DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Premessa

La riedizione della Struttura economica e sociale della Russia d'oggi è coincisa con il XXV Congresso moscovita e i “ripensamenti” di Breznev e Kossygin sul corso di un'economia le cui vicissitudini sfuggono sempre più al controllo dei suoi presunti piloti, a smagliante conferma di quanto avevano previsto i lunghi e pazienti studi compiuti dal nostro Partito sull'arco ormai di un ventennio.

Agli sviluppi più recenti dell'economia capitalistica russa sono stati dedicati quest'anno – proprio in coincidenza con i fatti sopra ricordati – numerosi articoli de "il programma comunista" (nr. 5, 6, 7, 9, 10) e lo studio, che qui riproduciamo per i lettori italiani, apparso nel nr. 69-70 della nostra rivista teorica internazionale "programme communiste". Esso riprende con grande efficacia il tema sia dei tassi d'incremento della produzione industriale, sia della pianificazione economica in Russia, per dimostrare che questi due cavalli di battaglia dello stalinismo e del post-stalinismo, lungi dal provare l'“edificazione del socialismo in URSS", seguono esattamente le leggi proprie dell'economia capitalistica e confermano che questa e solo questa è stata, in un lungo e tormentoso processo, "costruita".

La questione, per noi, non è né astratta né accademica: sulla mistificazione del "socialismo" realizzato "in un paese solo" poggia quella forma virulenta di opportunismo revisionista che trova la sua incarnazione nei partiti "comunisti" ufficiali; d'altra parte, la questione è vitale per la rivendicazione delle basi stesse della visione del comunismo e della via unica e mondiale della sua realizzazione.

A questi due compiti inseparabili – polemico e teorico-programmatico – offre un lucido contributo il saggio che pubblichiamo e che il lettore potrà utilmente completare con i testi citati più sopra.

Il mito della "Pianificazione socialista" in Russia

Se oggi [1976] è facile constatare che trent'anni di "prosperità" e di sfrenata accumulazione non hanno portato il capitalismo occidentale ad altro che alla ripresa del ciclo infernale delle crisi, le vicissitudini del capitalismo nella sua versione orientale e russa sono invece ancora mascherate dal mito dell'assenza di crisi, della "pianificazione socialista" e dello sviluppo garantito, nei paesi dell’Est.

Il triste spettacolo della "catastrofe agricola" russa – catastrofe non dovuta né al comunismo, come vorrebbero far credere i borghesi occidentali, né alle "condizioni climatiche", come vorrebbero far credere i loro omologhi russi, ma all'arretratezza capitalistica dell'agricoltura colcosiana – mostra bensì che l'economia “sovietica” non è affatto risparmiata dalla crisi, e che anzi è solo grazie al capitalismo americano, la cui agricoltura prosperava nell'atto stesso in cui l'industria era in piena crisi, che la Russia potrà mangiare a sazietà mentre pretende di essere in piena società socialista e di lavorare a "costruire le basi materiali del comunismo". Un mito tuttavia sopravvive tenace: quello della "pianificazione socialista" nell'industria, dei forti tassi di incremento che essa permetterebbe di ottenere e della equazione di base della propaganda staliniana e post-staliniana: socialismo = pianificazione e incremento frenetico. Ancor oggi, la maggioranza di coloro che arrivano a riconoscere la menzogna della pace sociale e della "prosperità" occidentale, lo fa solo per ricadere in un'altra trappola borghese, rivendicando non la fine di quest’epoca bestiale di accumulazione frenetica, ma la sua "pianificazione" al fine di raggiungere ritmi di accumulazione… ancora più elevati!

Perciò, prima di passare a illustrare la realtà della presunta "pianificazione" dell'industria russa, è indispensabile ricordare una verità elementare del marxismo nascosta sotto le macerie della controrivoluzione staliniana: il socialismo non si caratterizza per tassi smisurati di incremento; non si misura in base ai risultati dell'economia capitalistica; non è un ultracapitalismo!

Quale socialismo?

Un'economia veramente socialista se ne infischierebbe della produzione per la produzione, del "superamento" dei piani, della competizione – fosse pure economica – con il concorrente (quale concorrente, poi?). Invece di rincorrere questi obiettivi di un'epoca storicamente superata, il modo di produzione socialista cercherà non solo di produrre per i bisogni della specie, ma di permetterne il suo sviluppo armonico, di alleviarne lo sforzo produttivo, di eliminare tutte le tare ereditate dal capitalismo, in primo luogo la divisione del lavoro, che hanno imprigionato il lavoro umano nella galera produttiva del lavoro salariato al servizio della società di classe. Ciò significa che il socialismo non si "costruisce" a colpi di slogan stakhanovisti e di accumulazione frenetica; esso nasce, al contrario, dalla definitiva distruzione, ad opera della dittatura del proletariato, dei rapporti sociali e delle leggi economiche capitalistici; quindi della loro base materiale, i rapporti di produzione capitalistici.

Il socialismo è perciò caratterizzato dalla scomparsa della chiave di volta dell'edificio mercantile e capitalistico – la categoria con la quale Marx inizia l'esposizione della teoria del modo di produzione capitalistico: il valore, sinonimo di appropriazione privata del prodotto del processo di produzione. “Non appena la società entra in possesso dei mezzi di produzione e, socializzandoli immediatamente, li usa per la produzione, il lavoro di ciascuno, per quanto possa essere diverso il suo carattere specifico di utilità, diventa a priori e direttamente lavoro sociale. La quantità di lavoro sociale racchiusa in un prodotto non ha bisogno allora di essere fissata solo indirettamente; l'esperienza giornaliera indica direttamente quanto lavoro è necessario in media. La società può semplicemente calcolare quante ore di lavoro sono contenute in una macchina a vapore, in un ettolitro di frumento dell'ultimo raccolto, in cento metri quadrati di stoffa di qualità determinata. Né potrebbe quindi venirle in mente di esprimere le quantità di lavoro depositate nei prodotti e che essa conosce direttamente e assolutamente, con una misura inoltre solo relativa, oscillante, insufficiente, precedentemente inevitabile come espediente, con un terzo prodotto cioè e non con la misura naturale adeguata, assoluta, il tempo. Egualmente non verrebbe in mente alla chimica di esprimere i pesi atomici ancora in modo relativo, passando per l'atomo di idrogeno, non appena essa fosse in condizione di esprimerli nella loro misura adeguata, ossia in pesi reali, in bilionesimi o quadrilionesimi di grammo. Date le premesse sopracitate, la società non assegnerà neppure dei valori ai prodotti". (Engels, Anti-Dühring, in: Marx Engels, Opere complete, vol. XXV, Roma, Editori Riuniti, 1974, pag. 298).

