DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Parte prima: una storia e un bilancio

 

In questa Parte Prima, ripubblichiamo, con minime variazioni e aggiunte, il nucleo centrale di un lungo studio comparso su Il programma comunista, nei nn.7-8-9-10-12 del 1975. Le parti omesse riguardavano un’introduzione relativa alla situazione al 1975 e un esame delle posizioni dei principali “gruppi extraparlamentari”, oggi scomparsi.

 

Il proletariato nella seconda guerra mondiale e nella “resistenza” antifascista

² “Marxismo o partigianismo”, in Battaglia comunista, n. 14/1949. L‟articolo è riprodotto più avanti, nella Parte III

 

Sessant‟anni dopo

Nell‟accostarsi oggi alla Resistenza, nessuna forza politica si dispone sul terreno dell‟olimpica celebrazione  o del distacco del ricercatore storico. Si parla del passato per il presente e per il futuro. Tutti vogliono trarre dalle esperienze della Resistenza le indicazioni per un cammino attraverso le prossime, ineluttabili crisi, che indurranno a modifiche profonde nei rapporti tra le classi.

Siamo, almeno in questo, d‟accordo: è al futuro che bisogna guardare, e per affrontarlo come si conviene da posizioni rivoluzionarie è bene rifarsi alle lezioni della Resistenza. Ma non per sognarla quale sarebbe  dovuta essere. Un bel passo di Marx dice che non si possono giudicare gli uomini e i loro azioni per quel che presumono di essere (né tanto meno per l‟ideale del loro “voler essere”), bensì per quel che realmente, materialisticamente, sono. Se veramente s‟intende porsi sul terreno rivoluzionario occorre vedere quel che la Resistenza veramente fu in quanto tale, e quel che in quanto tale dovette essere. Già il fatto che, a sessant‟anni dalla sua conclusione, ci si attardi a interpretarne una sorta di significato “originario” senza aprire gli occhi sui reali rapporti di classe costruiti da allora sulle basi da essa lasciate mostra come i  problemi che ci si pone per l‟oggi nascano dal disagio per il lascito effettivo della Resistenza.

Per noi, e intendiamo dire per tutti i sinceri rivoluzionari, l‟eredità della Resistenza sta nel bilancio dei decenni di dominio capitalista post-fascista: nell‟impietosa critica marxista (che la Sinistra svolse sin dagli anni caldi che precedettero l‟episodio del partigianesimo) che se ne deve fare, a dimostrazione che nessuno dei problemi vitali del proletariato poté né potrà mai essere risolto coi metodi della Resistenza, ma solo con quelli della lotta di classe che a essa si contrappongono.

 

Certamente, il proletariato pagò, durante il fascismo, nella Resistenza e dopo, un tributo spaventoso, di sofferenze e di sangue, non per la prospettiva di restaurazione borghese aperta che dovevano additargli i partiti del centro e della destra “antifascista”, ma per confuse idealità socialiste che credette di portare a compimento sotto la guida dei “suoi” partiti: del PCI, principalmente, e del PSI.

Sorge allora il quesito: perché il proletariato seguì quelle direttive? perché fece la Resistenza? perché le forze della Sinistra non seppero (secondo alcuni) o non poterono (secondo noi) opporre un‟alternativa immediata alla direzione del movimento, presa in mano e poi consolidata dall‟opportunismo? poteva la lotta di quegli anni avere un altro corso? e a quali condizioni: dentro o fuori il quadro resistenzialista?

Sono questi i problemi cui la critica marxista deve rispondere. Ma per farlo adeguatamente bisogna risalire più addietro e rintracciare nello svolgersi di un intero arco di ciclo storico le premesse del processo politico  di cui la Resistenza non fu che l‟ultima necessaria conseguenza.

 

Dal socialfascismo ai fronti popolari

Partiamo dunque dalla prima domanda: quali le ragioni della supremazia dei partiti che definiamo opportunisti sulla classe operaia nel corso della guerra e dopo?

Se ci si ferma alle sensazioni superficiali, ci si meraviglia del fatto che il proletariato abbia potuto accordar fiducia ad un partito come il PCI che, dal crollo dell‟Internazionale in poi, ha seguito una strada accidentata di posizioni ideologiche e pratiche contraddittorie, passando con estrema disinvoltura da una posizione al suo contrario, e particolarmente dalla teorizzazione del socialfascismo a quella dei fronti popolari, dall‟apertura ad Hitler nel ‟39 al partigianesimo più acceso negli anni successivi. Ad un esame marxista dei fatti, tuttavia, apparirà subito che la contraddizione è solo formale, e che tutti “i salti” in questione hanno un minimo comune denominatore permanente. E‟ ciò che, in fondo, avevano istintivamente capito i proletari, senza però riuscire a spezzare l‟equivoco controrivoluzionario insito in esso, cioè nella concezione del “socialismo in un solo paese”, della “patria sovietica”, del carattere subordinato alle esigenze della Russia “socialista” delle lotte del proletariato mondiale. E‟ a questo equivoco che il proletariato ha sacrificato le sue migliori energie lungo tutto il ciclo controrivoluzionario apertosi nel ‟26 e culminato nel massacro imperialista della seconda guerra mondiale. Era (e rimane) lì il nodo traditore che deve essere spezzato ai fini di una ripresa rivoluzionaria decisiva a scala mondiale, giacché appunto sbandierando il “socialismo edificato in Russia” si è riusciti ad avallare su scala mondiale la versione più ignobile del riformismo e dell’adattamento allo status quo.

 

Vediamo ora di seguire l‟”evoluzione” dell‟opportunismo che ha preceduto e determinato la politica resistenzialista.                                                      ***

Le risoluzioni del PCI nel ‟30, presentandosi al proletariato col volto della massima intransigenza classista per togliere terreno sotto i piedi all‟opposizione di Sinistra (nostra e trotskista), proclamavano il carattere “socialfascista” della socialdemocrazia, che “lotta soltanto a parole contro il fascismo mentre in realtà è uno strumento del fascismo nella lotta contro il comunismo e gli elementi proletari rivoluzionari”, ed è pronta a “schiacciare il movimento rivoluzionario delle masse arrivando anche ad un accordo diretto col fascismo” (1).

E‟ solo un apparente paradosso che lo stalinismo, clamorosamente manifestatosi sull‟arena internazionale nel biennio del suo trionfo (1926-1927) con il suo accodamento alle trade unions inglesi durante lo sciopero minerario e generale, con il suo delittuoso asservimento al Kuomintang in Cina, e con la rivalutazione delle più logore correnti di destra in seno al Comintern, si sia poi lanciato nella folle politica di meccanica identificazione tra socialdemocrazia e fascismo, fenomeni convergenti, certo, nel compito di conservazione e salvaguardia del regime capitalistico, e strumenti alternativi di quest‟ultimo, ma non identificabili se non a prezzo delle più gravi sconfitte. In realtà, lo stalinismo poteva affermarsi internazionalmente soltanto a patto di sfruttare, spingendolo anzi fino all‟esasperazione, il legittimo rancore dei proletari occidentali per la funzione sabotatrice e addirittura massacratrice esercitata dai socialdemocratici in tutto il corso della crisi postbellica: doveva, molto più simile allora al centrismo che al riformismo classico, vestirsi in panni “di sinistra” per mantenere e rafforzare la sua presa sul movimento operaio mondiale, col vantaggio supplementare di potersi servire della falsa etichetta di “patria del socialismo”, in lotta per giunta contro i kulaki e i nepmen degli anni d‟oro della sua marcia trionfale. Il risultato di questa politica, che non esitava a scindere i sindacati e a scagliare i proletari comunisti contro i proletari inquadrati in organizzazioni socialiste assai più che contro gli scagnozzi di Hitler, fu di spianare la via alla pacifica ascesa del nazismo al potere e,  di rimbalzo, alla sanzione della definitiva “svolta” del Comintern in senso opposto, cioè alla sua corsa precipitosa nelle braccia non solo del socialdemocratsmo, ma della democrazia tout court. L‟apparente “estremismo” di allora, assolto il compito di riassorbire le fragili reazioni proletarie “di sinistra”, verrà insomma liquidato per lasciare libero il campo alla marcia a vele spiegate verso un‟edizione peggiorata non solo del legalitarismo, del parlamentarismo e del riformismo, ma del ministerialismo (vale a dire, la prassi, seguita da alcuni partiti della Seconda Internazionale, di accettare incarichi ministeriali in governi borghesi), come logica conclusione della “union sacrèe” resistenziale in guerra.

Di questa menzognera intransigenza, di questo falso classismo, è una delle mille prove, tanto più macroscopica in quanto coinvolgeva il contegno di fronte all‟eventualità di una nuova guerra imperialista, l‟introduzione alla ristampa de Il socialismo e la guerra di Lenin a cura del PCI nell‟emigrazione nel ‟32. Vi si predica, in apparenza, il disfattismo rivoluzionario leninista, ma nel quadro di un “patriottismo socialista” che anticipa tutte le svolte successive agitando il pericolo di un‟aggressione, patrocinata dalla socialdemocrazia e poi attuata dal fascismo, all‟URSS:

Nell‟attuale situazione internazionale di crisi profonda e di crisi imminente è utile, è necessario richiamare  alla  memoria degli  operai l‟esperienza dell‟ultima guerra […] La via indicata da Lenin è la via della lotta rivoluzionaria, e, perciò  della  lotta  implacabile contro tutti i falsificatori della dottrina e della pratica rivoluzionaria. Gli opportunisti della II Internazionale sono  diventati social-sciovinisti all‟inizio dell‟ultima guerra, per precipitare poi, con l‟aggravarsi della crisi del capitalismo, in socialfascisti. La borghesia di  ciascun paese imperialista ha l‟incondizionato appoggio dei partiti della II Internazionale in tutta la  sua politica di brigantaggio e di rapina, di oppressione e di sfruttamento. Oggi, come nel 1914. Ma, nelle circostanze attuali, l‟opera dei capi di partiti socialdemocratici è mille volte più criminale. Nel 1914, falsificando Marx ed Engels i quali avevano proclamato  che nella società capitalistica „gli operai non hanno patria‟, i social-sciovinisti avevano spinto i lavoratori al macello in nome della “difesa della patria” […] Oggi che gli operai di tutto il mondo hanno una sola stessa patria: l‟Unione Sovietica […] i  “socialisti”  della II Internazionale non solo spingono gli  uni contro gli altri gli operai dei singoli paesi capitalisti, ma sostengono e promuovono la guerra […] contro la patria socialista di tutti i lavoratori, contro l‟Unione Sovietica. […] Di fronte all‟incombente pericolo di guerra, la III Internazionale si adopera con tutte le sue forze a mobilitare le grandi masse lavoratrici di tutti i paesi sul terreno della lotta rivoluzionaria contro la guerra imperialista, per la difesa della dittatura del proletariato, del paese del socialismo. I lavoratori italiani, per la loro tradizione di elevato spirito internazionalista, non possono non rompere definitivamente con i socialdemocratici che vogliono l‟unità con la borghesia nazionale e la scissione col proletariato internazionale.

Interessi di classe del proletariato ed interessi statali dell‟URSS si identificano; patriottismo “sovietico” ed internazionalismo combaciano. E‟ con quest‟arma che lo stalinismo gioca per strangolare il movimento operaio e comunista parallelamente alla sua liquidazione in Russia. Sconfitta la rivoluzione nel primo dopoguerra, consolidatosi il potere borghese (democratico o fascista: in quest‟ultimo caso, con lo schiacciamento fisico delle organizzazioni operaie), gli occhi dei proletari restano fissi all‟URSS, il paese dove il socialismo aveva pur trionfato. Il generale ciclo controrivoluzionario non solo vale a  stroncare le forze rivoluzionarie in Russia, ma, suprema beffa!, a legare alla controrivoluzione staliniana le speranze socialiste di larghi strati del proletariato internazionale, messo nell‟impossibilità di ritrovare la sua via di classe.

