DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Le recenti vicende dell’Eurozona, lo spazio monetario unificato che per l’europeismo piccolo borghese rappresenta la tappa più avanzata nel cammino verso un’“Europa concorde e politicamente unita”, confermano l’inconsistenza di quella visione velleitaria, pronta a convertirsi in aperto nazionalismo non appena le contraddizioni del modo di produzione capitalistico accentuano gli squilibri e le diseguaglianze, alimentando i conflitti interstatali e la lotta di classe.

1- Illusioni dure a morire

A distanza di cinque anni dalla crisi “dei debiti sovrani”, gli sviluppi delle trattative sul debito della Grecia hanno nuovamente palesato i limiti e gli squilibri dell’assetto comunitario, i contrasti crescenti tra i suoi membri. Il carattere illusorio del progetto di una pacifica integrazione tra nazioni su base paritaria appare sempre più evidente, tanto che oggi anche i più convinti fautori dell’europeismo vacillano di fronte a una potenza dominante che impone al governo di una piccola nazione politiche che la condannano al crollo economico e alla catastrofe sociale. L’altro mito che si trascina per inerzia, sebbene sia sempre più offuscato dagli effetti sociali della crisi, dal dilagare della miseria, dalla pressione migratoria, vorrebbe un’“Europa modello di benessere, welfare, rispetto dei ‘diritti umani’”.

E’ in nome di questo modello che la nazione schiacciata dalle pretese dei creditori si è espressa in un referendum contro l’austerità e, nello stesso tempo, a favore dell’Europa e della permanenza nell’unione monetaria. Evidentemente, il miraggio di una federazione europea (1), che nella visione dei padri ispiratori avrebbe dovuto porsi a garanzia della stabilità e della cooperazione continentale e mondiale, continua a esercitare un fascino, sbiadito ma duro a morire.

Ma la realtà va in un’altra direzione. L’ordine mondiale uscito dal secondo conflitto imperialista, già sconvolto dal crollo del blocco sovietico, manifesta nuovi e più gravi sintomi di cedimento. L’Europa si ripresenta oggi come punto d’incontro delle complesse tensioni internazionali che contrappongono Est e Ovest lungo la linea che unisce Baltico e Mar Nero, e Nord e Sud lungo l’asse mediterraneo, con il polo magnetico di là dell’Atlantico (gli USA) più che mai attivo nel trattenere l’area continentale entro la sua orbita. I teatrini della concordia europeista appartengono all’epoca in cui le tensioni interessavano aree lontane o la periferia del continente: ma con la crisi economica e le tensioni geopolitiche a mettere in gioco i vitali interessi dei capitalismi nazionali, i rapporti di forza si fanno brutalmente espliciti e si riaffacciano gli spettri di un passato non troppo lontano di nazionalismi, sopraffazione e guerre che si pretendevano cacciati per sempre dalla storia. Chissà che, con essi, l’altro spettro, continuamente esorcizzato ma sempre aggirantesi per l’Europa, non torni a manifestarsi…

L’illusione più dura a morire è che questa crisi, iniziata ormai nel 2008, prima o poi sarà superata: che, passata a’ nuttata, tutto il bel meccanismo di creazione di ricchezza si rimetterà in moto, coinvolgendo nella sua spirale benefica la classe salariata. Ma il suo andamento, soprattutto in Europa, non segue il percorso di una crisi ciclica: il grado elevatissimo di sviluppo raggiunto dalle forze produttive riduce il saggio del profitto medio a una frazione troppo piccola in rapporto al totale del capitale investito, cosicché la dinamica dell’accumulazione ne risulta frenata, gli investimenti latitano e si gonfia la pletora di capitale fittizio alla ricerca di rendimenti fuori dalla produzione reale. Questo Pil che non cresce, o non cresce abbastanza, è la ragione ultima dell’inasprirsi dei rapporti politici e diplomatici: la torta da spartire sempre più piccola, così tra le classi come tra le nazioni, accende la conflittualità sociale e interstatale. E’ la necessità intrinseca al modo di produzione capitalistico a condannare l’attuale crisi europea a evolvere, non certo verso una ritrovata concordia tra gli Stati, ma verso una crescente instabilità, che non esclude rotture traumatiche e cambiamenti radicali nell’assetto politico dell’area.

2- Crisi dell’eurozona e crisi del capitale mondiale

Intervistato sulle prospettive di crescita in Europa, un imprenditore italiano che ha delocalizzato in Cina ha dichiarato: “Qualcuno dovrebbe investire”; ma alla domanda se lui lo farebbe, risponde: “Non sarei più competitivo” (2). Nel resto dell’intervista, l’industriale, forte dell’esperienza sul campo, ribadisce che non c’è confronto tra i costi di produzione in Cina e in Europa: nonostante agevolazioni, decontribuzioni, Jobs Act, il costo di un operaio italiano è ancora troppo elevato in rapporto al suo omologo cinese. Sugli altri costi legati all’efficienza dei sistemi-paese (legislazione, burocrazia, corruzione, infrastrutture, tasse) non si è in grado di fare confronti. Tuttavia, un capitalismo avanzato come quello europeo si caratterizza per un vantaggio di produttività oraria rispetto ai capitalismi più giovani, per quanto in rapida crescita. Il più elevato rapporto tra parte costante del capitale e parte variabile abbassa il “costo del lavoro per unità di prodotto” rispetto a produzioni a più basso contenuto di capitale costante. Ciò comporta che il prezzo unitario di produzione sia in linea di massima inferiore e quindi più competitivo del prodotto con maggior contenuto di lavoro umano. Perché allora non investire in Europa?

