DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

IL LABORATORIO DELLA CONTRORIVOLUZIONE

Antonio Gramsci sul filo storico dell’anticomunismo

“Un idealista non è né un marxista radicale né un marxista riformista. È solo uno fuori della nostra via. Storicamente Gramsci ci aiutò a cacciar, con mille ragioni, Turati. Teoricamente però, ed è sempre un male quando lo si tace, ortodossia ne aveva meno Gramsci che Turati”. Struttura economica e sociale della Russia d’oggi. Ed. “il programma comunista, 1976.

 

Parte I.

Nella fucina della controrivoluzione

1. Introduzione.

A torto o a ragione, Antonio Gramsci è riconosciuto oggi come uno dei padri spirituali di una vasta schiera di gruppi, associazioni politiche e movimenti che, in tutti i paesi industrializzati, pongono l’emancipazione del proletariato nelle mani del proletariato stesso, per mezzo della conquista diretta dei mezzi di produzione e nei luoghi della produzione. Tutti costoro sostengono che solo nel momento in cui l’operaio pone se stesso come produttore del proprio lavoro, come padrone dei propri strumenti di produzione, vi è la concreta possibilità della vittoria rivoluzionaria.

Questa posizione risolve il problema dell’organizzazione del movimento operaio nell’atto spontaneo di creazione di “Soviet artificiali, questi «fiori di serra»” tuttavia destinati a compromettere l’idea dello Stato rivoluzionario agli occhi del proletariato nel momento in cui su di essi venisse a mancare l’azione del partito[1]. Tale concezione fu definita al momento stesso della sua comparsa dalla Sinistra internazionale come spontaneista ed immediatista. Essa infatti, mentre nega il ruolo insostituibile del partito rivoluzionario quale volontà impersonale e forza collettiva organizzatrice e centralizzatrice, fa dell’organizzazione spontanea - consiglio di fabbrica, Soviet, sindacati d'industria e di categoria, organizzazioni di consumatori - la forma rivoluzionaria per eccellenza, che garantisce di per sè il successo. Questa posizione, antileninista per eccellenza, è riemersa ovunque le tensioni sociali si sono fatte più acute in questo secondo dopoguerra. Essa rappresenta storicamente una delle più gravi deviazioni dal terreno rivoluzionario proprio nel momento in cui si ammanta della frase rivoluzionaria. Essa mina alla base la direzione unitaria delle lotte, mentre cerca di elevare a modello forme di organizzazione spontanee e di carattere locale il cui banco di prova più tremendo, la Germania del 1919-1920, si concluse con una delle disfatte più amare del proletariato europeo.

E tuttavia, il “marxismo imperfetto” o premarxismo di Gramsci nella sua elaborazione originaria appare ben superiore, da un punto di vista del ruolo rivoluzionario della classe, alle interpretazioni che i suoi epigoni ne daranno in seguito, per far passare ovunque le tesi più visceralmente anticomuniste: il socialismo in un solo paese, lo snaturamento completo dei rapporti tra i partiti e l’Internazionale, l'interclassismo più spudorato.

Strumento troppo docile in mano alle forze gigantesche mobilitate dall’ondata controrivoluzionaria che si abbatterà sul movimento operaio internazionale, isolato dai suoi stessi compagni, Gramsci perderà anche l’unica, grande occasione che la storia della sconfitta può concedere ai rivoluzionari: quella di fissare in via definitiva, foss’anche definita “schematica” e "dottrinale" dai suoi detrattori, le tesi invarianti del materialismo dialettico che, sole, possono garantire la ripresa futura e il riarmo teorico del proletariato. Fu questo il grandioso compito che poté pienamente essere assolto solo dalla Sinistra nei lunghi decenni di fascismo, di stalinismo, di democrazia del XX secolo.

Ristudiare le radici di questo movimento che per brevità, non certo per riaprire una polemica contro un individuo, riconduciamo al nome di Gramsci, non è dunque un vezzo storiografico ma, per il partito rivoluzionario, una vitale necessità pratica, in prospettiva della ripresa della lotta di classe e per le sue finalità storiche. La necessità di ribadire, di fronte e contro Gramsci e i suoi epigoni moderni, la priorità del partito di classe su qualsiasi altra forma di organizzazione immediata nel campo della produzione o del consumo; di riaffermare che la rivoluzione si pone il compito non di aumentare la produzione in nessuna fabbrica capitalistica, ma quello di rompere, per sempre, il meccanismo aziendale.

2. L’idealismo di Gramsci

L’ambiente intellettuale in cui si è formato il giovane Gramsci, da poco trasferitosi a Torino, la grande metropoli industriale del 1911, si divide tra quello decisamente idealistico di Croce[2] e quello socialista riformista di Mondolfo[3] In particolare, la lezione “educazionista” di quest’ultimo resterà bene acquisita a tutto il movimento ordinovista. Tutt’al più, essa si sposterà dal concetto dell’educare il popolo, in generale, come sostenuto da Angelo Tasca, uno dei padri spirituali dell’Ordine Nuovo, fin dal 1912, a quello più genuinamente gramsciano dell’educazione di buoni produttori, elevandone e perfezionandone le capacità tecniche professionali.

Come è noto, la prima battaglia sostenuta dalla Sinistra “italiana” nel 1912 in nome del marxismo fu proprio quella “anti-educazionista”: battaglia che purtroppo non servirà per evitare il manifestarsi di questa stessa patologia “culturale” qualche anno dopo, ma in un contesto ben più incandescente, durante il periodo post-bellico dell’occupazione delle fabbriche. Le seduzioni dell’illuminismo agivano in profondità - ed agiranno in seguito - nei partiti socialisti della II Internazionale, che vedevano nell’educazione del proletariato la strada alla rivoluzione. Si sarebbe trattato, per Angelo Tasca e i suoi sostenitori della corrente di destra, “di ingentilire ed elevare l’anima e la mente della gioventù proletaria, con una istruzione generica, letteraria e scientifica [...] di creare competenti organizzatori e buoni produttori, mediante una opera di elevamento e perfezionamento tecnico professionale, senza il quale non sarà realizzabile la rivoluzione socialista”. A ciò si oppose allora, e lo ripetiamo oggi sulle pagine dell’Ideologia tedesca, che la “cultura” è temibilissimo strumento di conservazione nelle mani delle classi che hanno il potere. Ci rifiutammo di seguire Tasca nei suoi sforzi, che saranno poi quelli del Gramsci dell’Ordine Nuovo, e ponemmo ben chiaramente che “scopo del movimento nostro è contrapporsi ai sistemi di educazione della borghesia, creando dei giovani intellettualmente liberi da ogni forma di pregiudizio, decisi a lavorare alla trasformazione delle basi economiche della società, pronti a sacrificare nell’azione rivoluzionaria ogni interesse individuale [e che] una tale educazione può essere data solo dall’ambiente proletario quando questo viva della lotta di classe intesa come preparazione alle massime conquiste del proletariato, respingendo la definizione scolastica del nostro movimento e ogni discussione sulla sua così detta funzione tecnica”.