E‟ questa la lezione che noi traemmo dall‟accorta messa in scena di una falsa intransigenza classista, gioco che si ripeté poi, nel „40-41, dopo l‟accordo Hitler-Stalin e prima dell‟invasione tedesca dell‟URSS, quando si ritornò a rispolverare il “disfattismo rivoluzionario” in nome degli stessi “principi” sopra enunciati. Disfattismo, sì, ma a senso unico, cioè contro i nemici che di volta in volta lo sviluppo del capitalismo in URSS e l‟ascesa di questa a grande potenza si sarebbero trovati di fronte. Ingannati dal carattere “socialista” dell‟URSS, le stesse loro “avanguardie”, a cominciare dal movimento trotskista, tradurranno, nelle  condizioni di minoranza aggravate dal conflitto, le parole di Trotsky sulla “difesa dell‟URSS” in termini  privi delle riserve e perplessità di cui le aveva circondate il loro autore: Se nell‟URSS abbiamo qualcosa da difendere, la difenderemo anche in armi, sotto le bandiere degli eserciti “antifascisti” ad essa legati…

Ma ritorniamo al film degli eventi.                        ***

Se ancora nel ‟32 la politica dello stalinismo poteva apparire come contrapposizione frontale alla socialdemocrazia, nel 1933, con l‟ascesa al potere di Hitler, si apre un capitolo nuovo e finale nella storia sia della politica statale dell‟URSS sia di quella del Comintern, e diciamo “finale” perché l‟episodio del patto Stalin-Hitler nel 1940 rimarrà appunto un episodio, quasi una parentesi nel corso reale degli eventi.

La “svolta” non è immediata. A tutta prima, l‟avvento di Hitler non comporta un peggioramento nella situazione internazionale dell‟URSS. Ma già il riconoscimento dell‟URSS da parte degli USA nel ‟33 è il segno di un mutamento che sta maturando.

“Una vittoria dell‟URSS – Una vittoria della rivoluzione mondiale”: così intitolano i giornali filo-sovietici, misurando le vittorie della “rivoluzione mondiale” sul metro dell‟inserimento dell‟URSS nel consesso internazionale del brigantaggio capitalista (decenni più tardi, ci sarà chi, scimmiottando lo stalinismo, inneggerà alla “vittoria dell‟ingresso della Cina all‟ONU”!).

Dopo l‟orgia socialfascista, si passa senza batter ciglio ai “fronti popolari”, giustificati con la necessità della lotta contro la “barbarie fascista”, nemica nrumero 1 dell‟URSS, quindi della “rivoluzione mondiale” – il che conferirebbe un carattere rivoluzionario al blocco tra forze “socialiste” e democratiche. Così si esprime Dimitrov al VII Congresso dell‟Internazionale Comunista, nel 1935:

Per la mobilitazione delle masse lavoratrici contro il facismo è in particolar modo importante la creazione di un largo fronte popolare antifascista sulla base del fronte unico proletario [!]. Il buon successo di tutta la lotta del partito è strettamente connesso all‟allenza di combattimento del partito con i contadini lavoratori e con le masse fondamentali della piccola borghesia urbana… [fronte unico e fronte popolare] sono connessi dalla viva dialettica della lotta, si intrecciano, passano l‟uno nell‟altro.

Togliatti tiene uno “storico” discorso in cui gli esegeti dell‟opportunismo rintracciano i lineamenti del futuro “partito di tipo nuovo”. La mozione finale, in cui si promette che “in caso di aggressione nazista contro l’URSS, l’Internazionale comunista lavorerà per trasformare la guerra imperialista in guerra civile, per rovesciare il capitalismo” è puro fumo negli occhi dei proletari.

Il 17 agosto 1934, a Parigi, il PCI firma un patto d‟unità d‟azione coi… socialfacisti del PSI. Vi si preconizzano i fronti popolari e la difesa delle istituzioni democratiche; PCI e PSI dovranno fare la strada assieme “nei limiti della disciplina verso le rispettive Internazionali” (!). Memoria corta? In ogni caso, alle svolte dell‟opportunismo fanno pendant quelle delle varie frazioni socialdemocratiche e borghesi: come lo stalinismo, esse hanno un unico punto di riferimento reale al di là delle messe in scena ideologiche – l‟interesse delle rispettive botteghe capitalistiche. La “mancanza di coerenza” dell‟opportunismo e  delle forze borghesi è in realtà un‟attenzione eccezionalmente sveglia per i propri interessi di cassa.

 

Dai “fronti popolari” al patto ribbentrop-molotov

Il 27 luglio 1934, altro patto d‟azione, di ben più ampia risonanza, era stato firmato tra il PC e il PS francesi. Sulla base della “lotta antifascista” si vara una piattaforma di “fronte popolare”: nelle elezioni dell‟aprile ‟36, il fronte vince e porta al governo “democratico” di Leon Blum. E‟ la prima manifestazione di rilievo del frontismo a livello governativo: l‟esperimento successivo dei CLN (Comitati di Liberazione Nazionale) e dei ministri di “unità nazionale” in Italia come in Francia è legato a questo filo.

La situazione economica del proletariato francese è intanto difficile, e l‟instaurazione del nuovo governo è preceduta dal “dilagare del più gigantesco sciopero che la Francia abbia mai conosciuto […] e che, partito dal settore metallurgico, si estende rapidamente alle varie branche di attività”, sino a coinvolgere “quasi tre milioni di lavoratori”. L‟imperativo del nuovo capo di governo “è di far cessare le agitazioni che toccano il culmine proprio al momento del suo avvento al potere, e di gettare le basi di un nuovo contratto sociale” (2). Con l‟aiuto del PCF, la cosa va rapidamente in porto. Thorez lancia la formula che lo renderà celebre: “Bisogna saper terminare uno sciopero […] e anche addivenire a un compromesso per non facilitare la campagna di panico della borghesia”. E‟ la pietra tombale sul movimento rivendicativo. Altro che lotta per la rivoluzione! Il PCF giunge a indicare come “hitleriani” “i rari operai francesi che cercano di far  convergere l‟occupazione delle fabbriche con un‟“impostazione rivoluzionaria della lotta”.

Anche qui ci troviamo di fronte a una splendida première della politica di sabotaggio e compressione delle lotte operaie da parte dell‟opportunismo in nome dell‟“unità nazionale”, dell‟”antifascismo” e in definitiva degli interessi della borghesia democratica, che poi in Italia svolgeranno egregiamente PCI, CLN e CGIL. La consegna di Di Vittorio (leader della CGIL) sarà che bisogna sapere non solo terminare, ma anche evitare  uno sciopero, se la Patria “progressiva” lo richiede! Ma Thorez va ben oltre nell‟anticipare la futura politica di fronte addirittura nazionale e patriottico. La “lotta per il pane” si identifica in lui con quella “per l‟unione del popolo francese” contro… le 200 famiglie che lo portano alla perdizione:

Si, noi siamo fieri della grandezza del nostro paese […]. Sì, noi associamo in un medesimo tributo di commossa riconoscenza la massa anonima dei contadini, degli artigiani, dei proletari moderni, e il gruppo notevole degli scienziati, degli artisti, dei pensatori e degli uomini di Stato che hanno fatto la ricchezza, la potenza e la gloria del nostro paese […] I comunisti faranno una Francia libera, una Francia forte, una Francia pacifica”, la Francia della “riconciliazione nazionale”! (3)

Rispetto al periodo della tattica del socialfacismo, la situazione del proletariato ne esce decisamente aggravata: “Se il socialfascismo fu una tattica che doveva inevitabilmente facilitare ed affiancare la vittoria  di Hitler nel gennaio 1933, la tattica dell‟antifascismo [dei Fronti Popolari] fu ancora più grave; in quanto […] si passò[…] a preconizzare l‟inquadramento delle masse nel seno dello stato capitalista antifascista” (4).

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Dire questo non significa, ovviamente, “preferire” l‟una tattica all‟altra (come ci si è voluto in taluni casi, imputare: teorici del “socialfascismo”, proprio noi!!). Da quando in qua, i rivoluzionari “scelgono” fra le tattiche dell‟opportunismo? Un‟operazione del genere non ha senso. Ha invece un senso ben preciso vedere  il grado di relativa autonomia di classe riservato al proletariato nelle varie tappe dell‟evoluzione tattica cui l‟opportunismo lo inchioda. E in questo senso ribadiamo il concetto dell‟accresciuta gravità della posizione del proletariato nella fase del frontismo “antifascista”. Che non si tratti, per noi, di fare una “scelta” (la scelta l‟ha fatta, purtroppo, e reiteratamente, la controrivoluzione!), lo attesta la nostra stessa interpretazione della continuità osmotica delle varie tattiche subordinate agli interessi, dipendenti dalla congiuntura capitalistica internazionale dello Stato russo.

Il fatto è, più semplicemente, che la tattica del “fronte popolare” si iscrive in uno stadio della controrivoluzione che vede il proletariato più che mai subordinato alla politica imperialista. Non si rimedia a una situazione del genere se non rovesciando l‟enorme base su cui si erge l‟opportunismo quale forza materiale, e dalla quale promanano le varie tattiche imposte dal suo processo di sviluppo. Non era (e non è) possibile opporre alle tattiche dell‟opportunismo una contro-tattica, né incunearvisi per farle deviare sul terreno rivoluzionario. Ci voleva (e ci vuole) ben altro che una grande capacità “manovriera” per cambiare la direzione di classe degli avvenimenti. Occorre recuperare il programma comunista agendo in piena rottura con l‟opportunismo; è questo il problema della “direzione”: non quello della manovra geniale!

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Negli stessi mesi in cui gli operai in Francia venivano ricondotti nell‟alveo delle pacifiche “rivendicazioni democratiche”, lo slancio poderoso dei proletari spagnoli, che non solo avevano impedito l‟immediato successo del golpe franchista, ma, occupando fabbriche e terre, avevano manifestato la chiara volontà di abbattere il regime del loro sfruttamento, veniva spezzato al grido di Josè Diaz, segretario generale del PCE (8 agosto 1936): “Non può essere questione oggi né di dittatura del proletariato, né di socialismo, ma SOLTANTO di lotta della democrazia contro il fascismo!”. Ma il fascismo non si vince che con i mezzi rivoluzionari: “difendere la democrazia” significò quindi non solo partecipare a governi borghesi, ma assumersene la direzione in assenza della maggioranza della borghesia abilmente squagliatasi in attesa di una decisione della lotta armata, e vincolare le sorti stesse di quest‟ultima alle ipocrisie e ai cinismi del gioco diplomatico anglo-francese da un lato, ai pidocchiosi “aiuti” dell‟URSS dall‟altro. Come stupirsi  dei massacri di proletari e militanti rivoluzionari ad opera del governo “legale” socialcomunista nell‟atto in cui iniziava in Russia la liquidazione fisica dell‟intera vecchia guardia bolscevica nei mostruosi “processi di Mosca”? Non si trattò soltanto di “disarmo” del proletariato internazionale, ma di lotta aperta contro di esso, per infine cederlo mani e piedi legati al franchismo trionfante.

E‟ troppo nota la conclusione tragica della guerra di Spagna: una spaventosa emorragia del proletariato nell‟atto in cui entravano sempre più in scena i grandi mostri dell‟odierno totalitarismo imperialistico. Se la tattica del socialfascismo aveva favorito l‟avanza di Hitler, non meno favorito, seppure per altra via, dall‟azione dello stalinismo in Spagna fu il franchismo. Quel che è più grave, il proletariato uscì dalla lotta doppiamente sconfitto per essersi schierato su un fronte non suo, ma di inserimento nella logica dell‟urto fra gli opposti blocchi capitalistici, mascherati dietro il duello ideale fascismo-antifascismo.

 

Dalla “svolta” del 1939 al luglio 1943

Non si erano ancora del tutto spenti gli scontri sulla terra di Spagna che già si sentiva l‟odor delle polveri accese dal conflitto mondiale.

Come una bomba, nel ‟39 si annunzia il “patto di non aggressione Hitler-Stalin”. Con una brusca virata, il “piccolo padre” stupisce gli alleati ingenui e i frontisti ”in buona fede”: viene a patti col “nemico numero  uno dell‟Umanità” e con lui spartisce le sfere di influenza ad Est abbandonando al loro destino i “crociati dell‟antifascismo”, oggetto dei flirts governativi e guerreschi dell‟epoca dei “fronti popolari”.