Il socialismo ignora dunque le categorie mercantili che regnano sovrane nell'economia russa; non conosce il valore, perché non esistono prodotti privati; quindi neppure esiste scambio fra produttori privati e i produttori non hanno bisogno di conoscere i valori relativi dei loro prodotti; non conosce né il mercato né la merce, né, tanto meno, quella merce particolare che è la moneta; non conosce né compra né vendita; non conosce quindi la compravendita della merce forza lavoro, o salariato, che per il marxismo è soppresso sin dalla prima fase della società comunista, o socialismo; quella che, secondo l'espressione di Marx, “è appena uscita dalla società capitalistica”, e in cui il produttore individuale “riceve dalla società uno scontrino dal quale risulta che egli ha prestato tanto lavoro (dopo la detrazione del suo lavoro per i fondi comuni), e con questo scontrino ritira dal fondo sociale tanti mezzi di consumo quanto costa il lavoro corrisponderne. La stessa quantità di lavoro che egli ha dato alla società in una forma, la riceve in un'altra”. (Critica del programma di Gotha, in: Marx-Engels, Opere complete Roma, Editori Riuniti, 1969, pag. 960)

Il fatto che l'economia russa conosca tutte le categorie mercantili e capitalistiche, il fatto che i lavoratori russi siano sottomessi alla schiavitù del lavoro salariato, bastano a definirla come capitalista. Abbiamo ampiamente dimostrato nei nostri lavori di partito (1) che essa non aveva mai cessato di essere tale e che Lenin stesso lo riconosceva apertamente (la qual cosa non impediva alla Rivoluzione d'Ottobre e al potere che ne era scaturito di essere autenticamente comunisti). Per mascherare la sua vera natura, la controrivoluzione staliniana ha creato la teoria aberrante secondo cui il socialismo sarebbe compatibile con le categorie mercantili, si caratterizzerebbe per le stesse categorie del capitalismo, ma… con un contenuto diverso! Come se le categorie non si caratterizzassero appunto per il loro contenuto, come se questo contenuto non fosse inequivocabilmente quello delle categorie capitalistiche, al punto che gli stessi concetti si sono imposti per designarlo! D'altronde, questo tipo di argomento era già stato usato dall'ineffabile Dühring, al quale Engels ribatteva che “voler sopprimere la forma di produzione capitalistica mediante la creazione del ‘vero valore’ significa voler sopprimere il cattolicesimo mediante la creazione del ‘vero papa’, o voler creare una società in cui i produttori finalmente dominano il loro prodotto, dando vita, con ciò stesso, a una categoria economica che è l'espressione più piena dell'asservimento dei produttori mediante il proprio prodotto" (Anti-Dühring, ed. cit., pag. 299). Lo stalinismo ha fatto ben di peggio: ha instaurato il valore “socialista”, che significa non solo l'asservimento del produttore, ma la distruzione del marxismo.

Il piano socialista

Da quanto si è detto consegue che il piano della società socialista non si preoccuperà, come il piano russo, né di valore né, tantomeno, di moneta o di redditività dei fondi investiti. Non si preoccuperà che dei valori d'uso, dell'utilità dei prodotti, e dei tempi necessari alla loro fabbricazione: “Certo, anche allora la società dovrà sapere quanto lavoro richiede ogni oggetto di uso per la sua produzione. Essa dovrà organizzare il piano di produzione a seconda dei mezzi di produzione, ai quali appartengono, in modo particolare, anche le forze-lavoro. Il piano, in ultima analisi, sarà determinato dagli effetti utili dei diversi oggetti di uso considerati in rapporto tra di loro e in rapporto alla quantità di lavoro necessaria alla loro produzione. Gli uomini sbrigheranno ogni cosa in modo assai semplice senza l'intervento del famoso 'valore'” (Anti-Dühring, ed. cit., pagg. 298-299).

Di conseguenza, il socialismo è incompatibile non solo con la moneta, ma anche con quell'invenzione capitalistica abbrutente che è il tasso di incremento globale della produzione, che ingloba in una stessa misura, in Russia come in Occidente, gli oggetti necessari alla vita e le armi di morte, i beni di consumo utili e gli oggetti di lusso socialmente più nocivi. Anche se non è direttamente espresso in moneta, il tasso di incremento presuppone infatti il valore e la moneta, poiché il solo mezzo per comparare due produzioni globali, comportanti mille oggetti differenti, dal biscotto alla macchina utensile, è di compararne i valori, e questi non possono esprimersi che in moneta.

Senza il valore, solo mezzo universale di misura di valori d'uso diversi, senza la moneta, unico mezzo universale di misura del valore, non v'è misura, non v’è confronto possibile, e quindi neppure tassi di incremento della produzione! L'unica cosa che la società socialista potrà misurare globalmente è la quantità di ore di lavoro fornite dalla specie umana per produrre le proprie condizioni di esistenza: ma questa quantità è il suo tasso di decremento, è l'alleviamento dello sforzo produttivo della specie (che ci si potrà eventualmente divertire a misurare da un anno all'altro), oppure il socialismo non ha senso!