E’ inutile, oltre che impossibile, seguire qui il percorso idealistico del giovane Gramsci attraverso i suoi scritti. Non è fuori luogo, tuttavia, ricordare come tutti i suoi scritti giovanili, ma anche e forse più quelli dell’età matura, sono permeati di idealismo sia nell’approccio storico che in quello politico, dove all’azione della classe spesso si sostituisce la volontà dell’intellettuale. Quasi tutte le pagine del Grido del popolo, giornale di cui egli fu redattore dal 1914, risentono di un’ideologia che, rielaborata in anni successivi, apparirà ad alcuni commentatori, non a torto, come marxismo in una sua versionedi idealismo soggettivo[4]. Ad esempio, vi si sostiene l'opinione che “il Risorgimento italiano è stato un movimento politico artificiale, senza basi, senza radici nello spirito del popolo, perché non è stato preceduto da una rivoluzione religiosa” e come non si supera il cattolicesimo ignorandolo, così non si supera l’idealismo trattandolo come semplice questione di cultura. “Nella lotta tra il Sillabo e Hegel, è Hegel che ha vinto, perché Hegel è la vita del pensiero che non conosce limiti e pone se stesso come qualcosa di transeunte, di superabile, di sempre rinnovantesi come e secondo la storia”[5]. Così non sarebbe difficile dimostrare come la sua impostazione filosofica lo abbia trascinato in seguito in una serie di posizioni politiche che hanno gravemente danneggiato il cammino formativo del PCd’I, già nato in ritardo su posizioni che la stessa Sinistra - che ne fu levatrice - non esitò a definire spurie, e finito nell’eclettismo teoretico più completo.

Sono questi, dunque, i presupposti ideologici che conducono Gramsci a giungere sempre in ritardo su tutta una serie di quesiti che la storia, in quegli anni fiammeggianti, poneva alle organizzazioni rivoluzionarie.

3. Neutralista attivo ed operante

Il primo “ritardo” si manifesta nei confronti della posizione di disfattismo rivoluzionario. In una serie di articoli la Sinistra astensionista, dopo il tradimento di Mussolini, esortava a non “adattarsi ad un socialismo nazionale [poiché] il proletariato dovrà essere domani più apertamente antimilitarista e definire il suo atteggiamento di fronte al patriottismo […] Noi socialisti italiani […] dovremo negare allo Stato anche la nostra solidarietà nella difesa nazionale”[6]. In seguito la medesima posizione era ribadita ancora più esplicitamente: “Noi siamo fautori della violenza. Siamo ammiratori della violenza cosciente di chi insorge contro l’oppressione del più forte, o della violenza anonima della massa che si rivolta per la libertà”.

Al contrario, in un confuso articolo («Neutralità attiva ed operante», Il Grido del Popolo, 31 ottobre 1914) Gramsci esprime una posizione di filointerventismo mussoliniano, in cui l’azione del proletariato è vista tutta in termini di “via italiana”, che non è nemmeno quella del tutto insufficiente della neutralità assoluta, ma dev’essere quella della neutralità attiva ed operante, mediante la quale la classe lavoratrice costringe la borghesia a riconoscere di aver “completamente fallito al suo scopo, poiché ha condotto la nazione […] in un vicolo cieco”. Questo compito va assolto dal partito socialista; e “questo compito immediato, sempre attuale gli conferisce dei caratteri speciali, nazionali, che lo costringono ad assumere nella vita italiana una sua funzione specifica”. Se ciò può apparire diverso da quanto fino ad ora sostenuto dal PSI, prosegue Gramsci, poco importa, poiché “i rivoluzionari [...] concepiscono la storia come creazione del proprio spirito, fatta di una serie ininterrotta di strappi operati sulle altre forze attive e passive della società”.

Per Gramsci, dunque, strategia e tattica del partito vanno scelte, caso per caso (le “vie al socialismo” sono infinite!) sulla base di motivazioni ideali di volontarismo soggettivistico. Ciò non dipende affatto da una malintesa interpretazione del marxismo, che rimane del tutto assente nelle sue valutazioni, e i cui riferimenti sono presenti solo in termini vaghi o negativi. Ciò che costituisce il monolitico ed invariante bagaglio dottrinale comunista, in Gramsci è sostituito da una “ricerca individuale” che passa attraverso la “cultura”, che “è organizzazione, disciplina del proprio io interiore, è presa di possesso della propria personalità, è conquista di coscienza superiore... Ma tutto ciò non può avvenire per evoluzione spontanea, per azioni e reazioni indipendenti dalla propria volontà... L’uomo è soprattutto spirito, cioè creazione storica, e non natura” («Socialismo e cultura», Il Grido del Popolo, 29 gennaio 1916). E' su queste dissestate basi ideologiche che sta maturando, nella "proletaria" Torino del dopoguerra, la deviazione immediatista e localista che cercherà la sua ragion d'essere nel movimento dei Consigli di fabbrica. Nel frattempo, ma sempre con le stesse cause ideologiche, troviamo il secondo "ritardo" gramsciano, nella incomprensione di ciò che è stato, per il proletariato internazionale, l'Ottobre russo.

4. La rivoluzione russa

E’ sulla base di una tale “elaborazione critica” del concetto di lotta di classe e del marxismo (o di ciò che egli considerava tale) che Gramsci perverrà a formulare la sua valutazione sulla rivoluzione russa.

Perfino alcuni degli storici dozzinali, ieri stalinisti ed oggi democratici convinti, che nell’ordinovismo esaltano a ragion veduta le radici di tutti i peggiori opportunismi del secondo dopoguerra, sono costretti ad ammettere che l’articolo «La rivoluzione contro il “Capitale”» (Avanti!, 24 novembre 1917) è totalmente affetto di hegelianesimo e di crocianesimo (Fiori); che è parzialmente idealistico (Livorsi); altri, come F. De Felice, Tamburrano e Spriano, preferiscono vedervi la “fiducia nei fatti”, più forti delle ideologie, e la conferma che la rivoluzione russa è un avvenimento che non può essere preso a modello (del che purtroppo, ottanta anni di “socialismo in un solo paese” e di sbando del movimento internazionale hanno mostrato la tragica realtà). Beninteso, è d’obbligo quasi per tutti costoro tacere di questo articolo, dopo le proprie elucubrazioni “critiche” sul pensiero gramsciano, la cruda realtà delle parole: “La rivoluzione dei bolscevichi è materiata di ideologie più che di fatti... Essa è la rivoluzione contro il Capitale di Carlo Marx. Il Capitale di Marx era in Russia il libro dei borghesi, più che dei proletari”. I bolscevichi non sono marxisti; essi “vivono il pensiero marxista, quello che non muore mai, che è la continuazione del pensiero idealistico italiano e tedesco, e che in Marx si era contaminato di incrostazioni positivistiche e naturalistiche”.

L'idea gramsciana secondo cui in Russia “i fatti hanno superato le ideologie. I fatti hanno fatto scoppiare gli schemi critici entro i quali la storia della Russia avrebbe dovuto svolgersi secondo i canoni del materialismo storico. I bolscevichi rinnegano Carlo Marx” viene presentata ai socialisti italiani come novità critica. Si tratta in realtà di una questione su cui i comunisti russi, da Plechanov a Lenin, si erano pronunciati circa trent'anni prima, nel corso di aspri dibattiti teorici sul destino rivoluzionario della Russia. In polemica dapprima con i populisti, poi con gli economisti e da ultimo con i menscevichi, per i quali la rivoluzione avrebbe dovuto fermarsi alla sua forma di dittatura borghese, al Febbraio 1917, Lenin aveva dimostrato, maneggiando in modo magistrale i principi fondamentali del marxismo, la necessità di superare la formula della dittatura democratica del proletariato e dei contadini a favore di quella della dittatura del proletariato.