I difensori ad oltranza di quel patto gli trovano tuttora una giustificazione “comunista”: si trattava di prender fiato per meglio preparare la Stalingrado dell‟hitlerismo. Una menzogna del genere cade solo che si esamini non la diplomazia dello stato russo (che, in quanto tale, avrebbe anche potuto giocare, a parte la sua opinabilità, una simile carta), ma la politica dei partiti “comunisti” all‟indomani del patto. E‟ poco dire, in certi casi, che questa si modellò su di esso: dove si trattava di adottare una linea intervento nella situazione allora creatasi (come soprattutto in Francia), i partiti filosovietici assunsero un atteggiamento di disfattismo a senso unico, cioè contro le “plutocrazie democratiche”.

Maurice Thorez il 21 novembre 1938 ad una riunione del CC del PCF affermava: “I dittatori di Roma e di Berlino vogliono isolare la nostra patria per annientarla. Coloro che gridano „Piuttosto la rivoluzione che la guerra‟ oppure „Sciopero generale e non mobilitazione generale‟ sono completamente fuori dal marxismo. Nelle presenti condizioni di minaccia hitleriana queste frasi rappresentano un crimine contro la rivoluzione operaia [...] Di quale impudenza sono armati i trotskisti spioni che pretendono di riecheggiare la parola d‟ordine di Liebknecht „Il nemico è nel nostro paese‟! Noi dobbiamo denunciare come appoggio diretto al fascismo le calunnie contro l‟Unione Sovietica e la menzognera affermazione trotskista che tutti gli imperialismi si equivalgono ponendo così sullo stesso piano la dittatura fascista e le democrazie occidentali amanti della pace”. [...] Di punto in bianco tutto questo armamentario ideologico crollò in pezzi. Il PCF scoprì che la guerra non era che una lotta imperialista, lanciò i suoi anatemi contro le “democrazie occidentali”[...] e fu portato ad agire formalmente su un piano assai vicino a quello dei ... “trotskisti spioni” (5)

Perché diciamo formalmente?

Perché i “trotskisti”, o, meglio, le correnti rivoluzionarie sopravvissute bene o male al naufragio del Comintern, restavano fedeli al disfattismo rivoluzionario sintetizzato nella lapidaria frase di Liebknecht per il proletariato; lo stalinismo lo adottava temporaneamente, snaturandolo, a pro‟ dell‟imperialismo sovietico, al punto di assumere un atteggiamento “aperto” a Hitler:

A Parigi occupata da nazisti, il PCF nel primo periodo di occupazione veniva tollerato dal comando tedesco, l‟Humanitè era venduta per le vie della capitale con il tacito consenso della “Kommandantur” presso la quale erano in corso trattative per la legalizzazione  del giornale. [...] Thorez e Duclos, gli intemerati campioni dell‟antifascismo, parlavano dalla radio nazista di Stoccarda agli operai francesi.

In compenso, un sicario stalinista provvedeva ad assassinare Trotsky temendo che la sua voce si elevasse a indicare ai proletari la via del riscatto rivoluzionario, senza più remore di “difesa” di quel che aveva ormai da tempo cessato di essere difendibile nell‟URSS.

***

Tutte le sezioni del Comintern si allinearono prontamente alla nuova direttiva. Il caso del PCI, ridotto a sparuto nucleo all‟estero, non poté essere gravido di conseguenze visibili come quello francese; ad ogni buon conto, la sua attività venne indirizzata verso tentativi di pressione per tener fuori dalla guerra le forze statali suscettibili di modificare il quadro politico militare a sfavore dell‟URSS. Il settimanale del PCI negli USA, “L‟Italia del Popolo”, il 25 novembre 1939 proclamava: “Ogni italiano emigrato in America deve aderire ai comitati d‟azione [composti dagli elementi più vicini al fascismo e finanziati direttamente da Berlino] per tenere gli USA fuori dalla guerra”.

Anche dopo l‟entrata in guerra dell‟Italia, le cose non cambiano in modo apprezzabile. Nella dichiarazione del PCI di giugno ‟40 si riconferma l‟opposizione rivoluzionaria  del proletariato alla guerra della borghesia, si respinge l‟attacco fascista all‟Inghilterra, ma solo perché “abbattere la plutocrazia inglese è un compito del popolo inglese”. Un unico faro illumina il proletariato mondiale, l‟URSS: “C‟è un solo paese al mondo dove già regna piena libertà per il popolo”; in tutti gli altri, lotta rivoluzionaria contro le plutocrazie imperialiste! Ancor più esplicita è la dichiarazione del maggio ‟41: “La guerra contro l’Inghilterra non è una guerra per la nostra libertà, non è un conflitto tra proletari e plutocratici. Essa è una guerra tra briganti imperialisti  per l’egemonia mondiale, per la spartizione delle colonie e delle ricchezze del mondo intero”. Per i proletari inglesi si rivendica la libertà “tanto dal giogo dei plutocrati di Londra” quanto da quello di Hitler-Mussolini (6).

Naturalmente, non appena la Germania attacca la “patria del socialismo” la propaganda e le concrete indicazioni di lotta cambiano completamente di tono. Suona l‟appello del 23 giugno ‟41 (si faccia una rapido confronto con quello di maggio): “Se malgrado la vostra lotta [contro la guerra] siete inviati sul fronte antisovietico, passate in forza, con armi e bagagli, nelle file dell‟Armata Rossa”; e, in altro documento dello stesso mese: “Tutto per la vittoria dell‟URSS! [..] I comunisti italiani dichiarano che sono disposti a stringere una leale alleanza di lotta con tutte le forze politiche disposte a battersi per il governo del popolo che realizzerà le misure elencate” (fine della guerra con l‟URSS, trattative dirette con URSS e Inghilterra, ecc.). E‟ già        chiaro l‟accordo da ricercare con le forze politico-sociali interne corrispondenti al fronte esterno “democratico”, quello che, ancora in maggio, corrispondeva alla “plutocrazia democratica” di tipo londinese. Nel ‟42, il fronte della disponibilità del PCI si allarga sensibilmente. Settembre: “Se siete inviati sul fronte di guerra, passate con armi e bagagli dalla parte dell‟Esercito Rosso e degli eserciti alleati”. Una parte dei “briganti imperialisti” sta adesso a fianco dell‟URSS. E‟ quindi l‟ora di promuoverli di nuovo a “democrazie amanti della pace”, e spingere i proletari a entrare nelle file dei loro eserciti inquadrandovisi organicamente sul piano militare e politico. L‟appello del 24 novembre, volendo essere più “convincente”, usa un ottimo deterrente psicologico: “Il nostro paese si trova di fronte all’alternativa di fare la pace separata immediata con l’Inghilterra, l’Unione Sovietica e l’America, oppure di dover assistere all’annientamento di soldati italiani che si trovano in Russia, in Africa e nei paesi occupati, alla distruzione delle sue città ed al massacro della sua popolazione da parte delle crescenti e poderose forze della Nazione Unite”. Guai ai vinti! Le “crescenti forze” delle democrazie sono invocate per scongiurare le residue velleità di “difesa dell‟onore” in campo fascista. Nelle alternative dell‟opportunismo non c‟è spazio per l‟unica possibile alternativa di classe, quella rivoluzionaria. La Resistenza è ben lungi dall‟essere iniziata, ma il suo significato di affiancamento proletario alla guerra imperialista è già segnato nei documenti, preparatori del nuovo massacro, dell‟opportunismo.

 

25 luglio – 8 settembre 1943

Nessuno osa sostenere, oggi, che la Resistenza sia stata all‟origine della caduta del fascismo. Già nel ‟42 si erano aperte in quest‟ultimo le falle decisive, premesse del crollo. Il suo atto di morte definitivo è segnato dal 25 luglio, quando di Resistenza non si parla nemmeno: non da moti proletari o popolari interni, ma dalla decisiva pressione delle forze militari “antifasciste”, come non solo riconosceva, ma vantava, il citato documento del PCI.

D‟altra parte, lo stesso 25 luglio, con le sue caratteristiche di congiura di palazzo, non rappresenta la causa della caduta del fascismo, ma l‟inevitabile tirata di somme compiuta dalla borghesia a fatto compiuto. L‟andamento sfavorevole della guerra e le sue ripercussioni negative all‟interno del paese, specie fra il proletariato delle grandi concentrazioni del Nord, avevano indotto i circoli dirigenti della borghesia a  porre in atto un “provvidenziale“ cambio della guardia tale da preservare le possibilità future di perpetuazione e potenziamento del potere. Gli scioperi del marzo ‟43 erano stati il definitivo campanello d‟allarme: si può correre il rischio della sconfitta militare, ma non quello della sconfitta in presenza di una classe operaia in movimento, conservando ai vertici del potere politico gli uomini contro cui si appunta l‟odio del proletariato. Il 25 luglio è la prima risposta a questo problema.

E l‟ennesima conferma di quanto già svelato dalla critica marxista: non il fascismo aveva “sottomesso” la Nazione, governando al di sopra delle classi; esso era stato lo strumento del dominio borghese, la sua espressione formale nella situazione determinatasi nel primo dopoguerra e nella fase di lotta acuta fra concentrazioni capitalistiche. Con un colpo di spugna, la borghesia mostrava di potersi utilmente liberare della sovrastruttura fascista conservandone il contenuto irreversibile di moderno totalitarismo insito nel sistema di dominio imperialistico. Il Duce (già “uomo della Provvidenza”, per il Papa come per un Agnelli) era la marionetta dietro la quale si muoveva la macchina anonima della borghesia, che l‟aveva finanziato, investito del potere e infine, dopo averlo spremuto, sacrificato sull‟altare dell‟antifascismo.

 

E‟ perfino… patetica la protesta dei residui “fedelissimi” contro una simile manovra. Costoro avranno tutte  le ragioni di denunziare gli interessi “plutocratici” annidatasi dietro la liquidazione del duce. Non a caso, il fascismo repubblichino sorto in risposta al tradimento badogliano si ammanterà di toni “anticapitalistici” (e, naturalmente, antimonarchici): non pochi ingenui, nel nome di un ritrovato ”fascismo delle origini”, repubblicano ed anti-capitalista, aderirono, pagando magari di persona, alla farsa del “socialismo di Salò”, mentre i vari fascistissimi ben inseriti durante il ventennio al potere provvedevano in fretta e furia a cambiar pelle. Paradossalmente, furono le forze della RSI a combattere una disperata lotta di “resistenza” contro le forze borghesi egemoni promettendo in exstremis al proletariato quella “socializzazione” che se, da parte fascista, si rivelava un‟inutile stratagemma dell‟ultima ora, da parte “antifascista” era contrastata perché… demagogica in quanto il proletariato non avrebbe dovuto avanzare rivendicazioni del genere in un momento in cui urgeva la “concordia nazionale”.

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Ed ecco, col 25 luglio, Badoglio metter fine d‟autorità al PNF, ripristinare le “libertà democratiche”, permettere non solo l‟agitazione politica,  ma  l‟appoggio governativo  all‟attività  dei  partiti  antifascisti che occorre risorgano e si potenzino al più presto per assicurare la successione al  fascismo;  eccolo nominare perfino  i  “commissari”  sindacali  preposti  alla   sostituzione  dell‟apparato  sindacale   fascista di vertice, conservandone intatte le strutture e, spesso, il personale esecutivo, per un più efficace sindacalismo di stato. D‟ora in poi, condizione necessaria per l‟espletamento di ogni attività politica è l‟essere “antifascisti”. C‟è, invero,  qualche  “eccezione”:  si  tratta  dei   gruppi  politici   e   sindacali   che si richiamano ai postulati dell‟antifascismo proletario. Ad essi è negato il “diritto democratico” di espressione; non ne è permessa la stampa; non ne sono riconosciute le strutture associative. Ed è ovvio: costoro non sono sul terreno del post- fascismo borghese, erede del contenuto totalitario del fascismo nella “nuova veste” democratica: Vade retro, Satana! La borghesia ha parlato per bocca del pluridecorato dal fascismo “antifascista” Badoglio: è l‟ora dei CLN, non della rivoluzione comunista!