Ma paragonare da un anno all'altro produzioni globali di oggetti di ogni natura che senso, che interesse può avere per una società socialista? La sua produzione è guidata, come spiega Engels, unicamente dall'utilità dei vari oggetti d'uso e dalla quantità di lavoro necessaria alla loro produzione: il solo tasso di incremento che potrebbe essere materialmente oggetto di misura si applicherebbe separatamente alla produzione fisica di ogni valore d'uso; ma, anche in questo caso, che senso avrebbe? Se il fabbisogno in biciclette dell'umanità è calcolato sui 50 milioni di unità nell'anno n e sui 54 milioni nell’anno n+1, il piano dovrà organizzare questa produzione: ma che senso avrebbe gloriarsi di un tasso di incremento dell'8% annuo in materia di produzione di biciclette? Che senso avrebbe tentar di superarlo se ciò non corrisponde ai bisogni della specie? Che senso avrebbe voler produrre sempre più biciclette, dal momento che non ci sarà da ricavarne alcun profitto, da soffiare nessun mercato agli altri concorrenti (che non esisteranno più), da disputarsi nessun plusvalore con gli altri capitalisti? Se si ritiene che il fabbisogno in automezzi individuali dell'umanità debba decrescere, il piano deve organizzare la riduzione della loro produzione: ma che senso avrebbe lamentarsi di un tasso di incremento negativo, e che senso opporvisi provocando artificialmente nuovi bisogni per evitare perdite finanziarie e fallimenti, che non esisteranno più, a imprese autonome che saranno scomparse?

Il tasso di incremento non è che uno degli idoli di quella religione della produzione per la produzione che caratterizza il capitalismo e soltanto il capitalismo, allo stesso titolo dell'idolo merce, dell'idolo moneta, e di tutti i loro derivati. Il piano della società socialista non conosce né merce, né moneta, né tasso di incremento.

E il piano russo? La tabella 1, pubblicata dalla “Pravda”, riassume i “principali indicatori” del X piano quinquennale (1975-1980) annunciato da Kossygin al XXV Congresso del P.C.U.S.. A quali divinità si riferiscono questi “principali indicatori”? Al dio valore, al dio rublo e al dio aumento del valore, gli idoli venerati da tutti gli stati capitalistici del mondo. Il piano russo si determina in merce, moneta e tasso di incremento. Non occorre altro per concludere: è capitalista dall'a alla z, non v'è in esso un'oncia di socialismo!

 

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Quale pianificazione?

Dopo questo indispensabile richiamo, veniamo al “mito della pianificazione”. Conoscendo l'anarchia e il fallimento dell'agricoltura russa, è inutile attardarsi a dimostrare che in Russia non esiste la minima pianificazione della produzione agricola, completamente in balìa delle leggi del mercato nelle quali lo Stato cerca in qualche modo di intervenire (lo fa in tutti i paesi capitalistici d'Occidente, fissando i prezzi dei principali prodotti, stanziando sovvenzioni, accumulando scorte di prodotti, dirigendo il credito, ecc.). Ci limiteremo quindi al campo della produzione industriale. Il X piano quinquennale (1975-1980) adottato al XXV Congresso del P.C.U.S. prevede per il 1980 una produzione industriale del valore di 120 miliardi di rubli, con un incremento del 37% sul 1975. Come, per esempio, il piano francese, il piano russo prevede, per le principali produzioni, degli obiettivi fisici, di cui abbiamo riassunto l'essenziale nella tabella n. 2.

 

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Sull'esistenza di questi “obiettivi”, commentati in tono compiaciuto dai discorsi e dalla stampa ufficiale, si basa buona parte del “mito della pianificazione russa”. Ma in realtà essi non pianificano nulla, perché, in linea di massima, non sono che la proiezione delle tendenze registrate nel passato. Il cosiddetto pianificatore non ha nessuna presa sulla dinamica produttiva; invece di essere il padrone della macchina economica, non fa che seguirla bene o male, cercando di prevedere dove andrà; non fissa la produzione ma… l'indice, in funzione della tendenza precedente. È ciò che dimostra l'evoluzione dell'VIII, IX e X piano quinquennale per quanto riguarda i principali obiettivi fisici. Tale evoluzione è riassunta nella tabella 3, le cui colonne indicano successivamente per ogni prodotto il tasso di incremento previsto dal VII piano (1965-1970), il tasso effettivamente realizzato, il tasso di incremento previsto dal IX piano (1970-1975), il tasso effettivamente realizzato, e infine il tasso di incremento previsto per il X piano (1975-1980).

 

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Esaminiamo questa tabella linea per linea. Per la maggior parte delle produzioni, abbiamo una serie di cifre decrescenti: per esempio, per l'acciaio l’VIII piano “fissa” un obiettivo di incremento (+39% in 5 anni) che però non viene raggiunto (realizzato solamente il + 27%); il piano successivo fissa prudentemente un nuovo obiettivo inferiore alla realizzazione del precedente (+ 26%); neanche questo viene raggiunto (soltanto il + 21% realizzato); il piano ancora successivo fissa nuovamente un obiettivo inferiore alla realizzazione del precedente. È questo il caso dell'acciaio, dell'elettricità e dei trattori; per il petrolio, i fertilizzanti e il cemento, l'obiettivo del piano viene raggiunto ma la tendenza resta la medesima: in 6 casi su 9, il piano non “pianifica” assolutamente nulla, non fa che registrare e proiettare la tendenza al rallentamento dell'incremento industriale. In 3 casi su 9 (carbone, gas, automobile), con un decremento globale altrettanto netto, la serie è più capricciosa e sembra risentire di una effettiva volontà dello Stato. Ma di quali prodotti si tratta? Del carbone, la cui produzione si cerca di spingere visto che i corsi mondiali sono fortemente aumentati e che la sua esportazione può fruttare divise senza esigere nuovi sforzi tecnologici (contrariamente al petrolio); del gas, per il quale si sono firmati importanti contratti con gli Stati Uniti e la Germania; dell'automobile, le cui fabbriche sono state importate, installate e consegnate, bell'e pronte per l'uso, dai capitalismi occidentali. Insomma, quando l'economia russa è “pianificata”, lo è… per il mercato mondiale!