Ma questa non può essere la posizione di Gramsci. Infatti il commento che egli aveva fatto della rivoluzione di febbraio[7] è entusiastico, dimostrando tutta la sua incomprensione sia del fenomeno storico sia della funzione del partito, che quel fenomeno doveva guidare: La sua idea è che la rivoluzione di febbraio deve sfociare necessariamente nel regime socialista, 1) perché è stata antigiacobina[8]; e i rivoluzionari socialisti (opportunamente nell'articolo non si parla mai dei bolscevichi) non hanno per programma l'idea giacobina della dittatura di una minoranza audace e decisa a tutto pur di far trionfare il proprio programma; 2) perché essi hanno sostituito l'autoritarismo zarista con la libertà, alla costituzione hanno sostituito “la libera voce della coscienza universale”; 3) perché i rivoluzionari socialisti russi hanno solo “il compito di controllare che gli organismi borghesi […] non facciano essi del giacobinismo per rendere equivoco il responso del suffragio universale”. Quanto siamo lontani dagli autori delle Tesi di Aprile, di Stato e Rivoluzione, di Terrorismo e Comunismo! Quanto lontani dallo scioglimento dittatoriale di ogni illusoria, controrivoluzionaria Assemblea costituente!

5. La questione del partito e i Consigli di fabbrica

Poco ci importerebbe l’evoluzione intellettuale del giovane Gramsci se questa, con tutte le sue indecisioni e incomprensioni della realtà della lotta di classe e dei mezzi indispensabili per dirigerla, non si fosse riflessa nel campo dell’organizzazione politica in un momento probabilmente decisivo del movimento rivoluzionario italiano.

Il lettore poco avvertito delle condizioni in cui nacque il Partito comunista d’Italia sarà probabilmente stupito di apprendere che le fantasticherie ideologiche di cui abbiamo dato un solo pallido esempio, e di cui si ammantò dalla nascita il gramscismo, sono presentate ancora oggi come capacità “di accostarsi più di tutti gli altri osservatori contemporanei alla comprensione reale dei fenomeni del presente”, come “appropriazione articolata del leninismo e conseguentemente con una ridefinizione dell'internazionalismo”[9]. Nella realtà storica l'Ordine Nuovo si presenta fin dal suo nascere, da un punto di vista squisitamente tattico, su posizioni centriste, vale a dire elezioniste e antiscissioniste; al Congresso di Bologna dell'ottobre 1919, in cui la Sinistra pose con la massima chiarezza il problema della scissione, i rappresentanti del movimento torinese (Tasca e Rabezzana) collaboreranno alla stesura di una mozione unitaria con il centro di Serrati.

Il ritardo di Gramsci sulla nascita del partito deriva da ragioni contingenti, che originano dalla medesima matrice volontaristica ed idealistica. Tale ritardo affonda le proprie radici nella visione spontaneista ed immediatista che egli ha del processo rivoluzionario; visione che gli derivò dalle esitazioni - che diventarono poi vero tradimento - del centro massimalista del PSI e soprattutto della CGL quando il proletariato torinese scese in lotta sulle parole del controllo delle fabbriche. Fu solo con le grandi lotte del 1920, infatti, che Gramsci, fino ad allora rimasto allineato alle posizioni del massimalismo centrista[10], riconobbe chiaramente la necessità della separazione dal sindacato e quindi, ma solo in un secondo tempo e sotto la forte pressione della Sinistra “astensionista”, ammise la necessità della rottura anche con il partito.

Tuttavia gli rimase sempre radicata l’idea della rivoluzione “dal basso”, “di tutto il popolo lavoratore”, “dalla fabbrica”, assegnando al partito solo la funzione di organizzatore tecnico. E' solo il Consiglio di fabbrica l'istituto che può dare garanzie di vittoria –egli sostiene - perché partito e sindacati sono organizzazioni di tipo volontario e contrattualista, slegate dalla produzione e cioè dai rapporti reali di produzione[11]. Come si vede, in quegli anni decisivi, fu solo la Sinistra ad affermare con decisione che solo sulla base politica si può andare oltre le differenze di situazioni e di interessi dei gruppi aziendali, di categoria, di industria, dei gruppi locali regionali e nazionali; e che tale base politica era solo il partito di classe.

Nella visione di Gramsci “la via per eliminare i difetti della confederazione sindacale e del partito socialista non era quella di selezionare il secondo e poi lottare alla conquista della prima. Le due strutture dovevano essere svuotate e abbandonate per sostituire loro una nuova, l’ordine nuovo, il sistema dei consigli di fabbrica. La gerarchia di questa elegante utopia è tutta tracciata: dall’operaio al reparto, al commissario di reparto, al comitato dei commissari di fabbrica, al consiglio locale delle fabbriche e via fino alla sommità. Questa nuova struttura prende, fabbrica per fabbrica, prima il diritto di controllo, poi quello di gestione; una specie di espropriazione del capitale per cellule base, una vecchia idea premarxista che nulla ha di storico e rivoluzionario”[12]. In quest’ottica, poco importa il partito di classe, la cui funzione diventa puramente pedagogica. Poco importa anche la teoria dello stato, perché “la trasformazione della società è immaginata come fatta pezzo per pezzo; e i pezzi sono le imprese produttive. Manca del tutto la visione dei caratteri della società comunista opposti a quelli del capitalismo. Resta un pallido «aziendismo »” (Ibid.).

Per due anni, e fino alla scissione di Livorno, Gramsci non cesserà di martellare questi concetti sulle colonne del suo giornale. L'operaio considera se stesso come produttore, in quanto inserito nel processo produttivo e nel complesso delle forze produttive, che sono, si legge di una relazione della sezione torinese del dicembre 1919, “in un certo senso estranee e indipendenti dal modo di appropriazione privata della ricchezza prodotta”: come se esistesse una forma metastorica della produzione per aziende, che possa prescindere dal modo della circolazione e dell'appropriazione del prodotto! E altrove si dichiarava che “la massa operaia deve prepararsi effettivamente all'acquisto della completa padronanza di se stessa, e il primo passo su questa via sta nel suo più saldo disciplinarsi, nell'officina, in modo autonomo, spontaneo e libero. Né si può negare che la disciplina che col nuovo sistema verrà instaurata condurrà a un miglioramento della produzione”[13].

Fu chiaro fin dall’inizio alla Sinistra che le soluzioni proposte dall’Ordine Nuovo si collocavano pericolosamente sul versante proudhoniano, e in una serie di articoli Il Soviet, organo di quella che era allora la Frazione Astensionista del partito socialista, e costituirà in seguito la prima struttura organizzativa del PCd’I, non si stancherà di chiarirlo. Compito del partito è quello di superare i limitati orizzonti delle lotte rivendicative, centralizzando gli obiettivi storici della classe, che non saranno raggiunti con la conquista del potere politico, ma che si porranno allora, e solo allora, anche sulla base economica e sociale. La confusione che l’Ordine Nuovo introdusse nella polemica, considerando i Consigli di fabbrica esattamente equivalenti ai soviet, mostra tutta l’immaturità teorica del movimento torinese.

Questa immaturità porterà Gramsci ad affermare la necessità di costituire i Consigli prima di aver risolto il problema della direzione rivoluzionaria incarnata nel partito, e a stabilirne quasi una forma a priori dell’azione rivoluzionaria: “Il Consiglio tende, per la sua spontaneità rivoluzionaria, a scatenare in ogni momento la guerra delle classi; il sindacato, per la sua forma burocratica, tende a non lasciare che la guerra di classe venga mai scatenata [...]. La forza del Consiglio consiste nel fatto che esso aderisce alla coscienza della massa operaia, è la stessa coscienza della massa operaia che vuole emanciparsi autonomamente, che vuole affermare la sua libertà di iniziativa nella creazione della storia”. Ed è la medesima immaturità, accompagnata da una totale incomprensione del ruolo del partito, della assoluta necessità di giungere ad una chiarificazione con centro e destra del partito socialista prima che si esaurisse la grande e generosa ondata di lotte che scuoteva il Paese, che lo spingerà a queste stupefacenti dichiarazioni: “Abbiamo sempre ritenuto che dovere dei nuclei esistenti nel Partito sia quello di non cadere nelle allucinazioni particolarisitiche (problema dell’astensionismo, problema della costituzione di un partito veramente comunista) ma di lavorare a creare le condizioni di massa in cui sia possibile risolvere tutti i problemi particolari come problemi dello sviluppo organico della rivoluzione comunista”[14]. Ed è veramente difficile, su queste basi, individuare le ragioni che spingono “studiosi” di tutte le parrocchie ad affermare che “nell’azione politica di Gramsci ed in tutti i suoi scritti sarà presente e costante l’esigenza profonda di assimilare e di fare assimilare alle masse l’esperienza e l’insegnamento di Lenin e dei bolscevichi”[15].