Quando il nostro industriale pensa a possibili investimenti in Europa, ha senz’altro in mente produzioni ad alto contenuto di tecnologia e di capitale costante. Il voler puntare sulla riduzione del cosiddetto “costo del lavoro” non avvicinerà in ogni caso le retribuzioni ai livelli cinesi e degli emergenti, almeno nel medio periodo. Non c’è Jobs Act che tenga! Fatte queste considerazioni, comunque si voglia intendere la risposta dell’intervistato, l’investimento risulta improduttivo in termini capitalistici. La valutazione del capitalista conferma il nostro inquadramento teorico del problema: non s’investe in Europa perché l’elevata composizione organica comporta già bassi i margini di profitto. Meglio investire in Cina, dove questo rapporto è minore e garantisce margini di profitto maggiori. Qui in Europa, si cerca di comprimere il costo del lavoro, ma non basta. Bisogna smantellare il salario indiretto e differito, il cosiddetto welfare. Su questo, i politici sono concordi quando insistono sulla necessità di “eliminare gli sprechi” nella scuola, nella sanità, nelle pensioni, ovunque la spesa sia diventata “insostenibile” per il capitale.

Il “problema Europa” sta tutto qui: nelle crescenti difficoltà di accumulazione. In uno scenario mondiale di crescita economica a tassi decrescenti, l’aggregato capitalistico europeo mostra la ripresa più stentata, con incrementi medi del Pil di poco sopra l’1%, contro il 2-3% statunitense, il 7% cinese e una media del G20 intorno al 3%. Il latitare degli investimenti in tutta l’Europa occidentale (in modo particolare, in Germania) è il sintomo che le difficoltà di accumulazione che investono tutta l’economia mondiale sono più forti nella vecchia Europa che altrove. Le perduranti magagne dei sistemi bancari europei, che in ultima istanza sono alla base della fibrillazione dell’eurozona, sono una conseguenza del mancato recupero della produzione dopo la crisi del 2008. A quel tempo, dopo che l’esplosione della bolla finanziaria mondiale ebbe colpito duramente le banche europee cariche di derivati tossici, furono necessari ingenti salvataggi pubblici che trasferirono le perdite sui bilanci statali e sui debiti sovrani. I capitali affluiti alle banche non s’indirizzarono però, come auspicato dai salvatori, alla produzione – ancora ingolfata dall’eccesso di capacità produttiva e dalla bassa profittabilità – ma alimentarono ulteriormente la speculazione, tanto che a fine 2011 la bolla finanziaria dei derivati rappresentava quasi dieci volte il Pil mondiale! (3)

A sua volta, l’ammontare dei debiti sovrani dei paesi OCSE aveva quasi raggiunto il livello del Pil mondiale. La situazione era particolarmente critica in Europa, dove era necessario collocare sul mercato una quantità crescente di titoli di Stato, con rendimenti in aumento soprattutto per i paesi finanziariamente ed economicamente più fragili. A quel punto, la speculazione internazionale (leggi: le banche) iniziò a liberarsi dei titoli considerati rischiosi, facendone crollare il prezzo e impennare i tassi. E, poiché quei tassi erano rivelatori degli squilibri tra paesi forti e paesi deboli, tra il Nord “virtuoso” e il Sud “spendaccione”, si profilò il rischio di una deflagrazione dell’Unione monetaria. La minaccia gravava principalmente sulle banche tedesche e francesi, fortemente esposte verso i paesi periferici in difficoltà, sia con i crediti concessi nella fase di espansione sia con titoli di Stato fortemente svalutati.

Per fronteggiare il riacutizzarsi della crisi bancaria e sostenere il valore dei titoli di Stato, la Bce intervenne a più riprese, prima con nuovi prestiti alle banche in cambio di titoli sovrani, poi con finanziamenti a tassi d’interesse bassissimi (Ltro); infine, con il Quantitative Easing (QE) del febbraio 2015. Tutto ciò, senza che la crisi trovasse una soluzione: dal 2009 al 2014, le perdite delle grandi banche europee hanno raggiunto un ammontare pari al Pil greco di un anno. Solo per salvare i big del credito – esclusa la marea di istituti medi e piccoli, landesbanken comprese – tra esborsi per salvataggi e minori introiti fiscali, nello stesso periodo le casse pubbliche dei Paesi dell’Eurozona hanno perso poco meno dei 240 miliardi destinati a “salvare” la Grecia (4). La politica di rigore di bilancio che il capitale internazionale – tramite le istituzioni europee – impone a tutto il continente è quindi una conseguenza delle difficoltà bancarie: è il prezzo che il proletariato europeo paga per i salvataggi dei creditori, e non dei debitori.

La crisi greca è solo la punta dell’iceberg di una generale crisi debitoria: ne rappresenta il capro espiatorio e nello stesso tempo un’opportunità per i creditori di lucrare sugli interessi dei nuovi prestiti. La “salvezza” del debitore si realizza spolpandolo fino all’osso, obbligandolo a rinnovi di credito che rinsaldano le catene del debito, in una sorta di meccanismo di usura continentale. Ma non si può certo pretendere che sia la Grecia, o meglio il proletariato greco, a salvare le banche d’Europa. Piuttosto, il capitale fa affidamento su tutto il proletariato europeo, al quale viene presentato un conto sempre più salato. Il costo dei salvataggi bancari è caricato sulle spalle dei proletari e delle mezze classi in via di proletarizzazione: aumentano le tasse e le tariffe, peggiorano le prestazioni del cosiddetto welfare, vanto del logoro “modello Europa.”