 

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Inoltre, se il piano russo, nella maggioranza dei casi, non fa che registrare e proiettare la tendenza della produzione abbandonata alla sua propria dinamica, la previsione di questa tendenza non vale assolutamente nulla di più che nei paesi capitalistici occidentali. Per convincersene, basta esaminare i risultati degli ultimi cinque piani, riassunti nella tabella 4. Sulle cinque serie di obiettivi successivamente fissati per le 9 produzioni essenziali, il piano è stato realizzato (con lo scarto dell'1%) 8 volte; è stato superato 9 volte – ma superamento del piano significa accumulazione sfrenata, stakhanovismo, sfruttamento intensivo della classe operaia, tutto il contrario del socialismo! Infine, la produzione è realizzata in ritardo sul piano… 27 volte, con punte massime fino al -36% (514.000 automobili in meno rispetto al piano!). Non solo, ma queste cifre non riguardano che le produzioni principali: si può ben immaginare che cosa ne sia, in tali condizioni, degli altri prodotti, per i quali la combinazione di più strozzature non può non accrescere la disorganizzazione e il ritardo. Ecco dimostrato come, in fatto di “pianificazione”, l'economia russa si dibatta in piena anarchia mercantile!

 

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L'attento esame delle cifre ufficiali rivela inoltre che, per mascherare quest’anarchia, gli studiosi di statistica non esitano a manipolare gli indici proprio come i loro colleghi occidentali. Il caso recente più clamoroso è quello dell'VlII piano quinquennale (1965-1970), Il meno che se ne possa dire è che i suoi risultati (i principali sono riassunti nella tabella 5) sono stati pietosi: il ritardo sugli obiettivi è stato di 10,5 milioni di tonnellate per l'acciaio, di 46 milioni di tonnellate per il carbone, di 35 miliardi di metri cubi per il gas, di 99 miliardi di KWh per l'elettricità , di 9 milioni di tonnellate per i fertilizzanti, di 154.000 unità per i trattori, di 514.000 unità per le automobili e di 7 milioni di tonnellate per il cemento. Ebbene, grazie a miracoli che appartengono in esclusiva al socialismo “made in Moscow”, mentre tutti gli obiettivi essenziali subivano questi considerevoli ritardi, i dirigenti russi annunciavano che nello stesso periodo l'incremento della produzione industriale aveva superato il piano, poiché aveva raggiunto il 50% in cinque anni invece del 48,5 previsto (2). Questo gioco di prestigio lascia interdetti, ma non è che una continuazione di quelli del periodo staliniano.

Lo stesso fatto che, con ritardi nettamente meno sensibili (grazie ad obiettivi più modesti), il IX piano (1970-1975) abbia conosciuto un leggero scarto rispetto all'obiettivo dell'incremento della produzione industriale (43% invece del 44% previsto) (3) costituisce una confessione implicita di trucco. È più facile pianificare… degli indici che pianificare l'anarchia capitalistica!

 

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Se passiamo dai piani quinquennali, cioè dai piani a medio termine, agli obiettivi a 10 o 20 anni, l'inconsistenza della previsione e della pianificazione russe risulta ancora più manifesta. La tabella 6 riassume la sorte delle famose previsioni fatte da Kruscev nel 1961 per gli anni 1970 e 1980. Dal 1965, è apparso chiaro che gli obiettivi fissati per il 1970 non sarebbero stati raggiunti, e l’VIII piano quinquennale ha “aggiustato il tiro” abbassandolo sensibilmente (paragonare con la tabella 5)… il che non gli ha impedito di ottenere risultati pietosi; in totale, rispetto agli obiettivi di Kruscev, il ritardo oscillava fra il 10 e il 68%, e più della metà degli obiettivi che si sarebbero dovuti realizzare nel 1970… non lo erano neppure 5 anni dopo, nel 1975. Con gli obiettivi per il 1980, il ritardo è ulteriormente cresciuto: salvo un'eccezione, gli obiettivi del X piano quinquennale sono stati abbassati rispetto a quelli di Kruscev del 10 fino al… 71% (così, nel 1980, la produzione d'elettricità non raggiungerà nemmeno la metà di quanto prevedeva Kruscev!). Oh, miracoli della pianificazione mercantile russa!

Frazionamento della produzione e anarchia capitalistica

Come si spiegano questi clamorosi insuccessi dei sedicenti “pianificatori”? Per i marxisti, la risposta non ammette dubbi: si spiegano con l'anarchia capitalistica e mercantile propria di un'economia fatta di imprese che funzionano, qualunque sia la forma giuridica della loro proprietà, secondo tutte le regole del capitale, nel quadro del mercato. Ma lo stesso Engels non aveva scritto che anche in un'economia capitalista e mercantile l'assenza di piano può in una certa misura far posto a una produzione pianificata? (4) Perché, allora, ciò non avviene in Russia? Proprio perché mancano in Russia le condizioni enunciate da Engels affinché una certa pianificazione possa iniziare a farsi luce: la concentrazione e il monopolio.

 

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In un'economia in cui la produzione è ripartita fra diverse decine di migliaia di imprese autonome, funzionanti ciascuna come centro d’accumulazione di capitale con i suoi propri conti e la sua autonomia finanziaria, poco importa che il “proprietario” giuridico sia lo Stato, il popolo o Dio padre: la produzione può essere regolata soltanto dal mercato, non da un piano centrale.