Che cosa avranno infatti ancora nel 1922 da rimproverarsi in merito alla scissione di Livorno Gramsci e i suoi compagni dell’ Ordine Nuovo, che la Sinistra criticava per “non essere stati prima con quelli che volevano spezzata l’unità e messe da parte le degenerazioni elettorali e corporativiste” (Il Soviet, 2 maggio 1920)?

“La reazione si è proposta di ricacciare il proletariato nelle condizioni in cui si trovava nel periodo iniziale del capitalismo: disperso, isolato, individui, non classe che sente di essere una unità e aspira al potere. La scissione di Livorno [...] è stata senza dubbio il più grande trionfo della reazione”[16]. Qui si vede che più di una salda dottrina, più di un’intransigente direzione, più di princìpi teorici ed organizzativi i cui criteri sono fissati dal momento in cui il proletariato si è costituito come classe per sé, contava (e conterà sempre più per i partiti “comunisti” oscenamente prostrati all’interclassismo antifascista) per Gramsci l’unità a tutti i costi, quell’unità con i “centristi” che mal si adattò ad abbandonare nel 1920, e che fece solo sulla spinta di violenti moti di classe. Come non ricordare qui il Lenin del 1920, così a torto usato contro la Sinistra? “La scissione è in ogni caso preferibile alla confusione, che intralcia lo sviluppo ideale, teorico, rivoluzionario del partito, che ostacola la maturazione del partito e il suo lavoro pratico, concorde, realmente organizzato, realmente capace di preparare la dittatura del proletariato” (L’“Estremismo” malattia infantile del comunismo, Appendice: La scissione dei comunisti tedeschi).

6. Gramsci alla direzione del PCd’I

E’ nota la battaglia che la Sinistra “italiana” condusse nei confronti dell’Internazionale[17]. I punti di discussione - discussione che avvenne sempre bene all’interno della riconosciuta comune piattaforma marxista - toccarono via via temi di ampio coinvolgimento teorico: il parlamentarismo rivoluzionario e più in generale il principio democratico; la necessità vitale di porre limiti ben netti nella azione tattica di tutti i partiti aderenti all’Internazionale; gli ibridi maneggi atti a “conquistare una maggioranza” non attraverso l’azione e la lotta a diretto contatto con la classe, ma attraverso blocchi con classi o partiti di provata attitudine antirivoluzionaria.

Contrariamente a quanto scritto da falsificatori di ogni tendenza, il giovane PCd’I fu probabilmente l’unico partito comunista europeo a tradurre nella pratica le direttive tattiche dell’IC. Ciò sia nei riguardi dell’azione sindacale, sia nello stringere i legami con un proletariato che ormai, nel 1921, cominciava a mostrare segni di cedimento dopo quattro anni di guerra e poi due di lotte molto aspre e condotte con grande generosità di classe. Fu organizzata una rete illegale e militare che, in epoca di riflusso, avrebbe comunque potuto consentire un ritiro ancora su posizioni di forza[18]. Fu seriamente organizzato un tentativo di fronte unico delle organizzazioni operaie contro il fascismo. Se esso fallì, ciò dipese esclusivamente dall’atteggiamento indeciso degli altri partiti che avevano séguito nel proletariato. Le Tesi di Roma (1922) e, in generale, tutto l’atteggiamento concreto del partito nei primi due anni della sua esistenza, mostrano come fosse chiaro a tutti che un’azione tesa alla conquista del potere non si poteva più porre, mentre era assolutamente necessario salvare la integrale base dottrinale senza cedere ad eclettismi tattici. Questi tatticismi, anziché portare agli auspicati successi nella conquista delle masse, avrebbero fatto perdere di vista - come naturalmente avvenne - i fini dell’azione e del programma rivoluzionario.

Tuttavia, sotto l’assoluta necessità di rompere l’accerchiamento russo e nello sforzo di generalizzare le lotte in una Europa il cui proletariato, ancora generosamente battagliero, subiva tuttavia le esitazioni e la poca chiarezza della direzione, iniziarono da parte dell’Internazionale pressioni sempre più forti tese a promuovere iniziative di “accordi” o di “alleanze” temporanee con partiti a torto considerati “operai”. E’ l’inizio del ripiegamento sul piano presunto tattico, che anticipa di poco la catastrofe con l’abbandono dei principi fondamentali del comunismo[19]. Dimenticando la lezione dell’Ottobre e quella di segno opposto dei Noske e degli Scheidemann, l’Internazionale si avvierà su un piano inclinato al fondo del quale una intera generazione di militanti verrà inghiottita dallo stalinismo avanzante.

E’ in questo contesto che il centro dirigente del PCd’I viene arrestato all’inizio del 1923. L’attività del partito rimane paralizzata per alcuni mesi, mentre l’Internazionale cercava una soluzione di comodo per ottenere una direzione meglio allineata sulle proprie posizioni. La trovò in Gramsci, a Mosca dal maggio del 1922 come rappresentante del PCd’I presso l’Esecutivo dell’Internazionale. Quando Rakosi, a nome dell’ Esecutivo dell’IC, gli proporrà di prendere la direzione del PCd’I, Gramsci risponde che avrebbe “fatto il possibile per aiutare l’Esecutivo dell’Internazionale a risolvere la questione italiana”[20].

Tuttavia, è chiaro che, con la costituzione del nuovo Centro, il partito non usciva affatto dalla grave crisi che lo stava colpendo. Come perfettamente spiegato in un Appello a tutti i compagni del partito, scritto in carcere nei primi mesi del 1923, A. Bordiga invitava ad una pronta riflessione non tanto “alla crisi di efficienza ed organizzativa che consegue inevitabilmente dalla vittoria delle forze antiproletarie in Italia, crisi che merita anche tutta l’attenzione, ma che potrebbe essere fronteggiata, se altro non vi fosse, con opportune misure dagli organi direttivi fedelmente eseguite. Si tratta di un’altra crisi, che purtroppo aggrava le conseguenze della prima: crisi interna, di direttive generali, che da singole questioni tattiche ormai si è allargata a tutta la impostazione di principio ed alla tradizione della politica di partito. Questa crisi non ha avuto origine da dissensi interni, ma da divergenze tra il partito italiano e l’Internazionale Comunista [...] Tra fatti vanno considerati: 1) Il partito italiano ha avuto opinioni divergenti da quelle dell’Internazionale, circa la tattica “internazionale” comunista; 2) La divergenza per le cose italiane si è manifestata ancora più grave, uscendo dal limite della “tattica” per toccare le stesse basi di costituzione del partito. 3) L’Internazionale è andata e va ancora modificando le sue direttive finora apparentemente in materia di tattica, ma ormai anche in materia di programma e di norme fondamentali organizzative”[21]. Si stanno profilando sul movimento comunista internazionale le ombre lunghe della “bolscevizzazione” (cioè la ricostruzione dei partiti sulla base delle cellule di azienda), degli espedienti tattici del momento, dei fronti unici ai vertici dei partiti, dei governi operai e delle rimozioni in blocco di direzioni di partiti “rei” di non seguire le formulazioni sempre più incerte dell’Internazionale (è il caso dell’Italia) o di non aver saputo dirigere l’assalto rivoluzionario in modo vincente (è il caso dell’autunno del 1923 in Germania, che costerà la decapitazione del KPD).