3- L’Internazionalizzazione del capitale e l’Europa

L’arrancare dei capitalismi europei, Germania compresa, è conseguenza della senilità dei loro sistemi sociali e dell’elevatissimo sviluppo delle forze produttive. In più, in rapporto ai capitalismi concorrenti, l’aggregato capitalistico europeo paga la mancanza di un organismo politico centralizzato in grado di approntare le misure necessarie a fronteggiare una competizione mondiale quanto mai aspra. Pesa un deficit di capacità di manovra delle leve dell’economia che gli altri capitalismi, organizzati in forme statali centralizzate possono esercitare tempestivamente. Per quanto questi interventi (manovre monetarie, manovre espansive e sui tassi) non possano risolvere i malanni dell’economia capitalistica in quanto tale, nell’immediato servono a tamponare le falle e a scaricare su altri le difficoltà. La Bce è intervenuta attivamente per finanziare i sistemi bancari, ma conserva il grosso limite di non essere creditore di ultima istanza abilitato a finanziare direttamente gli Stati. Il “whatever it takes” di Draghi (“fare tutto ciò che è necessario”) non può bastare a tenere insieme l’Europa. Sarebbe necessario il passaggio a una maggiore integrazione politica, ma questa prospettiva si scontra con le storiche divisioni nazionali del continente, che nessuna volontà “europeista” potrà realizzare. Il problema irrisolto dell’Europa è la frammentazione nazionale alla quale nessuna forma sovranazionale potrà porre rimedio definitivo. Tuttavia, per il capitale europeo rimane una questione inderogabile che condiziona gli sviluppi dell’area, ne accentua la crisi e nello stesso tempo spinge al suo superamento.

La tendenza a qualche forma superiore di integrazione degli Stati membri della zona euro è sospinta dal processo di internazionalizzazione del capitale, e dall’azione del capitale finanziario e dei grandi gruppi multinazionali che tendono a imporre le loro regole su scala mondiale: massima libertà dei capitali, massima libertà di commercio, internazionalizzazione del diritto economico, superamento delle barriere nazionali a questa espansione. Il movimento, che parte dagli Stati Uniti e coinvolge i grandi gruppi industrial-finanziari europei, implica un conflitto tra dimensione internazionale e dimensione nazionale del capitalismo, a vari livelli.

Lo svuotamento delle prerogative sovrane degli Stati (5) e l’accentramento sovranazionale di poteri che ne deriva è guidato dal capitalismo nazionale più forte, che spinge a creare aree di libero scambio entro le quali esercitare il proprio predominio economico. Gli Stati Uniti svolgono questo ruolo a tutto campo, dal Pacifico all’Atlantico. A sua volta, l’Europa è costretta a un livello più alto di integrazione dalle dinamiche della crisi mondiale. Ma anche qui è il capitalismo nazionale più forte a guidare l’aggregazione, a dirigerla, a tendere a subordinarla ai propri interessi. La Germania svolge alla scala continentale l’azione che gli Stati Uniti svolgono alla scala mondiale: il tentativo di imporre una serie di regole che facilitino la subordinazione delle economie nazionali all’economia dominante. Non si potrebbe manifestare meglio la contraddizione tra la vocazione internazionale del capitale e il suo irrinunciabile radicamento nazionale, il suo identificarsi con una borghesia nazionale. La realizzazione di un’entità sovranazionale tra nazioni capitalistiche non può essere frutto di slanci ideali di fratellanza, ma di atti d’imperio sostenuti da un’effettiva capacità di coercizione. Nell’eurozona, l’arma dell’internazionalizzazione è il ricatto economico del creditore nei confronti del debitore, così come a livello mondiale lo è il controllo dei flussi di capitale. E’ una forza reale, non dispiegata in eserciti, ma in efficaci atti di guerra economica (6).

L’eurozona è lo spazio ideale per mettere il capitale più forte in grado di esercitare efficacemente la spinta alla concentrazione produttiva e finanziaria da un lato, dall’altro all’espropriazione di masse crescenti che precipitano nella condizione di senza-riserve. Sciolta dalle limitazioni sovrane che in qualche misura devono tener conto degli “interessi nazionali”, quest’azione fondamentale del capitale può dispiegarsi nel concentrare ricchezza da un lato e miseria dall’altro: ricchezza per la borghesia e miseria per il proletariato, ricchezza nelle aree centrali e miseria nelle periferie, siano esse urbane o continentali. La questione del debito è diventata la leva per accelerare questo processo.

4- Supremazia continentale

L’ultima crisi del debito greco ha reso più evidente la posizione di supremazia della Germania. Ciò che non ha potuto la forza degli eserciti in due guerre mondiali si sta a poco a poco realizzando con la forza dell’industria e della finanza. La visione tedesca s’impone con l’appoggio incondizionato di una vasta area di influenza diretta e con l’avallo, obtorto collo, delle medie potenze continentali, Francia compresa. Dalla riunificazione tedesca alla dissoluzione della Jugoslava, scatenata dal riconoscimento immediato dell’indipendenza di Slovenia e Croazia da parte dell’europeista Kohl, la politica europea della Germania ha preso la direzione di un rafforzamento della propria leadership continentale e di un affrancamento tanto dal condizionamento dei maggiori soci europei quanto (con assai maggiore prudenza) dalla dipendenza degli alleati-padroni statunitensi.

L’euro, presentato inizialmente come contrappeso dell’unificazione con la rinuncia al marco, è stato un fattore determinante di questo processo: ha approfondito le differenze tra le aree più o meno sviluppate d’Europa, ha favorito la conquista dei mercati continentali grazie alla superiore produttività del sistema industriale tedesco, combinata, agli inizi del nuovo secolo, con una politica competitiva di contenimento salariale. Contemporaneamente, le banche tedesche finanziavano l’export con i generosi prestiti all’origine delle loro attuali difficoltà. La moneta comunitaria era abbastanza sottovalutata rispetto alla forza economica della Germania per avvantaggiarne l’export extraeuropeo, e nel contempo abbastanza forte e stabile per affiancarsi al dollaro come moneta internazionale e attrarre investimenti esteri. Su queste basi, la zona euro è diventata la piattaforma della proiezione globale della Germania, e nello stesso tempo lo spazio di incubazione delle successive crisi e della sua probabile dissoluzione.