Al 1° gennaio 1974, l'industria russa contava 48.578 imprese autonome di Stato (5), e va precisato che queste cifre non comprendono né l'edilizia né le imprese artigianali ufficialmente censite né, soprattutto, le piccole imprese di fatto, che nascono ineluttabilmente sulla base del mercato e del lavoro salariato, e la cui esistenza è riconosciuta indirettamente dalla stampa sovietica: piccole officine meccaniche, imprese di riparazione di tutti i tipi, di installazione di appartamenti, ecc. La ripartizione per grandezza (in funzione del numero di operai) delle imprese industriali, di Stato è data dalla tabella 7. Nonostante l’insufficienza della statistica, si riscontra nella struttura dell'industria russa un tratto caratteristico di tutte le strutture industriali capitalistiche, cioè l'esistenza di una miriade di imprese piccole o medie (che nascono sulla base del mercato e si sviluppano a poco a poco) sovrastate da un numero nettamente inferiore di grandi imprese e da un pugno di imprese-giganti. Ma la parte della produzione industriale totale assicurata dalle imprese maggiori è ancora molto più debole in Russia (dove le imprese sono “giganti” solo per i loro effettivi) che non in Occidente, la produzione è molto più suddivisa e “sparpagliata” fra le imprese minori; in altri termini, l'industria russa è molto meno concentrata di quella dei paesi capitalistici occidentali – il colmo, per una sedicente economia “socia lista avanzata”! Bastano due cifre per illustrare la debolezza di questa concentrazione: secondo la tabella 7, nel 1973 il 61 ,5% della produzione industriale russa era assicurato dalle 5.300 imprese maggiori (somma delle ultime tre righe della tabella); nello stesso anno, negli Stati Uniti, per assicurare una parte leggermente superiore della produzione industriale (65%), bastavano 500 imprese. Un'altra tabella dell'annuario statistico russo ci informa (sempre per il 1973) che il 31,1% della produzione industriale era assicurato dall’1,4% delle imprese, cioè da 660 imprese; negli Stati Uniti la stessa percentuale della produzione era fornita da… 50 imprese! (6) La relativa debolezza della concentrazione industriale russa balza agli occhi. Sul piano economico, la struttura dell'industria americana si presta molto più alla pianificazione di quanto non vi si presti quella dell’industria russa!

La “ristrutturazione” dell'industria russa

Questo frazionamento preoccupa i managers russi, non perché impedisca una pianificazione qualsiasi, ma perché ostacola la costituzione di una industria capitalistica realmente avanzata, con imprese veramente concorrenziali che possano un giorno competere con quelle degli altri paesi capitalistici. Uno dei portavoce di questi managers, l’accademico Aganbegian, spiegava recentemente che “dare maggiore autonomia alle imprese ha senso solo se esistono imprese degne di questo nome. Le imprese sovietiche sono piccole o fragili (…) sono piuttosto delle officine che impiegano in media 600 lavoratori. Bisognerebbe concentrarle: passare dalle 49.000 oggi esistenti a circa 5.000” (7).

A questo scopo, lo Stato si è messo a “ristrutturare” l'industria russa, generalizzando, con la riforma del 1973, la creazione delle “unioni industriali” sperimentate già da alcuni anni. L'obiettivo ufficiale della riforma è di “concentrare in misura maggiore le principali produzioni di un dato ramo (...) per assicurare un aumento sensibile della produttività del lavoro, il miglioramento della qualità, la riduzione dei costi di produzione e il progredire degli altri indici economici” (8).

La concentrazione orizzontale o l'integrazione verticale vengono così realizzate mediante operazioni che – finzione giuridica a parte – sono fusioni e assorbimenti di imprese equivalenti a quelli in uso nei paesi occidentali: in particolare l'aumento del profitto (“elevare la redditività della produzione”) e la possibilità di assicurare a breve termine la competitività sul mercato mondiale (“provvedere all'avvio di nuove produzioni, in grado di competere per i loro indici tecnici ed economici con i migliori modelli sovietici o stranieri, e perfino di superarli”) (9) e, non è difficile prevederlo, con gli stessi effetti per la classe operaia, soprattutto in materia di licenziamenti. Nel 1974 c’erano più di 1.500 “unioni industriali”, che raggruppavano oltre 6.000 imprese e unità di produzione prima autonome (10) e, stando al discorso di Kossygin al XXV Congresso, il loro numero era salito a 2.300 all’inizio del 1976.

Nello stesso tempo, la riforma cerca di liberare le imprese dalle conseguenze estreme dei tentativi di pianificazione centrale, che si manifestano in una tutela burocratica pesante e costosa che, senza “pianificare” nulla, ha come unico risultato… di intralciare la loro gestione: “I ministeri e le amministrazioni (…) dovranno ridurre nell’industria la molteplicità dei meccanismi della gestione settoriale (…) in modo che la maggior parte delle questioni di ordine economico venga direttamente regolata nell’impresa, nel kombinat o nell’unione” (11).

La concentrazione delle imprese e l’alleggerimento degli intralci burocratici a una gestione capitalistica “normale” sono infatti due condizioni necessarie, benché da sole insufficienti all’ammodernamento di un capitalismo ancora in ritardo sui suoi omologhi occidentali. In realtà, la ristrutturazione industriale così intrapresa esprime una necessità fondamentale del capitalismo russo: il conseguimento di una maggiore produttività e quindi di un migliore sfruttamento della classe operaia, sia per combattere la tendenza al rallentamento della crescita economica, sia per creare delle imprese in grado di essere un giorno competitive in campo internazionale. Abbiamo già illustrato questo rallentamento in date produzioni-chiave (vedere tabella 3).