7. La nuova tattica del PCd’I dopo il 1923

Resta il fatto, ben documentato anche dalla stampa centrista di partito di quegli anni, che la base dei militanti rimase fedele all’indirizzo della Sinistra, nonostante tutti gli sforzi che la frazione di centro (con Gramsci si schiereranno rapidamente Togliatti, Terracini e Scoccimarro, mentre Tasca, del vecchio gruppo dell’Ordine Nuovo, si porrà su posizioni di destra) si vedrà costretta a fare per spostare su di sé la fiducia degli iscritti. Nel 1924 la tattica fusionista, così a lungo e tenacemente perseguita dall’IC e dal nuovo centro, “guadagna” al partito un gruppo di socialisti fautori dell’Internazionale (i cosiddetti “terzini”). Il partito allarga le proprie fila mentre l’assassinio del deputato socialista Matteotti sembra far perdere consensi al partito fascista.

E’ in questo quadro di profonda crisi politica ed organizzativa del partito, e in un isolamento quasi completo anche nei confronti dei suoi più fedeli alleati, che il PCd’I aderisce, assieme a tutte le “opposizioni”, ad un fronte unico di partiti antifascisti, nella costituzione di un vero e proprio Antiparlamento (“Aventino”). In un primo tempo la direzione del partito entrò in un fantomatico “Comitato delle opposizioni”, allo scopo di promuovere uno sciopero generale. Fallita il giorno stesso l’iniziativa, l’Esecutivo sosterrà la tattica dell’autonomia, rilanciando da solo la direttiva di uno sciopero che, limitato nelle adesioni e circoscritto a poche città, sostanzialmente fallì.

Poiché regna la massima confusione sul “che cosa fare”, sarà l’Internazionale - per il tramite del suo rappresentante, Humbert-Droz[22] - a correre in soccorso. Essa proporrà alle opposizioni di proseguire il boicottaggio parlamentare, trasformandolo quindi in una assemblea parlamentare delle opposizioni contro e fuori dal parlamento fascista. Si costituiranno milizie popolari, si inviterà il popolo a non pagare le imposte “finché non saranno ristabilite le libertà per la classe operaia [...] In questa situazione non dobbiamo avere scrupoli di procedura, ma dobbiamo rivolgerci tutte le volte che lo riterremo opportuno, direttamente e pubblicamente alle opposizioni per smascherarle”[23]. Sarà questa, almeno tendenzialmente, la tattica antifascista del PC; una tattica interclassista, che pone al centro delle proprie rivendicazioni antifasciste la lotta per le libertà democratiche, anticipando di un ventennio la tattica dei fronti di liberazione. Lo esporrà con chiarezza lo stesso Gramsci: “E allora l’antiparlamentarismo, la costituzione di un organismo cioè rappresentativo e direttivo di tutte le correnti antifasciste, facente appello all’azione diretta del popolo italiano, sarà acclamato. Ma forse sarà tardi. In ogni ora politica vi è un adatto mezzo di lotta. L’antiparlamentarismo sarebbe oggi la parola d’ordine che le masse italiane accetterebbero; domani, aggravandosi la situazione [...] il proletariato italiano - ridotto alla disperazione e alla fame - vorrà ben altro”[24]. E il giorno dopo lo stesso Gramsci chiariva, in un rigurgito ordinovistico, in che modo “la pesante tirannide del fascismo” sarebbe stata abbattuta dai lavoratori, “i quali si sentiranno infine spinti ad organizzare la loro riscossa antifascista e antiborghese nei comitati degli operai e dei contadini che oggi [?] si pongono concretamente come il solo strumento di lotta per abbattere la dittatura fascista”[25].

L’atteggiamento della Sinistra di fronte all’evidente stato confusionale della direzione del partito fu, da una parte, un richiamo severo all’applicazione delle direttive dell’Internazionale in tema di parlamentarismo, dall’altra un monito a non trasformare la vicenda in una “questione morale” di cui sarebbe stato meglio parlare solo con partiti “amici”. L’invito della Sinistra affinché il partito rientrasse nel parlamento, indipendentemente da qualsiasi decisione presa da partiti di opposizione, fu accettato solo in quanto quei partiti si rifiutarono di mobilitarsi attorno ad una qualsiasi delle proposte di azione espresse dalla direzione. E tuttavia l’episodio sta a dimostrare come, anche sulla questione del parlamentarismo rivoluzionario tanto cara ai centristi, solo la Sinistra sapesse difendere posizioni autenticamente marxiste, contro l’ “astensionismo contingente” dei democratici antifascisti, pronti a far la spola fra parlamento e “antiparlamento” al solo fine della conservazione dell’ordine borghese[26].

Appare chiaro, da queste citazioni, come si fronteggino qui due concezioni profondamente diverse del processo rivoluzionario, del ruolo storico del partito, dello sviluppo e dell’evoluzione del capitalismo. La concezione che la Sinistra aveva elaborato sul fascismo venne presentata, oltre che in una lunga serie di articoli sulla stampa “nazionale”, anche al IV e al V Congresso dell’Internazionale. Il fascismo rappresenta un movimento antiproletario più moderno, più raffinato rispetto alla democrazia liberale. Esso unisce gli interessi della grande borghesia terriera, della grande industria e della grande finanza, che hanno saputo mobilitare la piccola borghesia a proprio favore, con l’appoggio pieno dell’apparato statale. Da un punto di vista ideologico, esso non produce nessuna novità; rispetto allo stato liberale del dopoguerra, esso porta invece un poderoso apparato di lotta politica e militare. Da questa analisi, la Sinistra sostiene la necessità di una tattica che difenda il ruolo indipendente del partito, liquidando i gruppi di opposizione antifascista e agendo per l’azione diretta e aperta. “Certo, la lotta è possibile solo con la partecipazione delle masse. La gran massa del proletariato sa molto bene che la questione non può essere risolta con l’offensiva di una avanguardia eroica. Questa è una concezione ingenua, che ogni partito marxista deve respingere. Ma [...] dobbiamo respingere l’illusione che un governo di transizione possa essere tanto ingenuo da permettere, con mezzi legali o manovre parlamentari, con espedienti più o meno abili, l’aggiramento delle posizioni della borghesia, cioè la presa di possesso legale della sua intera macchina tecnica e militare e la pacifica distribuzione della armi ai proletari; e che, fatto ciò, si possa dare tranquillamente il segnale della lotta. Questa è davvero una concezione infantile ed ingenua! Non è così facile fare la rivoluzione”[27].

Il punto di vista centrista sul fascismo fu presentato da Gramsci in una relazione al CC del partito nell’agosto 1924. Secondo lui, il fascismo “è giunto al potere sfruttando e organizzando l’incoscienza e la pecoraggine della piccola borghesia [...] Perché in Italia la crisi delle classi medie ha avuto conseguenze più radicali che negli altri paesi [...]? Perché da noi, dato lo scarso sviluppo dell’industria e dato il carattere regionale dell’industria stessa, non solo la piccola borghesia è molto numerosa, ma essa è anche la sola classe “territorialmente” nazionale”. L’aspetto che caratterizza l’avvento al potere del fascismo è la disgregazione sociale e politica dello stato unitario, conseguenza della crisi del dopoguerra; ciò non avrebbe avuto luogo se la classe operaia, nel 1920, non avesse “fallito al suo compito di creare coi suoi mezzi uno Stato capace di soddisfare anche le esigenze nazionali unitarie della società italiana [...]. Il compito essenziale del nostro partito consiste nella conquista della maggioranza della classe lavoratrice, la fase che attraversiamo non è quella della lotta diretta per il potere, ma una fase preparatoria, di transizione alla lotta per il potere [...] Queste lotte devono essere viste nel quadro della fase di transizione, come elementi di propaganda e di agitazione per la conquista della maggioranza”.