La forza derivante dalla relativa debolezza dell’euro ha costituito un fattore importante nell’indirizzare il corso recente del capitalismo tedesco. Dall’introduzione dell’euro, il capitalismo tedesco investe poco per incrementare la produttività con nuove tecnologie a risparmio di lavoro umano, con il risultato di rallentare la tendenza alla caduta del saggio del profitto: lo ha potuto fare perché il contesto economico e monetario di area particolarmente favorevole gli ha permesso di mantenere ugualmente un vantaggio competitivo e di accumulare negli anni enormi surplus con l’estero. Questa sovrapproduzione di capitali, trovando difficoltà a valorizzarsi nel processo di produzione, alimenta i circuiti finanziari e spinge le delocalizzazioni e le acquisizioni di attività produttive estere. Il peso del capitalismo tedesco nel contesto continentale e globale aumenta anche tramite questo processo di centralizzazione dei capitali e della produzione in mano ai grandi gruppi che ne costituiscono il tessuto industrial finanziario.

5- Azione centralizzatrice e disgregatrice

La storia degli interventi sulla crisi greca dimostra come il governo di Berlino abbia ormai la forza per utilizzare la dimensione sovranazionale dell’eurozona per il rafforzamento del proprio primato. Il governo di Atene, andato al potere col mandato di contenere le pretese affamatrici dei creditori, dopo un’ostentata (più che reale) “resistenza” alle richieste della Troika, alla fine si è piegato a condizioni peggiori di quelle definite prima del colpo di teatro referendario. Il fatto che di questi tempi il parlamento greco scriva le riforme dettate da Bruxelles/Berlino e le approvi dimostra che la forza messa in campo dalla Germania e veicolata dagli istituti comunitari ha un potere di condizionamento reale.

Durante le ultime trattative sul debito greco, il governo tedesco ha messo in campo tutto il suo peso per ottenere l’uscita della Grecia dall’Unione monetaria. La Grecia ne è ancora membro, ma l’accordo di metà luglio con i rappresentanti dei creditori subordina i salvataggi a una serie impressionante di riforme che promettono risparmi, licenziamenti, privatizzazioni. Così, il cappio al collo del Paese (e dunque, in primis, del proletariato) si stringe ulteriormente e ne prolunga l’agonia. La linea tedesca del rigore ne esce riaffermata e la possibilità che la Grecia abbandoni l’Euro è tutt’altro che scongiurata. Tanto più che ora la “Grexit” sarebbe meno rischiosa, grazie a una serie di passaggi che ne hanno contenuto i costi per la Germania e il suo sistema bancario, a scapito di altri paesi membri (7). La posizione tedesca ha però creato sconquassi: gli Stati Uniti l’hanno considerata una seria minaccia alla stabilità dell’Eurozona e dei fragili equilibri internazionali, Francia e Italia si sono opposte all’uscita di un paese mediterraneo per evitare un ulteriore squilibrio della zona euro a favore della Germania e del gruppo dei “creditori” (8). A ciò si aggiungono le preoccupazioni per le conseguenze di un’implicita dichiarazione di non irreversibilità dell’euro. Nuove scommesse speculative sulla tenuta dell’eurozona con massicce vendite dei titoli sovrani dei periferici riaprirebbero drammaticamente il problema della stabilità bancaria continentale, con inevitabili ripercussioni sul sistema finanziario mondiale. Come in un Gioco dell’Oca planetario, la situazione ripartirebbe dalla casella iniziale della crisi bancaria, con assai maggiori difficoltà di contenimento e con inevitabili ricadute sui sistemi creditizi mondiali.

Tuttavia, dopo essersi mosso come un elefante in una cristalleria, il governo tedesco ha avanzato alcune proposte per rafforzare l’interazione comunitaria (9), alle quali è seguito il piano per un “Finanzminister” con potere di controllo sulla situazione finanziaria e fiscale di ciascun paese membro dell’eurozona (10). Evidentemente, esiste una volontà tedesca di procedere verso l’integrazione senz’altro superiore a quella del governo francese che, come da tradizione, si arrocca sul rifiuto di ogni cessione di sovranità in nome delle prerogative nazionali. La proposta di un organismo esecutivo centralizzato con poteri d’intervento e di veto sulle politiche fiscali dei singoli paesi, legittimato da un parlamento della zona euro, è una specifica manifestazione nazionale di europeismo alla tedesca, esprime la volontà di imporre a tutto il contesto europeo la propria visione, che è poi la risposta tedesca alle questioni poste dall’internazionalizzazione del capitale e alle sfide della competizione globale. Ma il progetto d’integrazione a guida germanica incontra enormi ostacoli ed è comunque destinato a procedere in tempi lunghi, non adeguati al ritmo incalzante della crisi mondiale. Anche qualora il processo di accentramento sovranazionale dei poteri procedesse nell’ottica tedesca, non potrebbe consolidarsi in un contesto che rimane una aggregazione di nazioni senza provocare una situazione di cronica instabilità e conflittualità.

6- Nazioni e classi

L’effetto nello spazio europeo di questa prova di forza è la destabilizzazione dei vecchi rapporti, l’avvio di una fase di maggiore instabilità. L’attacco alle prerogative sovrane rinfocola i nazionalismi e minaccia l’assetto dell’Unione perché ne rivela le reali prospettive: non c’è altra strada all’integrazione se non lo svuotamento delle sovranità nazionali, e questo non può avvenire per via pacifica e concorde. L’Europa è destinata a diventare sempre più luogo di scontro politico tra nazioni e al loro interno, per contrastare o sostenere la tendenza alla dimensione sovranazionale, che sempre più sembra configurarsi come ”Europa tedesca”.