La “svolta” non risolve all‟immediato i gravi problemi sul tappeto. Come si era già dimostrato nella guerra di Spagna e in Francia di fronte all‟invasione nazista, l’intera impalcatura statale borghese si dimostra nulla se non interviene a difenderla la classe operaia. Il problema che si pone alla borghesia dopo il 25 luglio è appunto quello dell‟inquadramento proletario nell‟azione “nazionale”. Tra il 25 luglio e l‟8 settembre, le frazioni borghesi postesi provvisoriamente al timone dello stato italiano alla deriva non sanno prendere alcuna decisione coerente sul piano militare. L‟8 settembre segna il crollo vergognoso dell‟intero apparato politico-militare statale. Ma con l‟8 settembre si inaugura una nuova tappa della storia del potere borghese in

Italia: il “badoglismo” che ne ha retto le sorti per 45 giorni è destinato al pensionamento; entrano in scena i nuovi organi di lotta militare e di potere politico: i CLN, e, con forza di giorno in giorno crescente, il PCI, strumento principe della nuova politica.

L‟antifascismo badogliano e l‟equivoco dell‟armistizio sono finiti: comincia la Resistenza.

 

Il cln: origini e funzioni

Col 25 luglio l‟antifascismo non solo è permesso, ma diventa (nella sua versione ufficiale, nazionalista e borghese) per così dire d‟obbligo. Il governo Badoglio risuscita i partiti democratici e “operai” e questi, forti dell‟appoggio totalitario offerto dalla borghesia, con l‟argomento assai convincente delle armi “liberatrici” russo-anglo-americane e dell‟intero apparato finanziario e propagandistico del “nuovo stato” italiano e delle risorse dei colossi imperialistici, diventato partiti di massa. La ripulsa del fascismo da parte delle masse lavoratrici è incanalata, e perciò stesso deviata, in questo alveo: tutte le forze borghesi fanno blocco perché essa non possa uscirne nel ritrovato programma e Partito di classe.

I circoli capitalistici e finanziari italiani compresero perfettamente – commentavamo nel ‟47 – che soltanto spalleggiati  e protetti dagli imperialismi trionfanti avrebbero potuto validamente resistere agli eventuali moti rivoluzionari, sia con  la forza, sia polarizzando il malcontento della classe verso l‟occupante tedesco e le residue organizzazioni fasciste e promuovendo una sedicente guerra di liberazione, durante la quale fu per essi assai facile rifarsi una verginità “democratica‟” dopo il più che ventennale connubio con i totalitarismi. Il proletariato, cui difettava una coscienza politicamente avvertita, non comprese le manovra borghese e l‟intrigo che il capitalismo ordiva ai suoi  danni  gettandolo nella lotta per la “liberazione” (9)

Di fatto, pur frammezzo a episodi di sana reazione contro il personale politico esibito per condurre a termini l‟operazione, comprendente, a cominciare da S.E. Badoglio, il fior fiore del regime, il proletariato non poté andare al fondo dell‟inganno, che non stava in questo o quel personaggio del nuovo ordine democratico, ma nella unitaria e centralizzata politica borghese, condotta tra le sue file proprio dai partiti “operai” e dalla “patria del socialismo”.       

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Il CNL nacque, dopo l‟8 settembre (cioè, ancora una volta, a rimorchio delle “nuove” decisioni prese preventivamente dalla borghesia), con uno scopo esplicito fin nella dichiarazione programmatica del manifesto costitutivo: assicurare la “concentrazione della direzione della guerra” e una “larga e capillare mobilitazione del popolo”, cioè con un programma di “riscossa e rinascita” del capitalismo nazionale attraverso uno sforzo “volontario” inaudito del proletariato.

Scrivevamo nella nostra “Piattaforma politica del Partito (1945)”, condensando  quest‟esperienza:

I comitati di liberazione nazionale storicamente e politicamente si richiamano a finalità e scopi contrari alla politica ed agli interessi proletari. Di fatto, non possono nemmeno vantarsi dell‟abbattimento del fascismo. L‟azione clandestina svolta contro il regime fascista ebbe ed ha per coefficienti effettivi le reazioni spontanee ed informi di gruppi proletari e di scarsi intellettuali disinteressati, nonché l‟azione e l‟organizzazione che ogni Stato ed esercito crea ed alimenta alle spalle del nemico, e solo in minima parte l‟influenza dei caporioni politici, vecchi politicanti svuotati o nuovi avventurieri a disposizione di qualunque forza appaia lanciata al successo, venuti fuori come mosche cocchiere subito dopo l‟arrivo dei vincitori per il pronto accaparramento delle posizioni di beneficio. In realtà, la rete che i partiti borghesi e pseudoproletari hanno costituito nel periodo clandestino non aveva come scopo l‟insurrezione partigiana nazionale e democratica, ma solo la creazione di un apparato di immobilizzazione di ogni movimento rivoluzionario che avrebbe potuto determinarsi al momento del collasso della difesa fascista e tedesca (10)

Il CLN aveva i suoi antecedenti “storici” nella politica di coalizione interclassista e “democratica” precedentemente svolta dalle direzioni dei vecchi partiti, ridotti a larve prive di vita prima del capovolgimento di fronte borghese del 25 luglio. Lasciamo la parola allo storico di origine picista G. Trevisani: “Un primo comitato d‟azione per l‟unione del popolo italiano era sorto in Francia nel settembre ‟41. Comitati del Fronte Nazionale si erano creati illegalmente in Italia tra il novembre ‟42 e la primavera del ‟43; un comitato Nazionale delle correnti antifasciste si era costituito in Alta Italia nei primi mesi del 1943 e si era rivelato pubblicamente [sic!] il 26 luglio. Da esso sorse, il 9 settembre, il Comitato Centrale di Liberazione Nazionale” (11).

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Molto fervore ma poco lavoro solido, finché non viene il là dalle forze borghesi: il CLN si “rivela” il 26 luglio e “nasce” il 9 settembre. Il classico giorno dopo, a conti già fatti e per eseguire la politica indicativa  dal potere capitalista, mai venuto meno (altro che vuoti di potere!) né prima né durante né dopo le “fatidiche” date della “nuova” storia. “Mobilitare il popolo”: ecco il proclama del CLN; e, del popolo, chi se non i proletari? E per che cosa se non per “la patria di tutti” (operai e padroni)? “Oggi – proclama il manifesto del CLN del 9 settembre – per i figli d’Italia c’è un solo fronte: quello contro i tedeschi e contro la quinta colonna fascista. Alle armi!”. Si vuol rispondere preventivamente ai proletari che istintivamente sentono che esiste un altro fronte, quello della lotta tra capitale e lavoro. S‟incaricheranno le forze politiche “operaie” di tenerli buoni, convincendoli a “sospendere” le ostilità di classe di fronte all‟obbiettivo “supremo” di salvare la patria.

A ciclo militare concluso, saranno gli stessi picisti a “lamentare”, con gesuitica faccia di bronzo, che i CLN abbiano sì “potuto realizzare un’efficace concentrazione della direzione della guerra, una larga e capillare mobilitazione del popolo”, ma che “il rinnovamento della direzione politica del paese […] non sia riuscito a consolidarsi e a svilupparsi dopo la fine della lotta ramata, a causa dell’azione di sabotaggio dei partiti di destra” (Trevisani, op. cit.). Ma è un puro artificio retorico (anche se, purtroppo, passato nel proletariato come “prova” della “fedeltà” inconcussa del PCI alla prospettiva del “rinnovamento sociale”!): non si può scindere una fase militare da una fase civile, o la lotta “patriottica” dai suoi contenuti sociali; non si può parlare di un prima nazional-unitario armato e di un “auspicabile” dopo social-progressista! Accettando il patto costitutivo del CLN, e avendolo anzi promosso e cementato, il PCI ed il PSI ne accettavano automaticamente il contenuto interclassista, quindi borghese, in toto; accettando il fronte con i rappresentanti delle classi al potere, ne accettavano forzatamente il piano di conservazione sociale, e se mai fosse vero che  la “guerra di liberazione” contenesse in sé delle possibilità di rigenerazione progressista della vita politico- economico-sociale da guadagnare attraverso una serie di spostamenti di forza nell‟ambito stesso della lotta armata, tanto più colpevoli sarebbero i partiti “operai” di averlo impedito legando il proletariato ad un programma minimalista di fronte interclassista (il minimo comune denominatore unifica di necessità attorno al minimo comune: e che cosa poteva e può esserci di comune, fra i borghesi e proletari?)

 

La rinascita sindacale

La stessa funzione di “apparato di immobilizzazione di ogni movimento rivoluzionario” per cui era stato creato il CLN si ritrova nel movimento sindacale di marca ciellenistica, per lo specifico compito di  intervento fra le masse operaie ai fini del loro inquadramento militare, con la contemporanea rinuncia ad  ogni azione rivendicativa di classe.

I grandi scioperi del ‟43 non furono emanazione diretta né dei partiti antifascisti né delle organizzazioni sindacali antifasciste, che (nel caso del PCI) vi si innestarono o (nel caso della CGL) ne rimasero del tutto assenti: furono l‟espressione dell‟erompere spontaneo delle esigenze elementari della classe operaia, stretta nella morsa della guerra e della fame; esigenza sia di carattere economico (aumento delle razioni-base, aggancio dei salari al costo della vita, minimo orario mensile di lavoro garantito), sia di carattere politico immediato (lotta per la pace). In “teoria”, la strada era aperta a tutte le soluzioni: in pratica, l‟enorme macchina dell‟imperialismo democratico e “socialista”, giocando sul legittimo odio operaio contro il fascismo, fece sì che la parola d‟ordine “lotta per la pace” fosse completamente stravolta e cancellata: “la lotta per la pace”, spiegarono gli opportunisti (lo ripetono oggi e lo ripeteranno domani), “non è possibile ottenerla altrimenti che con la lotta contro il fascismo che ha voluto la guerra, e contro la borghesia che ci ha guadagnato”. Contro quale borghesia, dal momento che essa si prepara ad entrare nel girone “democratico”? E‟ così che “la lotta per la pace” si trasforma in lotta… per la guerra, a fianco della borghesia nazionale.

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Gli scioperi del ‟43 furono il primo e ultimo atto di spontaneità non preventivamente controllata. Col 25 luglio, tramite Badoglio, la borghesia e l‟opportunismo si apprestano a prevenire ogni situazione del genere, considerandola un‟eventualità troppo pericolosa. Non parleremo noi; diamo la parola a un insospettabile documento ufficiale sulla nascita (o rinascita) del sindacalismo libero:

Nel 1943, con la caduta del fascismo, il governo di Badoglio nominò dei commissari incaricati di prendere la direzione dei sindacati fascisti [né più né meno che un cambio della guardia!]: a questo punto furono designati i principali esponenti del vecchio movimento sindacale libero [e] da questa base partirono gli esponenti delle diverse correnti che facevano capo ai partiti democratici, e subito dopo l‟8 settembre si preoccuparono di creare un unico organismo sindacale. [Infine,] il 6 giugno 1944 il “Patto di Roma” era stipulato e si affermava l‟idea dell‟unità sindacale (12).

L‟unica opera concreta cui si dedicarono i dirigenti sindacali “unitari” fu, ancora una volta!, quella di mobilitare i proletari e far loro tirare la cinghia, non più in nome del fascismo, ma (pur se dalle stesse sedi, affidate loro in custodia da Badoglio) in quello dell‟antifascismo, dell‟immancabile “progresso” futuro (molto futuro, a dire il vero: prima la liberazione, poi la ricostruzione, solo poi il miglioramento delle condizioni economiche!).

Non diverso significato ebbero le altre iniziative “guidate”, quali i Consigli di Gestione stabiliti dal CLNAI con decreto 17 aprile ‟45: essi, commenta soddisfatto lo storico sindacale, “ebbero una funzione decisiva nella rapida ripresa produttiva; una funzione sovente apprezzata e sollecitata dagli stessi padroni delle aziende”!

Il carattere collaborazionista (politico, sociale e militare) del “rinato sindacalismo” è reso di  evidenza palmare dal diverso peso e dal diverso orientamento d‟azione al Nord e al Sud. “Durante il  governo Badoglio – scrive il Trevisani – l’attività sindacale poté esplicarsi in misura molto limitata e con estrema fatica” (e ti credo!, i sindacati “nuovi” non erano certamente stati creati per un‟azione sindacale; quanto alla mobilitazione di guerra, si dovrà aspettare l‟8 settembre: di qui la mora del sindacato, che segue la curva discontinua dell‟azione della borghesia). Dopo l‟8 settembre, finalmente, “si fece molto” (collegamento fabbrica-movimento partigiano, salvaguardia degli impianti… come comandavano le esigenze bellico- politiche della borghesia riverniciatasi di antifascismo). Questo al Nord.

