DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

In un lavoro precedente (cfr. “L’America Latina a un bivio”, Il programma comunista, n.2/2012), abbiamo cercato di delineare sinteticamente il quadro economico  attuale della regione e i suoi legami con le altre aree e regioni. Tale quadro sarebbe però non solo parziale ma anche infedele se non fosse integrato con altri elementi non strettamente economici, quali quelli politici, militari, sociali, che proprio nell’area latino-americana hanno da sempre giocato un ruolo di grande rilievo. Quello che ci sembra infatti importante sottolineare, per la formazione di una futura strategia di classe contro l’imperialismo mondiale, è non solo il “declino economico” USA degli ultimi anni nella regione, riflesso di un declino globale, evidenziato dai dati che abbiamo raccolto, ma pure il grado, la misura in cui tale declino si è accompagnato, e si va accompagnando, a un “cedimento” anche sotto l’aspetto politico e militare. Chiaramente, quel dominio del gendarme USA nell’area latino americana, da sempre considerata il “cortile di casa”, continuerà a esercitarsi ancora con forza, condizionando governi e politiche economiche – in altre parole, gli “affari” a proprio favore; ma si tratta di vedere se tali predominio e forma di influenzamento siano ancora cosi forti e quasi assoluti come qualche tempo o magari qualche decennio addietro; se la stessa forza e minaccia militare abbiano ancora la stessa efficacia, gli stessi effetti, nei confronti di Stati, alcuni dei quali, nel frattempo, sono riusciti a diventare delle potenze a livello mondiale (Brasile in primis) e che cominciano a competere con esso per contendergli il predominio nella regione. Una breve disamina del dominio imperialistico nella regione, soprattutto da parte degli USA ci aiuterà a capire meglio tali problemi [1].

 

La “Dottrina Monroe”

La bandiera ideologica sventolata a giustificazione dell’espansionismo coloniale prima e imperialistico dopo, da parte degli USA, è stata da sempre la cosiddetta “Dottrina Monroe”.

Elaborata nel 1823 sullo sfondo dei primi movimenti di liberazione e della volontà delle potenze europee della Santa Alleanza (Austria, Francia, Prussia e Russia) di estendere all’America Latina la “restaurazione” del controllo coloniale, e riassunta nello slogan “l’America agli americani”, essa considera come “pericolo per la pace e per la sicurezza” e “atteggiamento ostile verso gli Stati Uniti” ogni tentativo da parte di qualsiasi potenza europea di imporre al continente americano “il loro sistema” [2]. Da anticoloniale, la “Dottrina Monroe” divenne sempre più la bandiera ideologica dell’espansionismo americano. I giovani stati latino-americani formalmente indipendenti rappresentarono infatti un importante sbocco commerciale per la nascente industria americana. Il “debutto” della Dottrina si ha nel 1845, con l’annessione del Texas, staccatosi dal Messico su pressione dei coloni americani, e l’anno successivo con l’invasione del Messico per strappargli il Nuovo Messico e la California, portando sul Rio Grande il confine tra i due paesi: un passaggio chiave per le mire espansionistiche sui Caraibi e sul canale interoceanico per l’ingresso sul mercato asiatico.

Un’ulteriore tappa avvenne dopo la pausa della Guerra Civile (1861-64), in piena depressione economica. Dal 1875, sono i banchieri, gli industriali e gli spedizionieri che intravedono nell’accesso più diretto al mercato mondiale una possibile fuoriuscita dalla crisi. Tra i più importanti gruppi di pressione, nel 1895 nasce la National Association of Manifacturers, influente organizzazione degli industriali, con lo scopo di promuovere la conquista di mercati esteri. In questo contesto, si riaffaccia la Dottrina Monroe. Il pretesto è fornito dalla controversia tra il Venezuela e la Gran Bretagna circa i confini della Guayana britannica: il controllo politico ed economico del sistema fluviale dell’Orinoco rappresenta un’altra testa di ponte per il mercato latino-americano; la dichiarazione del segretario di stato Olney è esplicita: la controversia “non è di piccola importanza”, perché concerne “un dominio di vasta estensione”, ovvero “l’intero sistema di navigazione interno del sud America”; da parte sua, il senatore Cabot Lodge ribadisce: “la supremazia della dottrina Monroe deve essere confermata e subito, pacificamente se possibile, con la forza se necessario”. In questo quadro, trovano “giustificazione”, oltre alle annessioni di Portorico, il protettorato su Cuba e l’annessione delle Filippine.