I nazionalismi europei manifestano il loro rinnovato vigore tanto nell’esaltazione del modello germanico quanto nei rancori antitedeschi nell’Europa mediterranea. Sorgono nuovi muri a protezione dei confini nazionali dalle contaminazioni migratorie (Ungheria), mentre l’emergenza profughi alimenta reazioni xenofobe dalla Slovacchia al Baltico, dal Regno Unito alla Germania. Riemergono le spinte indipendentiste e separatiste di piccole nazioni inglobate in unità nazionali più grandi (Scozzesi, Baschi, Valloni) e ritrovano spazio un po’ ovunque le forze che auspicano l’abbandono dell’euro o della stessa Unione Europea (Regno Unito). Il ritorno nazionalista è il segnale dell’agitarsi delle mezze classi che percepiscono il pericolo dell’instabilità e identificano la difesa del proprio status con la difesa dei patri confini. Il proletariato, nella perdurante assenza del partito di classe internazionalista, subisce la tentazione di queste derive, sostenute dal bonzume sindacale invocante “politiche industriali” a tutela dell’occupazione nazionale.

Tanta fioritura nazionalista è frutto del procedere della concentrazione capitalistica sulla scala continentale, dell’attrazione che il magnete tedesco esercita sui capitali e sulla forza lavoro, delle dure condizioni che il capitale più forte pone alle nazioni subalterne per rientrare nei parametri di compatibilità capitalistica imposti dalla competizione mondiale. Questi parametri sono fondamentalmente legati alla capacità della macchina dello Stato di fornire al capitale le condizioni più favorevoli allo sfruttamento del lavoro salariato. La pretesa di avvicinare l’efficienza dei piccoli Stati al livello del capitalismo più forte prepara il terreno alla colonizzazione economica, alla spartizione delle loro risorse da parte dei grandi gruppi multinazionali, alla subordinazione del territorio agli interessi del capitalismo dominante in termini di infrastrutture, vie di comunicazione, flussi di energia.

In definitiva, dietro tanto disordine e instabilità si svolge la perenne guerra del capitale contro il proletariato elevata al terreno internazionale. Lo scopo è consentire una superiore profittabilità del capitale, assicurando la disponibilità di masse crescenti di forza lavoro da sfruttare senza eccessivi vincoli e a prezzi competitivi. Controllo ferreo sul proletariato, legislazione del lavoro sempre più favorevole al padrone, limitazione dell’agibilità sindacale, chiusura a ogni forma di organizzazione indipendente di classe, repressione di ogni slancio di rivolta: sono le condizioni necessarie perché un capitalismo dominante – una volta subordinate le piccole nazioni e il loro proletariato – possa affrontare da posizioni di vantaggio la competizione con le potenze concorrenti, oggi in forma economica, domani in una guerra guerreggiata. Questa guerra contro il proletariato il capitalismo tedesco l’ha iniziata prima in casa propria, con una legislazione del lavoro (la legge Artz) su cui si modellano i Jobs Acts nostrani e le varie “riforme dal lato dell’offerta” (che incidono sulle condizioni di produzione a favore del capitale) sistematicamente evocate, e imposte, come condizione universale per l’uscita dalla crisi.

La vera posta in gioco riconduce sempre allo scontro tra capitale e lavoro: riconoscerla è la condizione perché il proletariato europeo non si faccia irretire dalle sirene nazionaliste e risponda sullo stesso terreno imposto dal capitale – internazionale e di classe.

7- Imperialismi in movimento

L’evolversi della vicenda europea conferma il delinearsi di un’area continentale nordica più omogenea (11) integrata sul piano industriale attorno al polo tedesco, che ingloba la vecchia Mitteleuropa, la linea del Baltico fino alla Finlandia (antica direttrice germanica), l’asse del Reno (Francia-Benelux) e l’Italia settentrionale. All’integrazione industriale, corrisponde una parziale integrazione monetaria (manca una parte importante della Mitteleuropa) ed equilibri politici sempre più imperniati sulla Germania. Questo processo lega sempre più strettamente la Francia e l’Italia, potenze intermedie, alle sorti del capitalismo tedesco e ne limita la capacità di un indirizzo imperialista autonomo. Alla prospettiva tedesca di proporsi come polo dominante unico di un’area più ristretta e coesa, fa gioco che Francia e Italia si accollino le magagne del ribollente Mediterraneo, a cominciare dall’intervento in Libia, dalla gestione dei flussi migratori e dal contrasto al terrorismo islamista.

La Francia, non più nelle condizioni di riaffermare la propria grandeur, si vede costretta a piegarsi a un ruolo subordinato, magari mascherato da forme di compartecipazione franco-tedesca nel dominio continentale e attenuato dalla condizione di “nazione favorita”, autorizzata a derogare al patto di stabilità.

L’imperialismo italiano ne esce ancor più ridimensionato. Nonostante il crollo industriale, l’Italia rimane la seconda potenza manifatturiera in Europa, ma è divenuta più dipendente dalla catena di valore che fa capo all’industria tedesca: e i capitali tedeschi vi stanno facendo man bassa di aziende appetibili. Le sue autonome direttrici rivolte all’export sono indebolite dall’instabilità dell’area mediterranea e dalle sanzioni alla Russia, sostenute finora dal governo di Berlino. In queste condizioni, in continuità con i precedenti storici, l’Italia sarà spinta ad accodarsi al carro del più forte.