Le cifre della tabella 8 permettono di vederlo in tutta la sua dimensione storica: in un quarto di secolo, il tasso di incremento è diminuito della metà e il suo ordine prosegue regolarmente.

 

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Questo rallentamento conferma in pieno la previsione fatta vent'anni fa [negli anni ’50 – NdR] nei nostri lavori di partito (13), quando per svelare la menzogna della tesi staliniana che vedeva nei forti tassi di incremento dell'epoca la prova del preteso “socialismo” russo, dimostrammo che questo rapido incremento caratterizzava tutti i capitalismi nel periodo della loro giovinezza, e che il suo rallentamento era una legge storica ineluttabile dell'invecchiamento del capitalismo. Il capitalismo russo non è sfuggito a questa regola. Partendo da un livello di sviluppo molto basso, per di più aggravato dalle distruzioni della guerra civile, era normale che l'industria conoscesse alti ritmi di incremento, accelerati inoltre (come nella maggior parte dei capitalismi nascenti – vedi l'esempio del Giappone) dal forte impulso dato dallo Stato, e dal suo ruolo di centralizzatore del capitale; il periodo d'accumulazione staliniana è stato il periodo della formazione di un vero mercato interno, del passaggio da una formazione sociale ancora in prevalenza precapitalistica, in cui la classe operaia non formava che una parte minima della popolazione (nel 1913, il 10% contro il 76% del contadiname), a un capitalismo fatto e finito, dell'accumulazione estensiva per la formazione di un'industria rispondente a tutti i bisogni del mercato interno. Il numero totale degli operai industriali è passato da 3.900.000 nel 1913, a 12.200.000 nel 1950 e a più di 27 milioni nel 1975, cioè, rispetto al periodo precedente la rivoluzione, si è moltiplicato per 7. Il numero delle imprese dell'industria manifatturiera che impiega più di 100 operai è passato da 2.805 nel 1911 (con un totale 1.645.000 di operai impiegati) a 11.591 nel 1933 (con un totale di 4.500.000 di operai impiegati), e a più di 26.000 nel 1968 (con un totale di quasi 19 milioni di operai impiegati) (14), cioè è praticamente decuplicato rispetto al periodo precedente la rivoluzione, come è pure avvenuto per il numero degli operai occupati dalle stesse imprese. Queste cifre traducono il vero e proprio germinare di un capitalismo giovane, fiorente, che crea in continuazione nuove imprese e accumula estensivamente sulla base del plusvalore assoluto, via via che inforna nelle galere industriali le riserve di braccia creatisi nelle campagne. Quest’accumulazione estensiva continua nel periodo post-bellico (15). Dal 1959 al 1970, il numero degli operai d'industria è più che raddoppiato (a titolo di paragone, negli Stati Uniti il numero degli operai è aumentato nello stesso periodo di poco più di un quarto). Ma il ritmo di accumulazione a poco a poco decelera, nell'atto stesso in cui l'aumento del numero di operai rallenta sensibilmente. Dopo la rivoluzione, la popolazione agricola russa è fortemente diminuita, ma nel 1975 rappresenta ancora il 25% circa della popolazione attiva: proporzione ancora molto notevole (per fissare le idee, equivale a quella degli Stati Uniti verso il 1925), che dimostra fino a che punto l'insieme dell'economia russa, e quindi l'industria, trascini come una vera palla al piede l'arretratezza dell'agricoltura. Poiché questa forte popolazione agricola resta legata alla campagna a causa del ritardo agricolo e della struttura arretrata del colcos, il flusso di braccia che approvvigiona l'industria tende a esaurirsi: come dimostrano le cifre della tabella 9, gli effettivi operai dell'industria, che durante gli anni '50 crescevano a un ritmo del 4-5% annuo, durante il X piano non aumenteranno che dell'1%.

Non potendosi più rivolgere a questa struttura agraria arretrata, il capitalismo russo deve, come dicono gli economisti borghesi, cercare le “riserve latenti di produttività” che esistono nella sua industria: in altre parole, passare da un’accumulazione estensiva sulla base del plusvalore assoluto a una accumulazione intensiva, perseguire prima di tutto gli aumenti di produttività sulla base delle unità produttive già in atto, sostituire l'operaio con la macchina e, più in generale, “ristrutturare” i processi di produzione accrescendo la produttività e l'intensità del lavoro; insomma, deve cercar di produrre plusvalore relativo. Di qui le misure di concentrazione e ristrutturazione industriale che abbiamo citato, gli “esperimenti” di riorganizzazione basati sul licenziamento di manodopera, e gli incessanti richiami dei dirigenti russi e dei sindacati alla produttività, alla disciplina del lavoro, ecc..

 

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Mentre una società socialista utilizzerebbe i progressi ottenuti nella produttività per alleggerire lo sforzo produttivo della specie, in Russia l'intensificazione del lavoro deve contribuire ad accrescere la produttività per la maggior prosperità delle imprese e per il maggior bene della “economia nazionale”.

