuti atti terroristici, più o meno “solitari”, verificatisi negli ultimi mesi, hanno quasi fatto dimenticare il massacro quotidiano di migliaia e migliaia di civili in Libia, in Siria, in Irak, in Afghanistan, e la disperata fuga di altrettante migliaia e migliaia di civili dai teatri di guerra, attraverso mari e terre che spesso diventano bare. Questa è la civiltà del capitale nella sua massima espressione! La violenza che si gonfia giorno dopo giorno dentro il modo di produzione capitalistico sprizza poi, in maniera sempre più disturbante, da ogni suo poro. Le guerre in corso tra imperialismi per il controllo di fonti energetiche, per la competizione sui mercati, per il ridisegno geo-politico d’intere aree, stanno assumendo dimensioni catastrofiche e pongono le premesse, nella stessa Europa “giungla di nazionalismi”, di un nuovo conflitto generalizzato mondiale (si veda, nelle pagine interne di questo numero, l’articolo “Il summit Nato di Varsavia e il corridoio polacco-baltico”). La stessa funzione dell’Isis (banda di mercenari al soldo di questa o quella potenza, con funzione di destabilizzazione sia nel già destabilizzato Medio Oriente sia in un’Europa abbondantemente percorsa da fremiti nazionalistici e sciovinisti) appare sempre più chiara: soprattutto quando, come negli ultimi episodi sanguinosi, il suo richiamo si fa sentire su una manovalanza individuale, fragile, ricattabile, sensibile a una sloganistica fatta ad arte per suggestionare e mobilitare. Altro che “questione nazionale” ancora aperta, altro che “antimperialismo”, come vorrebbero alcuni sprovveduti! La febbre mortale della crisi economica mondiale si fa sentire anche qui! Aggiungiamo poi un Estremo Oriente in riarmo e un’America Latina in picchiata, e il quadro parla da solo.

***

Noi non possiamo che ribadire, di fronte a questo quadro, la necessità dell’unico strumento in grado di preparare la nostra classe a reagire, ribellarsi e porsi il problema del potere: il partito rivoluzionario. Potrà sembrare un ritornello, un mantra ipnotico. Non lo è. O si comprende l’urgenza, fin da oggi, del rafforzamento e del radicamento internazionale del nostro partito, con tutta la sua esperienza ormai centenaria di lotta all’opportunismo, al revisionismo, alla controrivoluzione che, in tutte le sue vesti, ha massacrato il proletariato mondiale. Oppure, domani, sarà davvero troppo tardi: il modo di produzione capitalistico celebrerà i propri fasti sanguinari schierando i proletari gli uni contro gli altri lungo linee nazionali (con relative sembianze ideologiche e religiose) e, nell’ennesimo tentativo di far piazza pulita dell’eccesso prodotto per riprendere a funzionare a pieno ritmo, li condurrà una volta di più al macello, mettendo addirittura in pericolo la sopravvivenza stessa dell’umanità intera.

Di questa necessità, di quest’urgenza, devono diventar consapevoli (e compito del partito rivoluzionario è di operare anche in questo senso) le generazioni proletarie più giovani, attualmente inermi e inerti, affascinate da falsi miti e drogate da mille suggestioni virtuali, paralizzate da mille paure e da mille illusioni, succubi di un’ideologia dominante sempre più becera, puzzolente e fallimentare. Devono comprendere che non c’è altra via che lavorare, con dedizione e passione, lucidità e continuità, per e dentro il partito – il nostro partito.

 

Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista)

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