Al Sud, dove imperversa la democrazia anglo-americana e la situazione è già di post-fascismo, dove le masse operaie si trovano coi loro immediati problemi alimentari di fronte a un governo antifascista, ai “liberatori” antifascisti, a sindacato e partiti antifascisti, che cosa succede? Qui, lamenta il Trevisani, ci fu “la perdita del carattere unitario del movimento sindacale”, e, con l‟abituale intelligenza degli stalinisti, spiega che ciò si dovette oltre che alle “cricche e clientele trasformiste” (in realtà già trasformatesi in antifasciste per raggiungere Badoglio e CLN!) all‟“azione dei trotskysti che riuscivano a mettere in piedi delle organizzazioni sindacali dirette da una centrale di provocatori con sede a Salerno” e a cui solo la concorde azione unitaria di tutti gli antifascisti “veri” (dal comando angloamericano a Palmiro!) poté infliggere un colpo decisivo.

 

L‟episodio cui si riferisce il Trevisani è quello della costituzione al Sud fin dall‟ottobre-novembre ‟43, ad opera di militanti operai non aggregati al carrozzone ciellenitico, della CGL come ritorno al sindacato di classe: un‟iniziativa di base largamente sentita (vi aderirono infatti anche molti aderenti ai partiti del CLN) e rispondente alle necessità di difesa degli interessi immediati del proletariato che i ciellenisti sacrificavano sull‟altare della guerra “santa”. Gli “scissionisti” avevano la grave colpa di affermare (Convegno di Salerno del febbraio 1944) che “le sorti della classe lavoratrice sono strettamente legate ad una radicale trasformazione della società, trasformazione basata sulla socializzazione dei grandi mezzi di produzione e di scambio”, e di non riconoscere “alcun programma di ricostruzione nazionale che tenda a rivalutare la proprietà privata ed a ricostruire il privilegio del capitale sul lavoro”. La CGL meridionale si batté non solo con la propaganda attraverso il foglio “Battaglie sindacali”, ma con la mobilitazione reale non per la guerra imperialista, ma per la difesa degli interessi operai. L‟opportunismo si avventò come una jena contro quest‟azione che comprometteva il suo ruolo di garante dell‟ordine  sociale in mezzo al proletariato, e arrivò a tutto pur di distruggerla: dalla convocazione di un contro-convegno a Bari, alla costituzione di una Confederazione provvisoria (anticipante la nascita di un sindacato unitario, che non aveva alcuna fretta di uscire allo scoperto in momenti poco indicati!); infine, esauriti i mezzi pacifisti, calunnia sistematica compresa, giunse a sollecitare dalla democrazia anglo-americana il divieto degli scioperi per paralizzare l‟organizzazione, e ottenere la revoca dell‟autorizzazione a pubblicare “Battaglie sindacali” al pari degli altri fogli indesiderati. (13)

Come nel caso degli scioperi del Nord nel ‟43, così in quello della CGL del Sud, ci troviamo di fronte a manifestazioni di una tendenza spontanea in alcuni settori della classe a ritrovare la propria via maestra, cosa che non poté verificarsi a causa dell‟ampiezza del ciclo controrivoluzionario e del mostruoso apparato politico-economico-militare che lo sorreggeva, che aveva distrutto l‟Internazionale ed eliminato dalla scena storica lo strumento indispensabile della riscossa proletaria: il Partito. Ciò dimostra una volta di più come  non esista alcun automatismo fra crisi, guerra e soluzione rivoluzionaria, e come nel „43-‟45 mancassero non solo la direzione del movimento delle masse, ma gli elementi indispensabili per dare all‟organo-Partito la possibilità di agire in quanto tale, e quindi di rappresentare lo strumento direzionale rivoluzionario.

Non ci fu, come diremo in seguito, alcun ritiro nella torre d‟avorio da parte degli elementi comunisti rivoluzionari e, in primis, della Sinistra che in quegli anni ritesseva le sue fila. Ci fu, al contrario, un‟attiva partecipazione a battaglie che permettevano di aprire degli spiragli di classe, dagli scioperi del ‟43 alle lotte per un sindacato classista nel Sud. Ma tale partecipazione, pur tenace, non poteva né colmare il vuoto che lo stalinismo aveva aperto nel proletariato, né contrastare il processo di aggressione ideologica e fisica dell‟imperialismo internazionale coalizzato. Pur non rinunciando in nessun momento a intervenire nel moto spontaneo, la Sinistra non poteva che compiere uno sforzo massimo di comprensione del fenomeno sociale, per reimportare in strati forzatamente super-minoritari della classe l‟indispensabile coscienza rivoluzionaria. E ciò proprio per non compromettere la stessa ripresa, non immediata (ché tanto era impossibile) ma futura, della classe.

 

La “svolta di salerno”

Dopo la svolta dell‟8 settembre, col capovolgimento di fronte e lo spappolamento della vecchia struttura dell‟esercito fascista, i tempi incalzavano: se per l‟imperialismo anglo-russo-americano la vittoria era ormai conseguita sostanzialmente su scala generale, e non rappresentava più un problema conquistare (pardon… liberare!) il suolo italico, esisteva il problema di controllare, con un‟azione preventiva, il dopoguerra (problema comune tanto a esso che alla borghesia italica fattasi antifascista). Se Yalta verrà soltanto alla fine della guerra a sanzionare la nuova divisione del mondo fra i pescecani imperialistici, lo “spirito di Yalta” era già da tempo operante. E‟ appunto in questo spirito che gli alleati, riunitisi a Mosca, affermano, il 30 ottobre ‟43, “il diritto dell’Italia a riconquistarsi la libertà”, cioè a spargere il sangue dei suoi figli… proletari per reinserire la sua borghesia nel consorzio internazionale dei mercati “antifascisti”. Il 24 novembre il nuovo governo Badoglio si riunisce per aprire la via a tale compito. Il 28 e 29 gennaio si tiene a Bari il 1°  Congresso del CLN del Sud per il controllo della situazione in territorio “liberato”, ed emana un comunicato che fa eco agli ordini delle centrali imperialiste: “Il Congresso si riunisce mentre si scatena la battaglia decisiva che darà la vittoria alle Nazioni che si sono battute sotto la bandiera della libertà. [L’Italia] non può risorgere a Nazione libera […] se non provando con il sacrificio dei suoi figli come sia stata trascinata contro la sua volontà all’alleanza con la Germania”. Agnus Dei qui tollis peccata mundi… Proletari, al macello! Manca un ultimo tocco per giungere alla mobilitazione generale: il superamento della pregiudiziale istituzionale. Se ne preoccuperà, portando fresche fresche da Mosca le direttive, Palmiro Togliatti.

 

Dopo essere stato docile strumento dell‟Internazionale degenerata nell‟opera di “bolscevizzazione” del PCd‟I, tanto da rompere con lo stesso Gramsci carcerato, non più in odore di santità a Mosca; dopo essere stato il big nazionale della teoria “socialfascista” e di tutte le successive svolte, costui era stato definitivamente consacrato a Mosca quale “elemento giusto” e, prima di rientrare in Italia, aveva tenuto per circa 2 anni da Radio Mosca conversazioni con gli italiani intese a ritessere, al momento opportuno, un filo con le masse sul terreno opportunista.

Non occorre altro per mettere in moto l‟apparato scenografico a disposizione delle potenze antifasciste, e lo sconosciuto Palmiro può tranquillamente diventare “il nostro amato capo”, l‟“eroe” di turno al servizio della demagogia borghese. E‟ il classico personaggio di primo piano costruito a tavolino, per il diletto delle masse, dalle forze della controrivoluzione. Egli approda in Italia il 27 marzo e di lì a meno di un mese, il 21 aprile, è varato il primo governo di unità nazionale (Croce, Sforza, Rodinò, Togliatti e Mancini ai vertici), tanto frutto della “spontanea volontà popolare” da essere stato riconosciuto in anticipo, il 14 aprile, dall‟URSS.

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La cosiddetta “svolta di Salerno” non rappresenta, in effetti, alcuna rottura con la politica precedentemente svolta dai partiti “operai” e dal PCI in primo luogo. Ne sanziona soltanto, con estrema consequenzialità, i caratteri. Socialisti ed azionisti che allora s‟impuntano rientrano poi docilmente nell‟ovile indicato da Togliatti, dimostrando con ciò la superficialità del loro contrasto con l‟ecumenismo pro-monarchico di Palmiro. Del pari, se può essere vero che persino alcuni dirigenti del PCI fecero per breve ora le bizze, lo è altrettanto che si piegarono alla svolta perché si erano già precedentemente piegati alla generale politica controrivoluzionaria di Mosca, di cui quella del “grande capo” non era che un riflesso.

E‟ perfettamente ridicolo contestare la politica togliattiana, come fa l‟immancabile Corvisieri sulla base del suo “carattere esterno alla dinamica della lotta politica che andava svolgendosi in Italia” e del suo essere in contrasto con il “processo di radicalizzazione, di spostamento a sinistra che portava a considerare sempre più inaccettabili non soltanto l’idea stessa della subordinazione al re e a Badoglio, ma financo l’antidemocratica pariteticità del CLN che non rifletteva i reali rapporti di forza esistenti nella Resistenza” (7). Il Corvisieri ha il piccolo difetto di non vedere il nesso tra lotta spontanea e direzione politica, e di non considerare che i “reali rapporti di forza” stanno realmente da una parte solo se c‟è l‟organo politico (il Partito) a indirizzarli in senso rivoluzionario. Come tutti i suoi compari d‟ultrasinistra (ieri come oggi), egli non vede che il carattere opportunista della lotta era già bel completo nel suo inserimento nella logica imperialista di guerra, nel carattere “nazionale” della politica ciellenistica, nel già conseguito ingabbiamento del proletariato (italiano e internazionale) in tale quadro, che la cosiddetta “svolta di Salerno” ebbe, da quel punto di vista, il merito, semmai di rendere più conseguente.

Un altro storico “surrealista”, Renzo Del Carria, deve riconoscere che “è però altresì vero che la svolta di Togliatti sbloccò la situazione, aprì nuove possibilità alla lotta contro il fascismo e, quel che è più importante, mise in moto larghe energie popolari al sud e al nord d’Italia” – il che è perfettamente esatto nel quadro della logica “resistenzialista” (di cui, se Togliatti è padre, costoro sono i degni figlioletti, magari discoli). Il De Carria lamenta, al massimo, che “tale svolta non costituì l’inizio e la prima mossa di un più ampio disegno politico di classe [!!!]… ma fu invece quello che del resto Togliatti proclamò ed ha sempre ribadito che fosse, e cioè un inserimento, che voleva divenire strategico e permanente, della classe operaia nella società civile borghese e nella sua direzione di governo” (8) (e non è questo il più ampio disegno dell‟opportunismo?). L‟interrogativo che gli amletici ultrasinistri continuano a porsi è: “Come mai l‟opportunismo non dirige la rivoluzione?” Ce n‟è di che occupare delle “teste pensanti” come le loro!