Sul fronte Est, i rapporti tra Germania e Russia si fanno sempre più stretti. L’avallo tedesco alle sanzioni contro l’”invasione” dell’Ucraina è giunto più per doveroso ossequio al padrone statunitense che per reale convinzione (la stessa economia tedesca ha molto da rimetterci); d’altra parte, la vitale dipendenza energetica del sistema produttivo tedesco dai rifornimenti russi (che coprono già il 40% del fabbisogno) è destinata a rafforzarsi dopo l’annuncio del raddoppio del North Stream, la pipeline che, attraverso il Baltico, aggira la stessa Ucraina e i paesi un tempo sotto dominio sovietico, raggiungendo direttamente la Germania. Il raddoppio affossa l’analogo progetto South Stream che, attraverso il Mar Nero, sarebbe dovuto passare per la Grecia collegandosi ai Balcani e all’Italia, progetto nel quale avrebbero operato e lucrato ditte italiane. E’ un altro duro colpo alle residue ambizioni dell’imperialismo italico, che conferma lo spostamento a Nord del baricentro geopolitico europeo, mentre l’Europa mediterranea, alle prese con una crescente instabilità, assume i contorni di una zona cuscinetto destinata ad assorbire le tensioni dell’area mediorientale e nordafricana, a filtrare e controllare le potenti ondate migratorie dirette al Nord Europa, verso il polo di attrazione tedesco.

Se ai forti legami energetici con la Russia si aggiunge l’importanza assunta dal mercato cinese, il secondo dopo quello UE per l’export tedesco, l’espressione “consistente aggregazione eurasiatica” può essere una buona definizione dei rapporti tra Europa tedesca, Russia e Cina (12).

Il rapporto tra Germania e Cina è stato definito addirittura “simbiotico” per l’interscambio di tecnologia e investimenti. Alle prese con una sovrapproduzione di merci e capitali che la obbliga a integrarsi con nuovi mercati, la potenza asiatica sta lavorando al progetto di nuove “Vie della Seta” e di una ferrovia veloce Berlino-Pechino, passante per Mosca (2 soli giorni di viaggio!). Il progetto consentirebbe all’interscambio cinese di ridurre l’utilizzo di rotte marittime e raggiungere per via terrestre il Mediterraneo e l’Europa, non senza una valenza politico-militare in funzione antiamericana (13). La UE a guida tedesca ha appoggiato la Cina nella creazione della Banca Asiatica per lo Sviluppo e le Infrastrutture, vero fumo negli occhi per Stati Uniti e Giappone proprio perché base finanziaria della strategia cinese. Altrettanto significativi in questo quadro sono i crescenti rapporti russo-cinesi nell’interscambio energetico e di tecnologie industriali. Se queste relazioni sono destinate a rafforzarsi, definirebbero già i tratti di una possibile alleanza imperialista contrapposta al blocco atlantico secondo la linea di demarcazione tra “Tellurocrazia” (Terra “Oriente”) da una parte e “Talassocrazia” (Mare “Occidente”) dall’altra, teorizzata da alcune correnti neofasciste europee, in particolare russe (14).

Questa tendenza, che ha fondamenti materiali ma non si presenta ancora come chiara strategia dell’imperialismo tedesco (mentre lo è da parte cinese), è destinata comunque a scontrarsi con le fortissime resistenze statunitensi, a cominciare dal bellicoso attivismo della Nato sul fronte dell’Ucraina e del Baltico, utile a coinvolgere gli alleati europei, in particolare la Germania, nelle crescenti tensioni contro la Russia. Nella stessa direzione va la pressione statunitense per raggiungere in tempi brevi un accordo sul commercio atlantico (Ttip), a tutto vantaggio delle multinazionali e dei legami economici occidentali in un quadro giuridico comune, con l’effetto di consolidare le attuali alleanze militari (15).

Sulla crisi greca, gli Stati Uniti hanno sconfessato apertamente il rifiuto tedesco di accettare la ristrutturazione del debito ellenico, prima tramite il FMI, poi per bocca del ministro del Tesoro, sollecitando un taglio di almeno il 30%. L’irritazione americana verso l’alleato ha fondate motivazioni: l’uscita della Grecia dall’euro indebolirebbe il fianco sud della Nato proprio nel bel mezzo di una crescente tensione nell’area, indebolirebbe l’Unione Europea, nata per consolidare la pax americana sul continente in funzione anti-sovietica e ora anti-russa. Ma, soprattutto, la Germania si mostra riluttante ad assumere il ruolo di delegato privilegiato degli interessi americani in Europa, si incaponisce su varie questioni (ricordiamo il rifiuto a intervenire in Iraq e Libia) e si dedica con troppo fervore alla cura dei rapporti con Russia e Cina. Che il governo tedesco e le forze sociali ed economiche che esso rappresenta se ne rendano conto o no, la politica del rigore sta minando dalle fondamenta la stabilità in Europa e forse nasconde la tentazione di affrancarsi davvero dalla tutela del grande fratello atlantico. Tutto questo proprio mentre la declinante potenza statunitense, spostato il baricentro della propria strategia globale sullo scenario asiatico, necessiterebbe di un sicuro supporto europeo a occidente.

Anche la Cina ha bisogno della stabilità europea imperniata sulla Germania, non in funzione della conservazione del vecchio ordine, ma per il suo sovvertimento. Se ha messo le mani sul Pireo e ora le sta mettendo sulla rete ferroviaria greca è per fare della Grecia un hub per la penetrazione commerciale nei Balcani e nell’Est Europa. Proprio di questi tempi, approfittando delle privatizzazioni e dei prezzi di svendita, una grossa compagnia pubblica tedesca (misteri neoliberisti: si privatizza in patria per vendere a uno Stato estero!) sta facendo man bassa degli aeroporti regionali greci. Le due potenze sembrano aver già riservato alla Grecia il ruolo di snodo di una rete infrastrutturale internazionale nel nuovo ordine eurasiatico. Alla fine, il capitale tedesco non sembra poi così indifferente alle sorti della Grecia… Magari un ritorno alla dracma permetterebbe di fare acquisti di beni greci a prezzi ancor più stracciati.