Le tattiche “elastiche” o, per meglio dire, in contraddizione con i principi, hanno una loro logica inesorabile. Se si abbraccia la “causa della nazione”, se si fanno proprie le inquietudini della piccola borghesia e dei contadini, se si fa la corte ai nazionalisti, si finirà necessariamente per considerare la socialdemocrazia non più come ala sinistra della borghesia, ma come una frazione di destra ma pienamente recuperabile del movimento operaio. Le disastrose posizioni di Gramsci sull’intero problema del fascismo, della tattica fusionista, del fronte unico, rappresentano uno scivolamento non solo verso l’antifascismo borghese per rivendicazioni democratiche, ma preludono alla politica dei fronti popolari e della partecipazione a governi borghesi. L’abbandono della politica rivoluzionaria di Livorno non può essere più netto.

8. Il carcere. I Quaderni e la riflessione “filosofica”. L'eredità.

La funzione storica di Gramsci, quella di allineare il PCd’I alla politica di un’Internazionale ormai ripiegata sui destini dell’Unione sovietica, si conclude con il III Congresso che il partito, messo fuori legge dal fascismo, deve tenere a Lione nel gennaio 1926. Sconfitta la Sinistra, si pone ora il problema della riorganizzazione (all’interno e all’estero) del movimento. E’ un compito che spetterà ad altri. Alla fine dell’anno Gramsci verrà arrestato e resterà in carcere fino alla morte, avvenuta nel 1937.

Durante il lungo periodo detentivo Gramsci si dedicherà allo studio di una serie di problemi sociali, economici, letterari, filosofici, storici. Sarà toccata la questione meridionale, il problema della nazione italiana e degli intellettuali, il proletariato come forza “egemone”, il partito come “intellettuale collettivo”, o “moderno Principe”. Si tratta di quell’elaborazione teorica che tanto piace a intere schiere di “pensatori di sinistra”: vi vedono infatti, e non a torto, una “riassunzione del concetto di “dialettica” nel significato hegeliano-marxistico”; “un’investigazione nella concreta realtà italiana e di elaborazione teorica”; un’analisi di problemi che, se non possono essere tutti risolti, sono almeno “proposti con originalità”.[28]

I “meriti” principali che verranno riconosciuti a Gramsci dagli epigoni stalinisti sono la sua “riflessione” sul Risorgimento italiano, sul suo più o meno esplicito frontismo - che verrà adottato in pieno nei blocchi partigiani della seconda guerra mondiale - sulla sua capacità di adeguare il marxismo alla realtà italiana (espressione che caratterizza ogni opportunismo).

Per Gramsci, dunque. il Risorgimento italiano è consistito in una rivoluzione "passiva", dall'alto. Ad esso è mancato quel contributo popolare che ha reso possibile il completo sviluppo nazionale delle rivoluzioni borghesi in altri Stati europei. Esso è stato dunque la conseguenza di una mancata rivoluzione agraria, di un ruolo non assolto da parte degli intellettuali, che non solo non hanno saputo guidare la rivoluzione, ma non sono neppure riusciti a creare uno Stato moderno.

Le conclusioni che vennero tratte da tali premesse dal PCI stalinizzato furono dunque che l'intreccio di una irrisolta questione nazionale, meridionale e morale (il tradizionale "malgoverno" italico) dovesse spingere una coalizione di partiti e di classi verso il compimento della rivoluzione borghese, facendo rivivere, in funzione antifascista, una sorta di radicalismo borghese. Fu questa una, e non l'ultima, delle giustificazioni teoriche che i dirigenti di un PCI ormai perso alla causa rivoluzionaria vollero accampare per porsi alla guida del "secondo Risorgimento", quello che avrebbe sconfitto l'arretrato fascismo. Si trattava perciò soprattutto, secondo la ricostruzione che ne farà Togliatti, “della funzione nazionale che spettava al proletariato per dare al nostro paese quella interiore costruzione unitaria che le classi capitalistiche non avevano saputo dare, perché avevano considerato il Mezzogiorno come terra di conquista e sfruttamento. E' di questo periodo [1923-1926] lo sviluppo della sua [di Gramsci] intuizione strategica dell'alleanza tra l'operaio delle zone industriali avanzate e la grande massa della popolazione povera e disagiata del Mezzogiorno […] Gramsci ne ricava le più interessanti conseguenze tattiche e politiche, sino a stabilire la solidarietà con i movimenti autonomisti che allora sorgevano nelle regioni meridionali e prevedere una particolare struttura del potere dello Stato operaio e contadino, per dare a questi movimenti la necessaria soddisfazione e fondare su nuove basi democratiche l'unità del paese[29] [nostre sottolineature]. Ed ecco perciò fiorire, anche nel secondo dopoguerra, la teoria e la pratica dei governi di coalizione borghesi per la democrazia progressiva: quelli che, si disse ipocritamente, serviranno sul lungo periodo come transizione ad un socialismo popolare. La causa di questa "via italiana al socialismo", diranno gli eredi del peggior Gramsci, sta proprio nella presunta arretratezza del capitalismo italiano. Di qui la necessità di ripercorrere tutti i gradini dell'opportunismo in nome ,di una fantomatica interpretazione “marxista” della realtà italiana, alla quale si dovrebbero (ancora nel 1945!) adattare tattiche di “doppia rivoluzione” da interrompere, beninteso, alla sua fase democratica kerenskiana.

È opportuno ricordare che la nostra teoria della doppia rivoluzione è esposta a tutta pagina negli studi che Marx ed Engels hanno dedicato alle rivoluzioni europee del 1848-50. In Germania, dove lo sviluppo economico e sociale era nettamente in ritardo rispetto ad Inghilterra e Francia, “la classe operaia prese le armi con la piena coscienza che, per le sue conseguenze immediate, questa lotta non era la sua. Essa seguiva però la sola linea politica giusta, di non permettere a nessuna classe elevatasi sulle sue spalle […] di consolidare il suo dominio di classe senza per lo meno aprire alla classe operaia un libero campo per la lotta per i suoi interessi. In ogni caso, la classe operaia si sforzava di portare le cose a una crisi nella quale o la nazione fosse lanciata in modo aperto e irresistibile sulla via della rivoluzione, oppure fosse restaurata per quanto possibile la situazione di prima della rivoluzione, in modo che una nuova rivoluzione diventasse inevitabile. Nell’uno e nell’altro caso la classe operaia rappresentava gli interessi reali e bene intesi della nazione nel suo complesso, perché accelerava il più possibile quello sviluppo rivoluzionario che per le vecchie società dell’Europa civile era ora diventato una necessità storica, e senza il quale nessuna di esse può di nuovo aspirare a una evoluzione più tranquilla e regolare” (Engels, “Rivoluzione e controrivoluzione in Germania”, Vol. XVIII della Opere complete di Marx ed Engels). Tutto ciò non ha proprio nulla a vedere con una classe operaia che, in un contesto storico completamente diverso come quello del XX secolo, dovrebbe farsi portavoce di “istanze nazionali” a vantaggio di una borghesia che ha addirittura ripudiato le sue origini liberali per imboccare la strada del fascismo – cioè la politica di massima concentrazione materiale ed ideologica su scala planetaria che mai la storia abbia conosciuto. Applicare queste tesi nella Russia arretrata agli albori del Novecento è un conto, è una necessità: di fatto è l’applicazione scientifica di leggi storiche. Applicarle all’evolutissima Europa ha solo un nome: tradimento; e una sola prospettiva: quella anticomunista.