 

Il pci contro il “radicalismo”

Aveva ragione Pajetta quando, in una recente “lezione” sulla Resistenza, proclamava che se il PCI si fosse attenuto ai “desiderata” degli attuali ultrasinistri da “resistenza rossa” od anche di certi intemperanti socialisti ed azionisti di allora, riluttanti ai compromessi togliattiani, si sarebbe ridotto alle dimensioni di un insignificante “gruppetto” tipo (indovinate un po‟)… i bordighisti. Tradotta in termini marxisti, e quindi capovolta rispetto alla sua apologia dell‟opportunismo, l‟affermazione di Pajetta significa questo:

  • La situazione generale, nazionale ed internazionale, non consentiva brusche svolte rivoluzionarie all‟immediato (e chi si attenne, come noi, ad un programma coerentemente rivoluzionario per forza di cose dovette restare “minoritario”). Senza contare il fattore soggettivo di un antifascismo in molti strati puramente democratico (la rinnovata “fame di democrazia” fu, noi sostenemmo, il peggior sottoprodotto del fascismo e valse ad incatenare non solo borghesi, ma anche fior di proletari), senza contare questa disposizione soggettiva delle masse assai meno rivoluzionarie di quel che sembrino credere gli attuali ultrasinistri, resta il fatto del pressante controllo politico e militare della situazione da parte dell‟imperialismo (quello USA e, aggiungiamo noi, benché in subordine, quello russo);
  • Il compito affidato al PCI dalla centrale da cui esso emanava come riconosciuta (ed inquadratissima) forza politica non era in ogni caso quello rivoluzionario, e qualunque eventuale “velleità” delle sue dirigenze, se mai ci fosse stata, e non c‟era, di porsi su quel terreno sarebbe stata pagata con la subitanea eliminazione politica e fisica dei “ribelli”; ogni “avventura” rivoluzionaria avrebbe incontrato il pronto intervento manu militari dell‟imperialismo coalizzato, anglo-americano, russo e nazi-fascista. Come mostra la Comune di Parigi, le forze della borghesia, l‟un contro l‟altra armate, sanno fare all‟occorrenza fronte comune contro il VERO, UNICO, STORICO NEMICO DI CLASSE: IL Il gioco, con la complicità dei luogotenenti di Stalin, era fatto: lasciamo agli altri di sognare un PCI nato dalla “bolscevizzazione” stalinista che “avrebbe potuto” prendere in mano la bandiera classista e rivoluzionaria del proletariato! Chi non sa stare nel solco della storia, si masturbi pure con la favolistica.

Le “ipotesi” di uno sbocco rivoluzionario nelle condizioni date di quegli anni trascurano oltre tutto il fatto  che tali condizioni non erano accidentali, ma si inserivano ormai in un quadro strategico borghese perfettamente conscio dei fattori politico-sociali della situazione. Credete davvero che la borghesia italiana post-fascista e, soprattutto, le forze della borghesia internazionale che le stavano dietro avrebbero varato un 25 luglio e un 8 settembre di tutt‟altra impronta, un CLN rifornito di mezzi militari e propagandistici da mettere a disposizione di un proletariato effettivamente in armi per la SUA causa, con il SUO partito alla direzione della lotta rivoluzionaria? E‟ un disastroso avvio “comunista”, quello che conta, per le proprie vittorie, sulle sviste storiche della classe avversa!

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Varato il primo governo a compartecipazione picista, il togliattismo dimostrò subito di volere e sapere assolvere puntualmente il compito affidatogli, quello cioè di stroncare l‟estremismo, e a questo fine sguinzagliò tutti i suoi cani di scorta (tutti, i “duri” alla Secchia in prima linea). Non era una novità, per un partito che già nel ‟38 aveva emanata la direttiva di liquidare (non coi fiori…) “trotskisti e bordighisti”. Restiamo ai documenti ufficiali del PCI.

“L‟Unità”, edizione per il Sud, del dicembre ‟43, ammonendo contro “il pericolo delle impazienze”, così scriveva:

Da molti lavoratori ed anche da certi nostri compagni ci proviene l‟accusa di essere “troppo blandi” […]. Certo noi non possiamo continuare all‟infinito ad accettare la responsabilità di una situazione che si aggrava ogni giorno […] ma non possiamo neanche disconoscere che la necessità essenziale resta pur sempre quella di vincere la guerra contro il  nazismo e il fascismo […] né le conseguenze che da questa necessità derivano.

E la Relazione per il V Congresso del PCI (1945):

L‟orientamento delle nostre organizzazioni nelle varie province [in particolare del Sud] continuò ad essere ancora per molto tempo […] estremamente settario. Molti fra i vecchi quadri locali del partito respingevano decisamente la politica di unità nazionale e ponevano come compito fondamentale l‟organizzazione di formazioni armate che scendessero in lotta per conseguire immediatamente obbiettivi socialisti. […] Quando […] giunse in Sicilia, nelle Calabrie e nelle Puglie l‟opuscolo del compagno Spano “I comunisti e l‟unità nazionale contro l‟invasore” […] esso fu accolto da alcuni con scetticismo, da altri addirittura con indignazione. […] Il nostro partito non era infatti ancora sufficientemente solido […] e la sua direzione poteva difficilmente resistere all‟accusa […] di essere più a destra di Benedetto Croce […] I nostri compagni dirigenti furono costretti a battersi contro gli elementi estremisti i quali parlavano niente di meno [!!] che di dichiarare deposta la monarchia e di erigere il CLN a governo provvisorio.

Chiara o no la funzione del PCI? Per chi non l‟avesse capita, aggiungiamo queste altre inequivoche parole  dal numero dell‟”Unità” sopra citato:

Il nostro partito ha acquistato su scala internazionale, in questi ultimi venti anni, un ricchissimo patrimonio ideologico originato da un‟esperienza coerente che va dalla collettivizzazione al patto germano-sovietico, DALLA  FUCILAZIONE DEI TROTSKISTI RUSSI alla battaglia di Stalingrado, dal fronte popolare alla guerra attuale dei partigiani. […] Ora, ci sono nel partito [dei compagni che] non hanno acquisito questo patrimonio e che considerano ancora in buona fede il trotskismo come una corrente della classe operaia malgrado che mille episodi [come no? I “processi di Mosca”!] abbiano dimostrato in tutti i paesi, che il trotskismo è un‟‟agenzia di spionaggio, di sabotaggio e di diversione contro il movimento operaio.

No comment!

 

***

L‟ordine impartito da CC del PCI fu unanime in questa direzione: morte all‟estremismo! Il PCI aveva ricevuto questo compito da svolgere e, perdio!, l‟avrebbero svolto. Stretto d‟assedio da ogni parte, e non da allora, il proletariato non poteva rompere le catene che gli impedivano di raggiungere il proprio programma e la propria organizzazione di classe. Né la rivoluzione né la creazione di un forte partito potevano, in queste condizioni, essere all‟ordine del giorno. Generosi compagni rivoluzionari che per questa prospettiva  lottarono (e ci sia permesso ricordare i nostri Atti e Acquaviva) caddero sotto il piombo stalinista made in Italy su commissione internazionale. Nessuna forza venne loro in soccorso. I più “aperti” fra i ciellenisti sparsero, al massimo, qualche lacrimuccia sui “malaugurati incidenti”, belando “pace agli uomini di buona volontà”; non potevano certo infrangere, per questo, il patto controrivoluzionario su cui si basava la loro  unità col PCI, perché lo scopo era uno: ricostruzione nazionale, rafforzamento del sistema borghese in veste democratica. Il proletariato rivoluzionario, ridotto allora a minime (lo permettesse la grammatica, diremmo minimissime) avanguardie, fu, come sempre è stato, e sarà, SOLO contro il fronte comune borghesia- opportunismo, contro i suoi esponenti “umanitari” come contro i suoi boja; e sa che i secondi non sono che la longa manus di uno storico, impersonale programma comune ad entrambi.

Ci vuole una buona dose di coraggio per rimproverarci di non aver partecipato a questa lotta armata: non i metodi delle armi ci dividevano da essa, ma le finalità. Unico “partigianesimo” nostro, ieri e sempre: la lotta armata del proletariato per se stesso.

 

La “linea di sinistra” nella resistenza

Si deve principalmente alla storiografia “neoresistenzialista” extraparlamentare la riscoperta dei fenomeni di organizzazione spontanea a indirizzo politico genericamente rivoluzionario nel corso della Resistenza e di dissidenza all‟interno del PCI. La conoscenza estesa di questi elementi potrà essere di ulteriore aiuto a una valutazione più completa del significato storico della Resistenza da un punto di vista classista. Essi dimostrano inconfutabilmente la validità delle nostre tesi sul ciclo controrivoluzionario in cui si inserì la Resistenza quale coronamento sanguinoso del conflitto inter-imperialista; e invano gli extraparlamentari si affannano a ricamare su questi fatti le loro fantasticherie su presunte potenzialità rivoluzionarie o, addirittura, su “storiche occasioni” perdute (e per colpa di chi, se non di noi internazionalisti, i soliti “quattro gatti” sì,  ma su cui pare debbano pesare tutte le colpe delle rivoluzioni mancate?).

Vediamo, innanzitutto, la reale configurazione teorico-programmatica delle forze “rivoluzionarie” manifestatesi nel corso della Resistenza. Constateremo allora in modo palmare il loro carattere interno alla logica “militare”, politica, promanante dalle centrali democratiche e “socialiste” dell‟imperialismo “antifascista”.

Persino i terribili anarchici (gli “antistatalisti” e antistalinisti di sempre, salvo a dimenticarsene a ogni storico svolto: vedi Spagna) si ponevano a “sinistra”, forse, sul piano banale del “dalli al fascista!”, ma arcifedeli a un‟impostazione dei problemi politico-sociali tipicamente… togliattiana. Ricostruendo quegli anni, U. Fedeli spiega che l‟azione degli anarchici era volta a “mantenere i rapporti cogli altri partiti che nella clandestinità lavoravano per il medesimo scopo: abbattere il fascismo e schiacciare i tedeschi” (14), postulando così un‟”unitarietà” di scopi (badate bene!) nell‟ambito “antifascista”, dagli eredi di Bakùnin a… Stalin e da Palmiro e Roosevelt. “Erano tempi quelli che non si facevano questione di partito o di tendenza quanto di lotta, della lotta che doveva portare alla liberazione”, perché le questioni di partito (quale sacro orrore ispira a costoro l‟”inerte” teoria!) “non avrebbero fatto che dividere a favore del comune nemico”, mentre “unico grande compito […] era l’unità nella lotta”. Commovente unitarietà! Il 10-11 settembre, i gruppi anarchici riuniti a Napoli decidevano, in conformità ad essa, di “portare contributi positivi per la ricostruzione del nostro paese, con studi e realizzazioni di libere associazioni”. La “rivoluzione sociale  antiautoritaria” doveva, evidentemente, essersi già compiuta: non restava che “ricostruire” la Nazione. Di Vittorio non dovette essere scontento di simili compagni di strada!

***

E le dissidenze comuniste? Si vedano alcuni esempi, tra i “classici”.

Il Partito Socialista Rivoluzionario Italiano, che stampa a Bari “Bandiera Rossa”, critica duramente CLN e PCI, si rifà a Lenin (a parole), predica la rivoluzione, ma con questo programma “rivoluzionario”: “Gli  operai si stringano in cooperative, rimettano le macchine in efficienza, inizino così l’opera di ricostruzione. Lo stato e la borghesia hanno l’obbligo di fornirli dei capitali” (nr. 11 febbraio ‟44, radiotrasmesso da  Napoli il 5 dello stesso mese).

 

Il Movimento Comunista romano “Bandiera Rossa” accusa sì il capitalismo italiano ed il collaborazionismo picista, ma critica le azioni militari (più in là non si va!) anglo-americane perché “mancano di quel mordente e di quell’impeto che caratterizza l’azione dei russi e dei compagni jugoslavi” (nr. 26-XII-‟43) e scioglie amorosi peàna alla Russia Sovietica, tutrice della rivoluzione mondiale e quindi del socialismo in Italia. Siamo in piena “logica” militarista di obbedienza staliniana. Occorre tanto di meningi per capire come il Movimento Comunista, pur forte militarmente (più dello stesso PCI romano-laziale, afferma il Corvisieri) e pur combattivo, nonostante tutte le sfuriate anti-PCI e le “buone intenzioni” rivoluzionarie, sia necessariamente rifluito nello stesso alveo da cui politicamente non si era mai staccato?

Il Partito Comunista Indipendente, sempre a Roma, invita su “Spartaco” a non collaborare alle azioni armate resistenziali e spara a zero contro il partigianesimo come deviazione del proletariato dai compiti rivoluzionari, ma in senso del tutto opposto al nostro: reclama il passivismo ostruzionistico dei proletari  verso le forze armate anglo-americane per permettere all‟URSS di arrivare prima al traguardo europeo. Che capolavoro di intelligenza politica e strategica! Nello stesso numero del giornale i cui si hanno parole di fuoco per il CLM e i “badogliani in veste operaia” (leggi PCI ) si scrive: “se i mercanti di cannoni e  gli eterni vampiri del proletariato credono che gli operai e i contadini dell’eroica Russia si siano fatti massacrare dai tedeschi per difendere le loro ricchezze sporche di sangue, SBAGLIANO […]. Solo Stalin e  le sue truppe invincibili ci libereranno. Compagno Stalin, noi attendiamo a Roma il glorioso esercito  rosso!” (nr. 4-III-’44). C‟è poi stato anche chi attendeva le invincibili truppe di Pechino. Buon per loro!