La presidenza di Theodore Roosevelt (1901-1909), ancora nel tentativo di superare la crisi di sovrapproduzione dell’ultimo decennio dell’Ottocento, incanala tensioni e contraddizioni nell’enunciazione di “una nuova frontiera” aperta sull’Asia grazie alla costruzione del canale di Panama. Il casus belli è offerto ancora dal Venezuela, in rotta con le potenze europee. Di fronte alla “politica delle cannoniere” di queste ultime per costringere il paese caraibico al pagamento dei propri debiti, il Presidente repubblicano risponde con l’integrazione della Dottrina Monroe, (quello che sarà noto come il “Corollario Roosevelt”), contenuto nel messaggio al Congresso del dicembre 1904, che, affermando l’identità tra interessi americani e interessi dei “loro vicini”, riconosce agli Usa un potere di polizia internazionale su tutto il continente americano, giustificando così l’intervento militare e il controllo politico “se diventa evidente che la loro inabilità o mancanza di volontà nel fare giustizia in casa e all'estero ha violato i diritti degli Usa o ha provocato aggressioni straniere a danno dell'intero corpo delle nazioni americane”.

L’estensione della Dottrina Monroe con il Corollario Roosevelt è il presupposto dell’allargamento dell’imperialismo americano sui Caraibi e della prima penetrazione, tramite il canale di Panama, del capitale monopolistico nel mercato asiatico con la riorganizzazione dell’apparato militare: in modo speciale, la marina e la sua crescente importanza per l’espansione commerciale.

Particolare applicazione della stessa Dottrina è, infine, la “Diplomazia del dollaro” di Taft e Knox, che si presenta come “una moderna concezione di interscambio commerciale”, finalizzata a realizzare un incremento del commercio americano nel continente latinoamericano, “sul presupposto che il governo degli Stati Uniti offrirà ogni giusto sostegno a qualsiasi legittima e vantaggiosa impresa americana all’estero”. La “diplomazia del dollaro” vorrebbe porsi come la “soluzione” politica, economica e anche militare, per metterne al riparo la penetrazione e il consolidamento in un continente attraversato “dalla minaccia costituita da un oneroso debito estero e dallo stato caotico delle finanze nazionali, nonché dal sempre presente pericolo di complicazioni internazionali dovute ai disordini interni”. Gli USA, insomma, si offrono come i “protettori” dei paesi latino-americani, nei confronti dei pericoli “esterni” dovuti all’“oneroso debito estero”. I Caraibi si configurano sempre più come un “mare americano” e gli interventi militari e le occupazioni seguono a ogni crisi che “minacci gli interessi americani”: nel 1906 e nel 1912 a Cuba; dal 1907 fino al 1924 a Santo Domingo; nel 1909  e dal 1912 al 1933 in Nicaragua; nel 1910 in Messico; nel 1915 ad Haiti.

Al termine della Prima guerra mondiale, gli Stati Uniti hanno potuto mostrare la propria forza militare, produttiva ed economica; la “dottrina Monroe” esce così dal normalizzato “Western Hemisphere” per proporsi come modello adattabile a tutto il globo. A tracciarne il futuro è lo stesso presidente Wilson, già convinto della completa identità tra “principi americani” e “principi dell’umanità” e promotore della Società delle Nazioni: “accordandosi tra loro, le nazioni dovrebbero adottare la dottrina del presidente Monroe come la dottrina del mondo”.

Nel secondo dopoguerra, infine, senza sostanziali novità, gli Stati Uniti riesumano la Dottrina Monroe-Roosevelt in funzione di strumento di contenimento del “pericolo comunista” nell’America latina, in occasione delle operazioni militari in Guatemala (1954), a Cuba durante i primi anni del governo castrista e ancora a Santo Domingo (1965).

Come sostenne il Generale Mac Arthur, in un discorso tenuto nel 1957, Il nostro governo ci ha tenuti in un perpetuo stato di paura, tenuti in una continua esaltazione di fervore patriottico, al grido di una grave emergenza nazionale. C’è sempre stato qualche terribile male interno o qualche mostruoso potere straniero che stava per inghiottirci se non vi avessimo ciecamente fatto fronte fornendo gli esorbitanti fondi richiesti. Eppure, in retrospettiva, questi disastri sembra non si siano mai verificati, sembra non siano mai stati veramente reali”.