Ed è proprio per l’immaturità economica, sociale, politica della situazione europea di metà Ottocento che l’Indirizzo di Marx ed Engels alla Lega dei Comunisti, del marzo 1851, dopo aver elencato tutta una serie di rivendicazioni democratiche, cioè non comuniste, perché “gli operai tedeschi non [possono] giungere al potere e soddisfare i loro interessi di classe senza attraversare un lungo sviluppo rivoluzionario”, dichiara che “essi stessi debbono fare l’essenziale per la loro vittoria finale chiarendo a se stessi i loro propri interessi di classe [autonomia di classe, non alleanza di classi!] assumendo il più presto possibile una posizione indipendente di partito [nessun “fronte unico” con partiti nemici!] e non lasciando che le frasi ipocrite dei piccoli borghesi democratici li sviino nemmeno per un istante dalla organizzazione indipendente del partito del proletariato. Il loro grido di battaglia deve essere: La rivoluzione in permanenza!”[30]

Rinviamo alle pagine seguenti l'analisi del Gramsci “filosofo”. Basterà qui sottolineare che l'entusiasmo che le sue teorie hanno suscitato tra gli intellettuali di mezzo mondo è strettamente legato ad almeno due elementi.

1) Al suo tentativo di fare una sintesi tra marxismo e idealismo, storpiando il materialismo storico in una visione di volontarismo individualistico. Sarà sufficiente questa citazione: “Con Marx la storia continua ad essere dominio delle idee, dello spirito, dell'attività cosciente degli individui singoli ed associati”[31]. Il biografo di Gramsci[32], da questa frase, ricava un “vigoroso rifiuto dell'idealismo” e una negazione della “separazione dell'uomo dalla materia”. Entrati così a testa alta assieme a Gramsci nel mondo del monismo idealistico, questi stessi biografi “critici” potranno rimproverare a Lenin la contraddizione tra il soggettivismo volontaristico delle Opere politiche e l'oggettivismo gnoseologico delle Opere filosofiche! L’incomprensione totale del rapporto dialettico tra la classe e le condizioni materiali in cui essa vive da una parte – “condizioni oggettive” – e l’organo dirigente di questa, il partito, che ne rappresenta ad un tempo coscienza e destino storico, fa parte integrante del mestiere dello storico piccolo-borghese che non può, per oggettiva limitatezza dei propri orizzonti di classe, ergersi ad una visione completa del processo rivoluzionario.

2) Al suo rifiuto esplicito del determinismo, visto come una limitazione inaccettabile alla libertà dell'individuo: “Si può osservare come l'elemento deterministico, fatalistico [?], meccanicistico [?] sia stato un "aroma" ideologico immediato della filosofia della prassi [cioè il materialismo storico], una forma di religione e di eccitante (ma al modo degli stupefacenti) […] Quando non si ha l'iniziativa nella lotta e la lotta stessa finisce quindi con l'identificarsi con una serie di sconfitte, il determinismo meccanico [?] diventa una forza formidabile di resistenza morale, di coesione, di perseveranza paziente e ostinata […] La volontà reale si traveste in un atto di fede, in una certa razionalità della storia, in una forma empirica e primitiva di finalismo appassionato che appare come un sostituto della predestinazione, della provvidenza ecc. delle religioni confessionali […] è anzi da porre in rilievo come il fatalismo non sia che un rivestimento da deboli […] quando viene assunto a filosofia riflessa e coerente da parte degli intellettuali, diventa causa di passività, di imbecille autosufficienza”[33]. Come non ricordare qui il Gramsci che, alla conferenza di Como (1924), in un vivace contraddittorio con Bordiga, reclamava di “aver fretta”? La fretta di recuperare l'appoggio delle masse attraverso l'azione, la volontaristica resistenza all'ondata controrivoluzionaria, cui ci si opporrebbe non con la più stretta delimitazione dell'area di manovra del partito, nel più rigoroso rispetto dei princìpi per il rilancio dell'azione rivoluzionaria domani; ma con i disinvolti svolazzi tattici, ai quali adattare oggi quei principi che non erano nostri ieri e non lo saranno domani.[34]

Alle storture gramsciane e a quelle dei suoi eredi si rispose che la “base” economica non è solo salario e commercio, ma anche ogni forma riproduttiva della specie, sia biologica sia tecnica (meccanismi di trasmissione culturale inclusi)[35]. Si rispose che determinismo non è passivismo, ma chiarisce che l'azione precede la conoscenza, permettendo tuttavia la previsione del movimento rivoluzionario. “Noi sosteniamo che la fase di ripresa del movimento operaio rivoluzionario non coincide unicamente con le spinte provenienti dalle contraddizioni del materiale svolgimento economico e sociale della società borghese, la quale può attraversare periodi di gravissime crisi, di contrasti violenti, di collassi politici, senza per questo che il movimento operaio si radicalizzi su posizioni estreme, rivoluzionarie. Cioè, non esiste automatismo nel campo dei rapporti tra economia capitalistica e partito proletario rivoluzionario[36]

Non aver mai capito questi elementi dell'abc del marxismo hanno fatto di Gramsci uno dei corifei dell'opportunismo.

E' in questo che consiste lo "strano" destino di Gramsci, e che al tempo stesso è la sua involontaria eredità intellettuale. Egli è passato indenne attraverso le pieghe della storiografia stalinista, in quanto venerato come oppositore della Sinistra; di quella democratica post-stalinista, perché celebrato come precursore delle vie nazionali al socialismo; di quella trotzkista, in quanto acclamato come antistalinista; di quella liberal-resistenziale, osannato qui come l' “uomo di cultura” ingiustamente perseguitato, là come apologeta e precursore dei fronti uniti interclassisti; di quella operaista, che lo riconosce come precursore immediatista o situazionista; e infine, di quella terzomondista, come antesignano delle rivoluzioni contadine e popolari. Per tutti, è evidente, il lascito di Gramsci consiste nel suo antimarxismo di fondo, nella sua disinvoltura sul piano tattico, che si pretende leninista. Nel suo “sminuire l'importanza delle parole d'ordine tattiche strettamente conformi ai principi […] L'elaborazione di decisioni tattiche giuste ha una grandissima importanza per un partito che voglia dirigere il proletariato in uno spirito rigorosamente conforme ai principi del marxismo, e non semplicemente trascinarsi a rimorchio degli avvenimenti.” (Lenin, Due tattiche della socialdemocrazia nella rivoluzione democratica, Opere complete, 9, Ed. Riuniti).

La lezione della storia, anche con le sue dolorose sconfitte, non potrebbe essere più chiara per chi la vuole intendere.

 

Note

[1] Tale era la valutazione di questa concezione che ne dava il II Congresso dell’Internazionale Comunista, Tesi sulle condizioni per la creazione dei Consigli di operai, tesi X.

[2] Lo riconoscerà in seguito egli stesso: “Partecipavamo in tutto o in parte al movimento di riforma morale ed intellettuale promosso in Italia da Benedetto Croce”. Lettera a Tatiana Schucht, 17 agosto 1931. Lettere dal carcere, ed. Einaudi 1965.