Quel che è certo è che, sulla spinta dello sviluppo tumultuoso del capitalismo mondiale e della crisi di sovrapproduzione, i rapporti tra imperialismi sono entrati in una fase di transizione. L’imperialismo dominante americano, ancorché sovrastante dal punto di vista politico militare, incontra difficoltà crescenti nell’esercizio della supremazia globale. All’ascesa dei giovani capitalismi asiatici e alla caotica instabilità mediorientale, si aggiunge ora anche l’Europa, cardine irrinunciabile del vecchio ordine a centralità atlantica. E il problema non nasce certo ad Atene, ma ancora una volta a Berlino, non più divisa fisicamente tra Est e Ovest, ma proprio per questo nuovamente contesa tra Atlantico e Eurasia.

8- La nostra prospettiva

La crisi dell’Eurozona fornisce l’ennesima conferma che non c’è pace né concordia fra stati e nazioni che regga nel tempo all’urto del contraddittorio e declinante corso storico del capitalismo. La rottura dell’equilibrio europeo prelude a sconvolgimenti politici che si ripercuoteranno sugli equilibri mondiali e sugli assetti delle alleanze. La crisi economica non ha trovato una soluzione nel rilancio dell’accumulazione, cosicché a ogni svolto si cela il rischio di una sua recrudescenza, causata da una delle molteplici minacce incombenti: lo scoppio di una bolla finanziaria, la frenata degli emergenti, la speculazione sui crediti sovrani, l’uscita di un paese dall’eurozona, il rialzo dei tassi FED, e chi più ne ha più ne metta. In un tale scenario di perenne e crescente instabilità, il silenzio del proletariato è destinato prima o poi a mutarsi in un urlo di rabbia planetaria.

Nulla di più estraneo dalla nostra prospettiva che l’additare una nazione, quale che sia, a responsabile delle sofferenze subite dai proletari di presunte “nazioni oppresse”! La potenza del capitalismo tedesco, per quanto senza rivali sul continente, nasconde in realtà grandi elementi di debolezza, a cominciare dall’enorme dipendenza dall’export che lo espone più di altri ai rischi di una contrazione dei commerci mondiali, al protezionismo e agli effetti delle guerre valutarie (16). Sebbene abbia tratto e continui a trarre grandi vantaggi dall’Unione monetaria, la Germania non potrà sfuggire alla crisi e alla tendenza alla caduta del saggio del profitto e dovrà prima o poi fare i conti con il proprio proletariato.

Come si diceva, il nuovo pesante attacco alla condizione del proletariato greco annuncia un attacco al proletariato d’Europa. Se la risposta dei proletari greci assumerà caratteri classisti, sarà il segnale per i proletari d’Europa, a cominciare da quelli di Germania, i primi a far tremare l’ordine mondiale del secondo dopoguerra con il grande moto anticapitalista del 1953. Oggi come ieri, al proletariato tedesco è riservato un ruolo centrale nella ripresa generale del movimento di classe. Quando da Berlino si alzeranno nuovamente parole d’ordine classiste e internazionaliste, suonerà la campana a morto di tutti i nazionalismi, trionfanti o straccioni che siano. Tornerà allora d’attualità la sola exit che valga la pena di imboccare: quella dal capitalismo, e con essa diventerà concreta anche la prospettiva di una vera unificazione europea (si veda a questo proposito il nostro articolo “Il mito dell’Europa unita”, il programma comunista, nn.11-12/1962). E, pur in uno scenario profondamente mutato, rimane sempre attuale quanto scrivevano i nostri compagni nel lontano 1953 (“La comune di Berlino. Dura e lunga la strada, meta grande e lontana”, il programma comunista, n.14/1953):

Se una soluzione al problema dell’organizzazione di Europa sarà data dal levarsi del potente, in quantità e qualità, proletariato della grande Berlino, ciò sarà solo col programma – teoretico, organizzativo, politico, militare – di costituire in una guerra civile, contro gli armati venuti da Est e da Ovest, una comune di Berlino. Di tutta Berlino. Questa sarebbe la dittatura operaia in Germania, in Europa la rivoluzione mondiale”.

Quale che sia l’indirizzo che prenderà l’imperialismo tedesco (che si orienti a Est come a Ovest), comunque e ovunque il compito del proletariato rimane immutato: disfattismo contro la propria borghesia e contro tutte le coalizioni borghesi, le siano nemiche o alleate. Sappiamo che la prospettiva è ancora lontana, ma è l’unica alternativa non illusoria alla quale affidarsi per fermare la spirale catastrofica in cui si sta avvitando il mondo del capitale.

 

NOTE

1- Cfr. Il nostro articolo intirolato “United States of Europa”, uscito su quella che allora era la nostra rivista teorica, Prometeo (n.14/1950).

2- F. Fubini, “L’Europa anemica”, Corriere della Sera, 15/8/2015.

3- Nel 2009, le banche europee usarono circa metà del credito Bce (440 miliardi di Euro) per comprare titoli di stato greci e spagnoli (http://www.sinistrainrete.info/crisi-mondiale/1830-guglielmo-carchedi-dalla-crisi-di-plusvalore-alla-crisi-delleuro.html)

4- V. Da Rold, “R&S Mediobanca: la crisi delle banche costa alla Ue più del Pil greco”, Il Sole-24Ore, 28 luglio 2015. A differenza di quello di Atene – osserva il giornalista – , i salvataggi bancari non hanno trovato opposizione né al Nord e né al Sud del'Europa.

5- Lo stesso Quantitative Easing del febbraio scorso va in direzione del trasferimento di poteri a livello sovranazionale. Secondo Paolo Savona, già ministro dell’Industria del governo Ciampi, “il Qe funziona come un’ulteriore bardatura che impedirà al paese scelte diverse da quelle di stare in Europa, obbedendo a Berlino-Bruxelles a rischio di trasformarci in colonia politica” (Min .V. Lo Prete, “Quel trucchetto di Draghi per incatenare l’Italia all’Euro”, Il Foglio, 12/2/2015.)