In Piemonte, Temistocle Vaccarella organizza su posizioni politiche di classe un‟armata  partigiana  autonoma, ma auspica l‟intervento del proletariato russo per la realizzazione dell‟Unione Repubblicana Europea Socialista Sovietica. Pur messo in guardia dai nostri compagni, egli cade nel trabocchetto tesogli dagli opportunisti, che lo invitano a un incontro per “l‟unità d‟azione”; cade assassinato ad opera di “ignoti”. Il movimento da lui diretto fino a quel momento, il Partito Comunista Integrale di “Stella Rossa”, sparisce da un giorno all‟altro.

Persino quei compagni di sinistra che operano nel cuore politico e industriale d‟Italia, a Milano, stretti  attorno al “Lavoratore” (diretto da Bruno Fortichiari e dai fratelli Venegoni, provati militanti della vecchia sinistra del PCd‟I), pur assumendo tutta una serie di corrette posizioni di classe, cedono sulla questione dell‟URSS e del Partito. Si appalesa in essi (che pur sono i “più vicini” alle posizioni marxiste) la difficoltà  di intendere il carattere del ciclo controrivoluzionario e di ricavarne adeguati strumenti teorico- programmatici di azione. Così la loro opposizione non va oltre la lettera aperta alla direzione del  PCI (maggio e giugno ‟44 del “Lavoratore”) e, nonostante i banditeschi attacchi di Secchia e soci su “La Nostra Lotta” (provocatori, fascisti mascherati…), in nome dell‟unità e della disciplina decidono di rientrare nell‟ovile, per il bene del partito e quindi del Socialismo.

Abbiamo citato solo alcuni episodi della cosiddetta “dissidenza” di sinistra (e vi andrebbe aggiunto quello della dissidenza partigiana dopo il 25 Aprile). La casistica si potrebbe allargare a ventaglio e ciò, in altra sede, potrà anche essere istruttivo (15). Ma a quali fini? Che lezioni si possono trarre da questi episodi?

***

Formazioni che intendevano la lotta resistenziale quale lotta di liberazione sociale si organizzarono un po‟ ovunque, dopo il ‟43, dentro e fuori il PCI, e assunsero, in talune circostanze, una fisionomia di netta opposizione alla linea ciellenistica. Ciò si deve a ben precisi fattori. Innanzitutto, l‟incalzare della disfatta fascista, con i gravi problemi che si trascinava dietro per il proletariato, costituiva un buon terreno di coltura per l‟azione spontanea delle masse operaie (espressasi, al massimo della sua potenzialità, negli scioperi del ‟43) e l‟organizzazione politica immediata delle loro avanguardie. Inoltre, il carattere ancora aleatorio dell‟organizzazione e della linea politica del PCI permetteva a molti proletari, dentro e fuori dal PCI, di agire provvisoriamente con una certa libertà sul piano della teoria e dell‟azione. Di fronte ai nuovi caporioni politici, venuti “da lontano” con in tasca direttive collaborazionistiche, molti elementi di punta (anche nella stessa direzione provvisoria del PCI) si chiedevano “Chi saranno costoro? La politica del PCI la faremo noi”. Quello che questi elementi non potevano comprendere, in forza del peso schiacciante di un processo controrivoluzionario ormai trentennale, era il carattere irreversibilmente capitalistico dell‟URSS, la posizione opportunista del PCI, il carattere interimperialista della presunta crociata “antifascista” e quello, a esso subordinato, del partigianesimo.

Tutte le “opposizioni” al PCI, o meglio alla sua dirigenza, escluse le esigue forze che si saldarono al filo  della Sinistra, nacquero e vissero finché poterono come forze “autonome” su questo equivoco, che doveva essere loro fatale al momento delle cruciali decisioni storiche.

Se le condizioni oggettive e soggettive ci fossero state (su scala, evidentemente, non solo italiana) si sarebbero potuti porre, in forma concreta d‟azione e non pregiudizialmente in quella teorica da “reimpostare” in ristrettissime minoranze restate sul filo storico del partito, i compiti di ricostituzione del Partito mondiale, del disfattismo rivoluzionario, della trasformazione della guerra imperialista in guerra civile; in una parola, dall‟attualità del programma immediato della rivoluzione. E‟ inutile barare con la storia baloccandosi con i  sé e costruendo nella mente dei furbeschi raggiri di situazioni oggettive storicamente determinate. Se non si capisce questo, ogni pistolettata diventa (se…) la rivoluzione in marcia. Troppo comodo, e, soprattutto, troppo vile rispetto ai compiti che l‟avanguardia comunista deve assumersi di fronte alla classe.

Chiarito il punto, potremo anche rispondere alla domanda che insistentemente ci si rivolge con l‟intento polemico di scoprirci inguaribilmente settari e fuori dalla storia: “E voi che avete fatto? Come vi siete comportati?”. Ebbene, vi risponderemo subito (se ci avete fin qui seguiti), mostrandovi il concreto lavoro da noi svolto. “Chansons de geste” da cantarvi non ne abbiamo. E parlino pure di noi i vari Corvisieri come dei Gano di Maganza di turno!

 

Il lavoro della sinistra nel ‟43 – „45

Saremmo pessimi marxisti se, da un lato, affermassimo l‟esistenza di un ciclo controrivoluzionario di eccezionale ampiezza, in grado di rendere impossibile ogni brusco rovesciamento di fronte, e dall‟altro sbandierassimo l‟esistenza di una Sinistra già bell‟e formata quale forza agente nel ‟43 (allorché si comincia  a parlare di Partito Comunista Internazionalista). In effetti, le forze che fin da allora si disposero, nel nord come nel sud, ricongiungendosi con l‟emigrazione politica proveniente dal Belgio e dalla Francia, attorno ad un piccolo nucleo di compagni per riannodare il filo di classe, non presentavano, perché non potevano presentare, una sufficiente omogeneità di intenti e di programmi. (16)

Attorno alla bandiera della sinistra si raccolsero quegli elementi che avevano raggiunto una sufficiente chiarezza su alcuni punti base: il carattere imperialista della seconda guerra mondiale, sia nella versione fascista che in quella antifascista dei blocchi militari, l‟estraneità dell‟URSS al Socialismo, il senso collaborazionista ed interclassista del CLN e della dirigenza del PCI, la necessità di dare al proletariato un indirizzo unitario di classe, in netta indipendenza e opposizione alle forze responsabili del suo disarmo. Punti fondamentali, che si accompagnavano ad una generosa aspirazione rivoluzionaria; non però sufficienti come base della formazione di un partito che potesse dirigere il proletariato verso il suo sbocco rivoluzionario. Queste stesse forze di sinistra rivoluzionarie erano, in parte, il riflesso di un processo spontaneo di radicalizzazione non in grado di ricongiungersi con l‟elemento cosciente (quello che noi chiamiamo il filo rosso della continuità teorico-programmatica del Partito Storico).

I nuclei che, nel corso della lotta clandestina e poi, si strinsero prima in “frazioni di sinistra” poi in PC Internazionalista valsero comunque a raccogliere delle forze suscettibili di essere indirizzate sul binario dell‟integrale marxismo, attraverso il filtro del lavoro di spiegazione marxista degli eventi e di indirizzo teorico principalmente e quasi esclusivamente compiuto - abbiamo il dovere di dirlo, oggi che dell‟uomo si vorrebbe fare un pensatore solitario negandogli quello stesso titolo di militante che giustifica ai nostri occhi l‟anonimato – da Amadeo Bordiga. Il lavoro da condurre a termine non era, purtroppo, quello di prendere le armi e fare la rivoluzione (risultato indipendente dalla volontà o genialità di un gruppo o di un superuomo), ma di dare alle pochissime forze sane del proletariato rivoluzionario le armi di un bilancio e di una prospettiva rigorosi; armi di cui nessuno ci aveva attrezzati e per le quali lavorarono – in condizioni internazionali drammaticamente sfavorevoli – i compagni di allora. Chi ha giocato tutte le sue carte sull‟“episodio” da sfruttare subito (pena la “perdita del tram”) della “ondata rivoluzionaria” immediata non  ha solo perso la partita ma non ha lasciato al proletariato traccia alcuna per la ripresa futura. Chi – in quanto fisico erede di una tradizione storica immutata – ha lucidamente visto i compiti dell‟avanguardia rivoluzionaria per l‟intero ciclo storico, ci ha dato un arsenale che oggi può ancora apparire “modesto” (rispetto al suono roboante del “concretismo”), ma sarà arma decisiva per il proletariato spinto di nuovo a imboccare la strada della rivoluzione e a dotarsi dei conseguenti materiali di coscienza teorica. Il marxista sa che le armi della critica precedono la critica delle armi, e che quest‟ultima sarà sempre impotente senza le prime. E‟ un fatto necessitato dal presente ciclo che lo spazio tra i due “tempi” sia estremamente lungo e penoso, e che solo oggi si cominci a uscire dal chiuso del lavoro di “setta” in cui le avverse condizioni avevano allora ricacciato gli sparuti individui e gruppi marxisti non travolti dalla controrivoluzione.

***

E‟ comprensibile che da ogni lato, incluso quello dei pretesi “internazionalisti” o dei – secondo la pubblicistica borghese – “bordighiani” tipo Lotta Comunista, ci si rimproveri la “scelta” della cosiddetta “torre d‟avorio”. In alcuni casi, tale accusa si sposa col riconoscimento dell‟acutezza ed esattezza delle analisi: tutti costoro non si accorgono che se veramente si vuole (si tratta di vedere se si può) inchiodare la Sinistra a colpe di settarismo, astrattismo e via dicendo, occorre dimostrare – tesi contro tesi – che la situazione di allora era oggettivamente e soggettivamente diversa da come l‟abbiamo inquadrata. Inutile affanno: se così fosse stato, il proletariato “rivoluzionario” avrebbe espresso una ben più ampia “resistenza” all‟imbrigliamento di ricostruzione democratica e nazionale, aprendo la strada a un più breve ricongiungimento col movimento “soggettivo”. No, amici cari: quella del “settarismo” non fu una scelta d‟individuo riluttante al movimento, ma una strada obbligata; fu così il corrispettivo “organizzativo”, nella situazione di allora, delle analisi politiche, e se a queste ultime date la palma di acutezza abbiate il  buon senso di riconoscere la consequenzialità del “settarismo” nel lavoro di Partito. Controprova: tutti coloro che allora si dimenarono contro il “liquidazionismo di Bordiga” e il suo pervicace “passivismo”, si trovarono a rincorrere disperatamente in una situazione che sfuggiva al loro controllo quanto più si affannavano ad escogitare mezzi “pratici” di risalita. Di quelli, i più sono riconfluiti nel calderone picista, dove certamente avranno avuto mille possibilità di “muoversi”, i meno hanno saputo arrestarsi un tantino prima, ma senza armate alle calcagna e senza una bussola capace di spiegare loro quel che è successo (figuriamoci quel che succederà!). Amedeo Bordiga poteva benissimo trovare… la ricetta personale della “influenza sulle situazioni”. Gli sarebbe bastato rispondere affermativamente (ne è teste lo stesso Amendola) alle profferte di reingresso nel PCI, coprendo a sinistra la politica opportunista. Oggi, avremmo un padrino in più della “gioventù studente” delle mille “lotte continue”, “avanguardie operaie” e “manifesti”… Non avremmo il materiale poderoso su cui si forgeranno i militanti dell‟implacabile rivoluzione plurinazionale, monopartitica e monoclassista di domani!

 

Torre d‟avorio?

Resta un‟obiezione: posta l‟autonomia programmatica e organizzativa, non furono compiuti errori di settarismo nel senso di una contrapposizione a-dialettica fra teoria e prassi, mentre, Lenin insegna, la politica è “quasi sempre la „mediazione‟ fra teoria rivoluzionaria e situazione concreta”?