[3] “La coscienza di classe... è una affermazione lenta e faticosa, perché si tratta di rimuovere tutto un adattamento tradizionale dei sentimenti e della volontà; ma senza questo rinnovamento psicologico... nessuna trasformazione sociale può avverarsi nella storia”. R. Mondolfo, Il materialismo storico in Federico Engels. Firenze, La nuova Italia 1952, pag. 242.

[4] Si veda ad esempio Ch. Riechers, Gramsci e le ideologie del suo tempo, Ed. Graphos, Genova 1993.

[5] “Il Sillabo ed Hegel”, Il Grido del Popolo, 15 gennaio 1916. Di passata, ricordiamo che il Sillabo fu dettato da Pio IX nel 1864, contro ogni sia pur timida adesione dei cattolici al movimento liberale borghese.

[6] “Il socialismo di ieri dinanzi alla guerra di oggi”, in L’Avanguardia, ottobre-novembre 1914;ora in Storia della Sinistra I, 1964, pag. 250.

[7] “Note sulla rivoluzione russa”, Il Grido del Popolo, 29 aprile 1917.

[8] Il termine giacobino è qui usato non nel senso leninista di partito ferreamente organizzato e diretto, ma nel senso deteriore di sfrenato individualismo, di conventicola, di setta. Il giacobino sarà per Gramsci “l'uomo politico energico, risoluto e fanatico, perché fanaticamente persuaso delle virtù taumaturgiche delle sue idee, qualunque esse fossero” (Quaderni, III).

[9] Questo sostiene F. De Felice nella sua relazione a I comunisti a Torino 1919-1972, a cura di G.C. Pajetta, Ed. Riuniti, 1974, pag. 20

[10] Al Congresso di Bologna, ottobre 1919, l'Ordine Nuovo votò a favore dei “comunisti elezionisti”, cioè dei serratiani.

[11] “Tali organizzazioni nascono entro il regime borghese e come espressione della libertà borghese. Sono organizzazioni che vengono riconosciute dalle masse in quanto loro riflesso e loro embrionale apparato di governo; ma sono organizzazioni che non incarnano il processo rivoluzionario, non superano lo Stato borghese, non abbracciano il pullulare di forze rivoluzionarie mosse dal capitalismo. Il processo rivoluzionario si attua nella produzione, dove non c'è libertà né democrazia”. (Il Consiglio di fabbrica, Ordine Nuovo, 5 giugno 1920). Qui si palesa tutto l'operaismo gramsciano, antipartitico ed antileninista. E si capisce perfettamente perché, in tutti gli svolti precedenti (riunione illegale di Firenze, novembre 1917; Congresso di Bologna, ottobre 1918; e anche Livorno 1921) Gramsci non abbia preso la parola o si sia arroccato, per non compromettersi, sulla critica all'astensionismo della Sinistra.

[12] La sinistra comunista in Italia sulla linea marxista di Lenin, Ed. il programma comunista, 1964, pag. 109.

[13] “Ai Commissari di reparto delle Officine Fiat Centro e Brevetti”, l'Ordine Nuovo, 13 settembre 1919). Sull’entusiasmo tayloristico di Gramsci per l’organizzazione sociale della produzione come si svolge nelle fabbriche andrà ricordato Marx: “La divisione manifatturiera del lavoro ha per effetto che le potenze intellettuali del processo materiale di produzione si contrappongano all’operaio come proprietà altrui e come potere che lodomina. Questo processo di scissione ha inizio nella cooperazione semplice, in cui il capitalista rappresenta di fronte agli operai singoli l’unità e volontà del corpo lavorativo sociale; si sviluppa nella manifattura, che mutila e storpia il lavoratore trasformandolo in operaio parziale; giunge a compimento nella grande industria, che separa la scienza dal lavoro come potenza produttiva indipendente, e la piega al servizio del capitale” (Il Capitale Ed. UTET, Torino 1974, pag. 491).

[14] “Due rivoluzioni”, L’Ordine Nuovo, 3 luglio 1920: due settimane più tardi si riuniva il II Congresso dell’Internazionale!

[15] L. Lombardo Radice e G. Carbone, Vita di Antonio Gramsci, Ed di Cultura Sociale, Roma 1952, pag.119-120.

[16] P. Togliatti, La formazione del gruppo dirigente del Partito comunista italiano nel 1923-1924, Editori Riuniti, 1984, pag. 102.

[17] In particolare, Storia della Sinistra comunista, vol. II, III e IV, ed. Il programma comunista, Milano 1972, 1982, 1997 .

[18] Si veda la Storia della Sinistra comunista, vol. IV, ed. Il programma comunista, Milano 1997.

[19] E’ a questo punto che viene avanzata la formula del “governo operaio”; cioè a parole, si dirà, l’equivalente di “dittatura del proletariato” ma, nella pratica, l’alleanza di governo tra comunisti e partiti piccolo-borghesi.

[20] Lettera a Scoccimarro e Togliatti, 1 marzo 1924.

[21] Rivista Storica del Socialismo, numero 23, pag. 515.

[22] Humbert-Droz ha lasciato numerose testimonianze della sua non sempre limpida azione in Italia come rappresentante dell’IC. Per quanto riguarda la Sinistra, egli scrive: “Il mio scopo era di introdurre una differenziazione [notare l'eleganza della formulazione] nella maggioranza estremista del Partito comunista d’Italia e di staccare da Bordiga il gruppo di Gramsci, per affidargli la direzione del partito. Già nel congresso di Roma [del 1922], il gruppo di Gramsci, pur appoggiando Bordiga, aveva manifestato una certa indipendenza e aveva espresso delle sfumature che bisognava usare per isolare la tendenza ultrasinistra di Bordiga” (J. Humbert-Droz, L’Internazionale comunista tra Lenin e Stalin. Ed. Feltrinelli, pag. 197).

[23] J. Humbert-Droz, Il contrasto tra l’Internazionale e il P.C.I. 1922-1928, Ed. Feltrinelli, pag. 186.

[24] “L’Antiparlamento”, l’Unità, 11 novembre 1924.

[25] “Il nullismo dell’Aventino”, l’Unità 12 novembre 1924.

[26] Si veda il nostro O preparazione rivoluzionaria o preparazione elettorale, Ed. Il Programma Comunista, 1968.

[27] Rapport de A. Bordiga sur le fascisme au Vme Congrès de l’Internationale Communiste, in Communisme et fascisme, ed. Programme Communiste, 1970, pag. 141-142.

[28] G. Fiori, Vita di Antonio Gramsci, Ed. Laterza, 1966.

[29] P. Togliatti, La formazione del gruppo dirigente del Partito comunista italiano nel 1923-1924, Ed. Riuniti.

[30] K. Marx. F. Engels, “Indirizzo del Comitato centrale alla Lega” (marzo 1850), Opere complete, Vol. X, Editori Riuniti 1977, pag. 275-76.

[31] A. Gramsci, Il nostro Marx, Il Grido del Popolo, 4 maggio 1918.

[32] Tra i tanti, menzioniamo G. Tamburrano, Antonio Gramsci. Una biografia critica. Lacaita 1963, tra l'altro perché di estrazione socialista e non "comunista".

[33] Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce. Einaudi 1949, pag. 13-14.

[34] Non si può dimenticare, d'altra parte, che neppure Gramsci – purtroppo, ma non per caso! -“ebbe fretta” nel 1919 quando, al Congresso di Bologna, votò con i massimalisti, impedendo di fatto quella chiarificazione tra le file rivoluzionarie che fu possibile attuare solo due anni dopo.

[35] Vedi l'articolo "I fattori di razza e nazione nella teoria marxista", il programma comunista, n. 17, 1953.

[36] "Attivismo", battaglia comunista, n. 7, 1952.

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