Il richiamo a un miglior sfruttamento è un vero leitmotiv che ritorna a ogni piano: “Il piano prevede un'accelerazione dei ritmi di incremento della produttività del lavoro grazie a una larga introduzione nella produzione dei risultati della scienza e della tecnica, a una maggior specializzazione della produzione e dell'organizzazione scientifica del lavoro, all'aumento della qualificazione e al rafforzamento degli stimoli economici (…) La meccanizzazione dei lavori ausiliari, l'osservanza di ritmi regolari nella produzione, il miglioramento della disciplina del lavoro, la soppressione dei tempi morti per gli operai costituiscono delle importanti fonti latenti di riserva per l'economia nazionale” (Kossygin al XXIII Congresso). “Elevare l'efficienza della produzione, ridurre il suo costo e aumentare la produttività del lavoro; tale è la via che dobbiamo seguire per accrescere i profitti (…) Nelle imprese passate al nuovo sistema, è ormai diventata regola generale pagare, attingendo al fondo di incoraggiamento materiale, un premio di fine anno in base all'anzianità, alla disciplina e alla qualità del lavoro. L'esperienza ha insegnato che questa forma di incoraggiamento contribuisce all’incremento della produttività del lavoro, alla riduzione della mobilità della manodopera, e al rafforzamento della disciplina del lavoro” (Kossygin al XXV Congresso). “Beninteso, bisogna rivolgere una particolare attenzione all'incremento della produttività del lavoro (…) Nelle imprese esistenti, la produzione deve aumentare, in generale, senza aumentare la manodopera, anzi perfino riducendola. Ma, cosa altrettanto importante, bisogna anche migliorare decisamente l'organizzazione del lavoro, eliminare le perdite di tempo durante il lavoro, e accrescere la disciplina della produzione” (Kossygin al XXV Congresso). “Alla luce di quanto detto, sono particolarmente intollerabili difetti quali lo spreco di tempo lavorativo, i tempi morti, l'irregolarità dei ritmi di lavoro, l'indisciplina tecnologica e lavorativa, l’elevata mobilità dei quadri in molte aziende” (Breznev al XXV Congresso) (16).

Come abbiamo già mostrato, la ristrutturazione industriale tende anche a migliorare le condizioni d'accesso della Russia al mercato mondiale. Ma ciò suppone che essa colmi almeno in parte il ritardo tecnologico sui capitalismi sviluppati d'Occidente: da qui le massicce importazioni di impianti (spesso sotto forma di fabbriche già bell'e pronte) che, aggiungendosi alle importazioni di cereali, pesano fortemente sulla bilancia commerciale (secondo i dati ufficiali, nei primi 11 mesi del 1975, il deficit è stato di 1,8 miliardi di rubli) (17) ed esigono forti prestiti di capitali in Occidente. Solo a questo prezzo, e soprattutto a prezzo di ulteriori sacrifici della classe operaia russa, l'industria potrà costituire imprese concorrenziali e incrementare le esportazioni: "Uno dei nostri compiti importanti è di rendere più efficienti le nostre relazioni economiche esterne. Per realizzarlo, ci proponiamo di incrementare regolarmente il potenziale d'esportazione del paese, sia per le merci tradizionali che per i nuovi articoli (...). I Ministeri e i dipartimenti debbono (…) prendere delle misure sistematiche per aumentare la produzione e migliorare la qualità e la competitività degli articoli esportati. Diventando il commercio estero un ramo importante dell'economia nazionale, si pone anche la questione di organizzare, in certi casi, delle imprese specializzate nell'esportazione per soddisfare i bisogni specifici dei mercati esteri” (Kossygin al XXV Congresso) (18).

Le implicazioni di questo programma per la classe operaia sono fin troppo chiare. La famosa competitività delle merci non significa altro che guerra economica fra capitalismi rivali: dietro le merci, ci sono infatti i proletari di tutti i paesi messi in concorrenza nello sforzo e nello sfruttamento dai loro rispettivi capitali, che non cercano di “soddisfare i bisogni specifici” di un mercato mondiale sovrassaturo di merci, ma di trarre la maggior quantità possibile di plusvalore aumentando la loro parte di mercato a scapito dei concorrenti. Più questa guerra economica diventa accanita (e la partecipazione della Russia non potrà che aggravarla), più le ferree leggi del capitale si abbattono sulla classe operaia: e queste, a Est come a Ovest, significano “ristrutturazioni” e licenziamenti, caccia ai tempi morti e agli operai “sottoccupati”, incoraggiamento della concorrenza fra gli operai mediante i premi e la differenziazione dei salari, aumento dell’intensità del lavoro e dell’abbrutimento dei proletari… Insomma, accresciuto sfruttamento della classe operaia.

Le conseguenze di questo programma così tipicamente capitalistico non si fermano qui. La crescente integrazione della Russia nel mercato mondiale significa, nell'immediato, sbocchi finanziari e commerciali supplementari per i capitalismi occidentali più potenti; ma, aiutando l'industria russa a modernizzarsi, essi non fanno che aiutare un futuro concorrente a forgiarsi le armi. In definitiva, la partecipazione della Russia al mercato mondiale significa l'arrivo di nuovi flussi di merci su mercati già regolarmente intasati, e non può quindi che contribuire ad aggravare le crisi capitalistiche mondiali; reciprocamente, più i principali rami industriali della Russia comunicheranno con il mercato mondiale, più l'industria nel suo insieme dipenderà dagli scambi esterni, più le crisi capitalistiche mondiali trascineranno l'economia russa nel loro vortice.

È per questo che la nostra conclusione sarà identica a quella di vent'anni fa: “Per il sipario, divenuto un'emulativa ragnatela, la crisi mercantile universale morderà al cuore anche la giovane industria russa. Ciò sarà il risultato di avere unificati i mercati e resa unica la circolazione vitale del mostro capitalista! Ma chi ne unifica il bestiale cuore, unifica la Rivoluzione, che potrebbe dopo la crisi del secondo interguerra, e prima di una terza guerra, trovare la sua ora mondiale " (19).