La posizione della Sinistra, dai primi testi ad oggi, è sempre stata quella chiaramente delineata nel ‟65 nelle Considerazioni sull’organica attività del partito quando la situazione generale è storicamente sfavorevole:

Non vogliamo un partito di setta segreta o di élite, che rifiuti ogni contatto con l‟esterno per mania di purezza […]. Dato che il carattere di degenerazione del complesso sociale si concentra nella falsificazione e nella distruzione della teoria e della sua dottrina, è chiaro che il piccolo partito di oggi ha un carattere preminente di restaurazione dei principi  di valore dottrinale, e purtroppo manca dello sfondo favorevole in cui Lenin la compì dopo il disastro della prima guerra. Tuttavia, non per questo possiamo calare una barriera fra teoria ed azione pratica; poiché oltre un certo limite distruggeremmo noi stessi e tutte le nostre basi di principio. Rivendichiamo dunque tutte le forme di attività proprie dei momenti favorevoli nella misura in cui i rapporti reali delle forze lo consentono. (17)

La mediazione di cui parla Lenin (e noi con lui) è per l‟appunto lo studio preciso delle attività utili, nelle circostanze date, a far compiere al movimento rivoluzionario un passo avanti senza ricadere di due indietro, non atteggiamenti e posizioni da grande partito “influente” in ogni e qualsiasi situazione.

La parte finale del nostro studio del ‟47 su Il proletariato e la seconda guerra mondiale, dopo aver sintetizzato il nostro lavoro di ricerca e propaganda teorica di quegli anni, nota molto bene che “non al solo campo ideologico si limitò il lavoro del Partito nei duri anni della clandestinità”, e così lo testimonia:

Contro il partigianesimo barricadiero e piccolo-borghese che convogliava verso le montagne centinaia di giovani operai, i comunisti internazionalisti affermano la necessità che il proletariato combattesse nelle fabbriche la sua battaglia contro il suo nemico capitalistico. Gli scioperi che punteggiarono quel travagliato periodo storico videro il partito attivissimo nelle officine di Torino, di Milano, dell‟Italia settentrionale, nel ricordare agli operai che i loro problemi economici potevano essere radicalmente risolti solo imperniando la lotta sul terreno politico in antitesi con l‟imperialismo e la guerra, per la rivoluzione. “I capitalisti e il governo fascista, responsabili del conflitto, sono incapaci di risolvere la  crisi economica, di sfamare gli operai e le loro famiglie costringendoli ancora a fabbricare cannoni. Operai, solo unendovi contro la guerra, contro il capitale, contro gli sfruttatori, solo spostando la vostra azione dal terreno economico a quello politico riuscirete a spezzare le catene che ancora vi imprigionano...”. Queste parole d‟ordine furono divulgate con tutti i mezzi anche tra i raggruppamenti partigiani, nonostante le difficoltà obbiettive. Il partito, esile organizzativamente, fu costretto a muoversi tra mille difficoltà combattendo con coraggio ma con scarsi mezzi i due blocchi politici: “Contro il fascismo che vuole la continuazione della guerra tedesca e contro il Fronte Unico dei  sei partiti, che sono per il macello democratico, gli operai si organizzino sul posto di lavoro in un fronte unico proletario per difendere i loro stessi interessi e per la lotta decisiva contro la guerra.” La nostra parola d‟ordine smentisce categoricamente le accuse di settarismo e di astratta intransigenza lanciate da molte parti all‟indirizzo politico del PC Internazionalista. I comunisti internazionalisti erano per il fronte unico nelle fabbriche, nei luoghi di lavoro, erano per un vasto moto spontaneo che convogliasse operai e contadini, “di tutte le correnti politiche e senza partito” contro i due fronti borghesi, contro la „teoria‟ del male minore, contro l‟arbitrarismo barricadero, per legare le agitazioni economiche alle guerre di classe. (18)

Neppure l‟irriducibile nostra avversione alla pratica ed alle finalità del partigianismo si tramutò “dialetticamente” in rifiuto di contatti chiarificatori con quelle forze partigiane che soggettivamente si sentivano disposte ad una lotta per il socialismo che credevano di ravvisare (magari, e fu la peggiore illusione!, come “prima tappa”) nella lotta resistenziale. A questi compagni sviati dal loro storico obbiettivo di classe, noi non potevamo, però, se non mostrare appunto l‟ilusione di cui si facevano involontarie vittime, e la finalità controrivoluzionaria cui erano strumentalizzati. Soprattutto presente fu la nostra organizzazione allorché opportunismo e apparato statale “democratico” ricostituitosi passarono al disarmo dei partigiani. Dicono le nostre Tesi del ‟45, al punto 18:

Per quanto riguarda la lotta partigiana e patriota contro i tedeschi e i fascisti, il partito denunzia la manovra con la quale la borghesia internazionale e nazionale, con le parole che sa vuote di sostanza, di ridare vita ufficiale al militarismo di stato, mira a disciogliere e liquidare queste organizzazioni volontarie, che in molti paesi si sono viste aggredite dalla repressione armata. Questi movimenti, non dotati di sufficiente orientamento politico, esprimono per lo più la tendenza di gruppi locali proletari ad organizzarsi ed armarsi per conquistare e conservare il controllo delle situazioni locali, e quindi del potere, tendenza imprigionata da una doppia illusione: la prima, che gli Stati in guerra con l‟Asse  intendessero per la promessa di libertà un regime in cui le masse popolari conservino il diritto non solo alla scheda elettorale, ma all‟armamento diretto; la seconda che, dopo aver profittato in questo senso degli aiuti tecnici dell‟organizzazione militare ufficiale, sia possibile forzarle la mano e non riconsegnare a sopravvenute gerarchie e polizie le armi della sognata liberazione. Dinanzi a queste tendenze […] è compito del partito rivoluzionario porre in chiara evidenza i postulati sociali e di classe, e l‟esigenza che gli elementi più combattivi e risoluti dopo il lungo sanguinoso ciclo della loro offerta a battersi per cause altrui trovino finalmente l‟impostazione politica e l‟inquadramento che consentirà loro di battersi soltanto per la propria stessa causa ponendo fine al loro pauroso logorio al servizio di più o meno aperti nemici di classe. (19)

Queste le nostre chiare posizioni, e ci accusi pure ogni altra tendenza, da quelle  apertamente borghesi a quelle “arcirivoluzionarie”, di “splendido isolamento settario”. Se con quest‟etichetta si vuol dire che non accettammo (come non accettiamo) di essere nel movimento a ogni costo, anche quando questo esprima una direzionalità antitetica agli interessi immediati e storici della classe proletaria, accettiamo l‟etichetta. L‟esperienza ultracentenaria del movimento rivoluzionario ci ha insegnato, a cominciare proprio da Lenin, perlomeno questo: che l‟avanguardia deve saper camminare, in più occasioni, contro corrente, anche se nella corrente si agita il proletariato statisticamente inteso e quali che siano le convinzioni che, a scala sovrastrutturale, questi si dà del suo muoversi. Zimmmerwald (20) fu episodio di lotta contro la corrente ufficiale dello stesso movimento socialista. La nostra Zimmerwald, nel corso della seconda guerra mondiale, non poteva, per forza obbiettiva di cose, raccogliere i frutti quali furono la Rivoluzione Russa e l‟Internazionale Comunista, in un breve arco di tempo.

***

Sessant‟anni di dominio “antifascista” del globo, all‟insegna di un accresciuto sfruttamento del capitale sul lavoro salariato; sessant‟anni di “pace democratica” durante i quali non c‟è stato un solo minuto in cui  le armi abbian taciuto; questi sessant‟anni infami stanno a dimostrare che non fu vana la denunzia di quei  pochi, e ci danno l‟anticipata certezza che le masse proletarie, deterministicamente spinte a rimettersi in moto, sapranno recuperare la lezione di allora.

Chi lavora a “celebrare” le sconfitte del passato, o a stare nel presente per quanto ancora si lega a quel passato, si accomodi pure dall‟altra parte.

 

Note

  1. Cfr. Bollettino del PCI-1930. Per una discussione sulla nostra politica, edito dal  PCI  nell‟emigrazione.  La citazione è dalla “Risoluzione del CC del PCI” approvata dal Presidium allargato del CE dell‟Internazionale Comunista.
  2. Cit. da E. Gucciardi, Il Fronte Popolare, inserto speciale de L’Espresso, 1975.
  3. “Discorso del 22.I.1936”, in I fronti popolari in Europa, Milano, 1973, pagg. 73-75.
  4. “La tattica del Comintern dal 1926 al 1940”, in Prometeo, I serie, 7, maggio-giugno 1947.
  5. Da “Il proletariato e la seconda guerra mondiale”, in battaglia comunista, nr. 29/1947.
  6. Per i documenti ufficiali del PCI, cfr Per la libertà e l’indipendenza d’Italia, relazione della Direzione del PCI al V Congresso, Roma, 1945. Una parziale ripubblicazione ne è stata fatta dagli Editori Riuniti (Il partito Comunista nella seconda guerra mondiale).
  7. Cfr. S. Corvisieri, “Il gruppo dirigente del PCI e la svolta di Salerno”, in Politica Comunista, n°6 (genn./apr. ‟74), p. 39.
  8. Cfr. R. Del Carria, Proletari senza rivoluzione, Milano, 1966, vol. 2°, p. 324.
  9. Cfr. “Il proletariato italiano nella seconda guerra mondiale”, cit.
  10. In Per l’organica sistemazione dei principi comunisti (Edizioni Il programma comunista, Milano 1973), 113.
  11. Dall‟edizione 1945 della Piccola Enciclopedia del Socialismo e del Comunismo, redatta dal Trevisani.
  12. Cfr. D. Lusiardi, “Congressi sindacali (del dopoguerra)”, Almanacco Socialista 1960.
  13. C. De Marco, “La costituzione della Confederazione Generale del Lavoro e la scissione di „Montesanto‟ (1943-1944)”, in Giovane Critica, n° 27 (estate 1971).
  14. Cfr. U. Fedeli, “Il movimento anarchico nel secondo dopoguerra”, in Almanacco Socialista 1962, pp. 472 e segg.
  15. Al riguardo, cfr. Arturo Peregalli, L’altra Resistenza. Il PCI e le opposizioni di sinistra, 1943-1945 (Graphos, Genova 1991).
  16. Una compiuta documentazione delle modalità di formazione del C. Internazionalista, e dei relativi problemi che essa si trascinò dietro, dovrà essere oggetto di uno studio a parte. Questo capitoletto non ha se non la funzione di indicare dove, in quel processo, stava il cardine centrale ai fini della riacquisizione di un programma e di un metodo di azione autenticamente comunisti rivoluzionari. Un‟ampia documentazione del lavoro di analisi svolto in quegli anni, al vivo scontro con la pratica, in una situazione estremamente sfavorevole, sta nei testi raccolti nel già citato volume Per l’organica sistemazione dei principi comunisti: a esso deve rivolgersi il lettore attento non all‟aneddotica, ma alla sostanza delle questioni politiche per intendere la nostra storia in quegli anni. Respingiamo ogni altra concezione organizzativistica (o… reclamistica) di “narrare” le vicende di un‟imprecisata Sinistra in cui tutto, purché faccia rumore, possa esser contenuto, fuorché delle posizioni politiche.
  17. Le “Considerazioni” sono state ripubblicate nel n. 5/2004 de Il programma comunista e si possono leggere, insieme ad altre tesi degli anni ‟20 e del secondo dopoguerra, nel nostro volumetto In difesa della continuità del programma comunista (Milano, 1989).
  18. “Il proletariato e la seconda guerra mondiale”, riprodotto in questo stesso opuscolo.
  19. Cfr. “La piattaforma politica del Partito (1945)”, in Per l’organica sistemazione dei principi comunisti, pp.119- 120.
  20. A Zimmerwald, in Svizzera, si riunirono nel 1915 le poche correnti di sinistra salvatesi dallo sfacelo della Seconda Internazionale di fronte allo scoppio della Prima guerra mondiale. Fu il primo passo verso la riorganizzazione mondiale del movimento comunista, culminata nella Rivoluzione d‟Ottobre e nella fondazione, nel 1919, della Terza Internazionale.
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