6- A questo proposito, vale la pena di leggere “La grande strategia cinese” su Limes (luglio 2015), dove un generale dell’esercito popolare di Pechino argomenta la tesi che “la finanza vale più delle portaerei”.

7- “In 5 anni la Troika ha infatti mutualizzato sull’Eurozona i rischi di due terzi del debito pubblico greco, portandone oltre 140 miliardi presso l’Efsf (l’ex Fondo Salva-Stati), oltre 50 sul Glf (il conto dei prestiti bilaterali tra governi dell’Eurozona e Grecia) e quasi 30 in Bce […] Si doveva consentire alle banche franco-tedesche di scaricare i propri rischi sui governi dell’Eurozona e ‘scansare’ così le perdite dei propri investimenti. Il primo intervento del 2010 trasferisce de facto una buona parte dei rischi dalle banche ai rispettivi governi e banche centrali (tramite la Bce): il secondo intervento, quello del 2012, salva i crediti di governi e banche centrali, e dimezza il valore del debito pubblico detenuto da banche ed investitori greci. Insieme all’inutile austerità, il popolo greco ha quindi subito oltre 70 miliardi di perdite e la polverizzazione del suo sistema bancario” (M. Di Menna, “L’Europa alla tedesca: rischi condivisi, ma vantaggi a senso unico”, Corriere economia, 16/2/2015). Bisogna aggiungere – lo riferisce l’istituto tedesco IWH – il risparmio di 100 miliardi di interessi grazie all’afflusso di capitali sul debito sovrano della Germania, contro i 60 spesi per gli aiuti alla Grecia. Alla faccia dei salvatori!

8- “Se la Grecia uscisse dall’euro, i rapporti di forza finanziaria tra Paesi creditori e debitori diventerebbero ancora più netti. Il rischio di abbandono della moneta unica alzerebbe il premio al rischio rendendo i costi del debito sovrano più divergenti. Quanto tempo passerà prima che il debito francese salga a quota 100% del Pil, mentre quello tedesco scenderà sotto il 60%? Ma come ha dimostrato questa crisi, i rapporti di forza finanziaria sono anche rapporti di forza politica. Dietro la soluzione della questione greca si gioca dunque il rapporto tra i due Paesi-guida dell’Unione europea. I due Paesi per la cui coesistenza pacifica tutto è iniziato” (C. Bastasin, “Se si spezza l’asse Berlino-Parigi”, Il Sole-24Ore, 13/7/2015).

9- Shauble proponeva un fondo comune di garanzia per i depositi bancari o in alternativa un'assicurazione comune contro la disoccupazione. “Nel primo caso si sarebbe completata la struttura dell'unione bancaria, stabilizzando il credito dell'euro-area. Nel secondo caso, si sarebbe creato il primo strumento comune di gestione anti-ciclica della politica economica, in grado di attenuare le divergenze tra le economie. Non sarebbe ancora stato il passaggio verso l'unione fiscale o verso gli eurobond. Ma sarebbe stata comunque una notevole offerta di solidarietà e di condivisione di rischi legati all'instabilità economica e finanziaria” (C. Bastasin, “Berlino e le due velocità”, Il Sole-24ore, 14/7/2015).

10- “Il piano Schauble-Lamers si basa su due idee: ‘Perché non istituire un commissario europeo per il bilancio col potere di bocciare i bilanci nazionali se questi non corrispondono alle regole che abbiamo concordato congiuntamente?’, si chiedono Schauble e Lamers. ‘Inoltre, vediamo con favore la creazione di un “parlamento dell’eurozona” che comprenda i deputati della zona euro, al fine di rafforzare la legittimità democratica delle decisioni che riguardano la moneta unica’ […]. Il Grexit, secondo i calcoli di Schauble, rappresenta un passaggio cruciale per dare il via all’attuazione del piano del dottor Schauble. Un’escalation controllata del dolore dei greci, intensificata dalla chiusura delle banche e lenita da alcuni aiuti umanitari, viene considerata come il momento precursore della nuova zona euro. Da un lato, il destino dei greci ‘spendaccioni’ agirebbe da monito nei confronti di quei governi che vogliono giocherellare con l’idea di sfidare le ‘regole’ esistenti (ad esempio Italia) o che ancora si oppongono al trasferimento della sovranità nazionale sui bilanci dell’Eurogruppo (ad esempio la Francia). Dall’altro, la prospettiva di (limitati) trasferimenti fiscali (ad esempio una più stretta unione bancaria e un fondo comune di aiuti contro la disoccupazione) rappresenterebbe la ‘carota’ per abbonire le nazioni più piccole” (Y. Varoufakis, “Il dottor Schauble”, Die Zeit, 15/7/2015).

11- C Bastasin, “Berlino e le due velocità”, cit.

12- G. Rossi, “Il coraggio che serve per salvare l’Europa”, Il Sole-24Ore, 31/5/2015.

13- M. Spence, “Pechino ha fame di mercati: la domanda interna non basta”, Il Sole-24Ore, 12/7/2015. Sul progetto “Via della seta” sono già in corso contatti tra Cina e UE: l’Ungheria ha già firmato un memorandum in proposito (www.cinaforum.net). Sul significato politico-militare delle “Vie della seta”, vedi poi anche la nota 6.

14- Del tutto coerente con il quadro delineato è il riemergere nel dibattito tedesco di antiche contrapposizioni tra Paesi della Terra e Paesi del Mare sostenute da C. Schmitt (cfr. P. Bricco, “La strategia dei due forni di Berlino”, Il Sole-24Ore, 16/7/2015).

15- In parallelo a questo progetto, gli americani lavorano a un accordo commerciale asiatico che esclude la Cina, la cui risposta è nella strategia di controllo delle vie terrestri in direzione Ovest.

16- La recente svalutazione del renmimbi colpisce duramente l’export di auto tedesche sul mercato cinese.

 

Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista)

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