 

Note

  1. Cfr. in particolare: Struttura economica e sociale della Russia d'oggi, Edizioni Il Programma Comunista 1976; Russia e rivoluzione nella teoria marxista, Edizioni Il Programma Comunista 1990; Dialogato con Stalin (1953); Dialogato coi morti (1956); Bilan d'une revolution (1967-68).
  2. Discorso di Kossygin al XXIV Congresso del P.C.U.S., “Pravda”, 7 aprile 1971. Inoltre, la cifra 50% è effettivamente quella che esce dalle cifre dell'annuario ufficiale russo (“Narodoe Choziajstvo SSSR”).
  3. Discorso di Breznev al XXV Congresso del P.C.U. S., “Pravda”, 25 febbraio 1976.
  4. Cfr. Anti-Dühring, III parte, capitolo 2 (ed. cit. pag. 267). La questione è tutt'altro che accademica, poiché la stessa dittatura del proletariato dovrà affrontare il compito di pianificare l'economia in un quadro inizialmente mercantilistico per passare alla distruzione dell'economia mercantile.
  5. “Narodnoe Choziajstvo SSSR”, 1973. Se a questa cifra si aggiungono 300.000 imprese e fabbriche ausiliarie che ne dipendono (“SSSR y tsifrah”, 1974) si giunge a una cifra di circa 350.000 unità di produzione.
  6. Dati americani: “Fortune”, maggio 1974. Notiamo che questi confronti si basano soltanto su percentuali delle rispettive produzioni industriali, e quindi fanno astrazione dai loro livelli. Se stimiamo grosso modo il valore della produzione industriale americana nel 1973 al doppio di quella dell'industria russa, arriviamo alla conclusione che le 50 prime imprese statunitensi producono quanto le 5.300 prime imprese russe! Questo confronto – che si basa solo su ordini di grandezza – dimostra quanto sia enorme la distanza quantitativa e qualitativa tra le due economie, e quanti tormenti dovrà subire la Russia per giungere a una piena integrazione nel mercato mondiale! Per chiarire bene le idee, aggiungiamo che in Francia, nel 1970, il 63% della produzione industriale era realizzata da 1.300 imprese (“Economie et statistique”, n.53, febbraio 1974), e che in Germania nel 1972 il 63% della produzione industriale era realizzato da 1.677 imprese (“Statistisches Jahrbuch für die Bundesrepublik Deutschlands”, 1975).
  7. “L'Expansion”, ottobre 1975.
  8. Risoluzione del C. del P.C.U.S. e del Consiglio dei Ministri, “Pravda”, 3 aprile 1973
  9. Ibid.
  10. “SSSR y tsifrah”, 1974.
  11. Risoluzione del C. del P.C.U.S…., ibid.
  12. Quando parliamo di “intralci burocratici”, non ne facciamo una teoria alla maniera trotskysta, ma constatiamo un fatto. Questi intralci al "libero" funzionamento delle imprese esistono, in gradi diversi, in tutti i paesi capitalistici: basta sentire un industriale italiano lamentarsi di tutti gli obblighi e le seccature in materia di imposte, di assistenza sociale, di controlli di ogni natura, di approvvigionamenti, di prezzi dei prodotti, ecc. da parte dell'amministrazione dello Stato, che tuttavia è quello della sua classe. La disciplina – in una certa misura, beninteso – viene imposta al capitalista individuale solo per servire meglio gli interessi del capitalista collettivo: la burocrazia non ha nessuna dinamica propria (ma, al contrario, una formidabile inerzia).
  13. in particolare il nostro “Dialogato coi morti” (1956).
  14. Cifre tratte da “SSSR i zarubeznje stranj posle pobe dj velikoj oktiabrskoj revoljoutsii”, Mosca 1970. Citiamo queste cifre perché sono statisticamente coerenti nel tempo. I dati degli annuari ufficiali russi (“Norodnoe Choziajstvo SSSR”) non permettono di farsi un'idea coerente dell'evoluzione del numero totale di imprese industriali. Comunque segnaliamo che l'annuario del 1955 dava, per l'anno 1954, la cifra astronomica, aberrante per una economia decretata “socialista”, di 212.000 imprese industriali di Stato, alle quali si aggiungevano 114.000 officine e altre imprese industriali delle cooperative artigianali, 28.000 imprese industriali delle cooperative di consumo, e circa 400.000 imprese e officine colcosiane (fucine, mulini, ecc.).
  15. Valga, a titolo illustrativo, questa dichiarazione di Kruscev al XXI Congresso: “Durante il settennio, si dovranno costruire o portare a termine più di 140 grandi imprese chimiche, e risistemarne più di 130”(“Pravda”, 8 febbraio 1959). Furfanteria a parte, che cosa dimostra una simile dichiarazione? 1) Che queste imprese non sono così “grandi” come dice Kruscev, perché non ha nessun senso pretendere di installare 140 “grandi” unità chimiche (nel senso in cui se ne parla in Occidente) in 7 anni; 2) che l'obiettivo al quale si mira è di creare una vera industria chimica.
  16. Rispettivamente: “Pravda” del 10 aprile 1966, del 7 aprile 1971, del 2 marzo 1976, del 25 febbraio 1976. Il discorso Breznev si può leggere in “Relazioni Internazionali”, n. 11, 13/3/1976. Di fatto le esortazioni di questo tipo si contano a centinaia. Un ultimo estratto del discorso di Kossygin al XXV Congresso darà un'idea del livello dell'“umanesimo socialista” vantato dal suo autore: “Il ruolo dei fattori sociali nello sviluppo della produzione e nell'innalzamento della sua efficacia aumenterà fortemente durante il nuovo quinquennio. Il livello di qualificazione dei quadri, un'atmosfera di lavoro creatore e un buon clima socio-psicologico nel collettivo, la cura delle condizioni di vita dei lavoratori, la creazione di attrezzature culturali e sportive nelle imprese sono altrettanti elementi che rendono la vita dell'uomo più interessante, più ricca di contenuto, e che influiscono favorevolmente sui risultati della produzione” (“Pravda”, 2 marzo 1976). Nel falso “socialismo” russo come in Occidente, il capitale ha per i lavoratori la stessa sollecitudine che per quelle vacche da latte alle quali si fa ascoltare della musica dolce perché producano di più!
  17. “Financial Times”, 10 marzo 1976.
  18. “Pravda”, 2 marzo 1976.
  19. “Dialogato coi morti”

 

(Quaderni del Programma Comunista – N. 1, agosto 1976)

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