Sarà proprio l’“anticomunismo” la febbre che contagiò improvvisamente l’intera nazione, instillata in dosi abbondanti tra i suoi abitanti dal Governo, e che rese la politica estera, da allora in poi, fautrice di qualunque azzardo politico nei confronti del resto del pianeta: si entrava in quella “zona d’ombra” di cui parlava spesso l’ex Segretario di Stato Henry Kissinger, riferendosi al mondo dei servizi segreti, dei complotti, della politica “undercover”. Il governo di Washington ricorrerà sempre più spesso, specie in America Latina, ai colpi di Stato per mantenere salde le proprie posizioni politiche, preservare i propri interessi economici e commerciali, mantenere in stato di sudditanza le nazioni del Nuovo Continente. Tocca a Kennedy, durante la crisi cubana, all’indomani dell’assalto alla “Baia dei Porci”, ricordare che “se le nazioni di questo emisfero non adempiono i loro obblighi contro la penetrazione dall’esterno del comunismo”, deve essere chiaro che il “governo non esiterà a far fronte ai suoi obblighi”.

La nuova pianificazione strategica Usa contenuta nel documento “La strategia per la sicurezza nazionale degli Usa”, diffuso dalla Casa Bianca nel settembre 2002,espone un programma di espansione imperialistica degli USA su scala mondiale, imperniato sulla teorizzazione della “guerra preventiva” e “di durata indefinita” contro un nemico ubiquitario e sulla definizione di alleanze variabili con le altre potenze (con o senza Nato, con o senza Onu). Tale documento rappresenta lo “sviluppo fino in fondo” della dottrina Monroe alla nuova situazione mondiale. L’obiettivo dichiarato è quello della “liberalizzazione dei mercati e del commercio”, enunciato come una “priorità centrale per la sicurezza nazionale” e già enucleato nel Quadriennial Defense Review Report, che recita: “come potenza globale, gli Stati Uniti hanno importanti interessi geopolitici in tutto il mondo. Gli Stati Uniti hanno interessi, responsabilità e impegni che abbracciano il mondo”. E cioè: “precludere il dominio di aree cruciali, particolarmente l'Europa, l'Asia nordorientale, il litorale dell'Asia orientale, il Medio Oriente e l'Asia sudoccidentale [...] Contribuire al benessere economico tramite l'accesso ai mercati e alle risorse strategiche chiave [...]Cambiare il regime di uno stato avversario od occupare un territorio straniero finché gli obiettivi strategici statunitensi non siano realizzati". Si tratta di un altro passo avanti rispetto ai documenti precedenti del 1991 e 1992: in quest’ultima versione, infatti, è il globo tutto e non più solo il continente americano a diventare il “cortile di casa” degli Usa; se gli interessi americani sono perciò minacciati in quel “cortile di casa” che è ormai il globo, allora gli Stati Uniti hanno il diritto-dovere di intervenire, quando vogliono e come vogliono, per “risistemare” il mondo intero in funzione dell’espansione degli interessi nazionali americani e delle loro imprese multinazionali. L’affermazione dell’“unilateralismo” e della “missione civilizzatrice” degli Usa è la specificità della nuova Dottrina Monroe planetaria che, dilatando sempre più lo spazio dell’intervento statunitense e della “non ingerenza” degli avversari, designa gli Stati Uniti come unico arbitro legittimato ad agire nelle zone strategiche dello scacchiere mondiale [3].

 

Le cause della sottomissione dei paesi latino-americani

E’ chiaro che in America Latina la lunga sottomissione alle manipolazioni politiche, alle trame e agli interventi militari, accompagnati dalle misure repressive sul piano sociale, nei confronti del gendarme USA – che sarebbe lungo qui elencare, vera rassegna di crimini e orrori del capitalismo – avevano e hanno ancora, su vaste aree latino-americane, la loro causa principale, non certo nel peso della ideologica Dottrina Monroe, ma da una lato nella indiscutibile superpotenza economica espressa dagli USA a partire dalla loro formazione e, dall’altro, nella debolezza e nella forte dipendenza economica, nell’indebitamento cronico e storico, in cui quei paesi sono stati tenuti nei loro confronti.

Sotto quest’aspetto, anzi, gli stati latino-americani nacquero già indebitati, poiché dovettero contrarre prestiti per finanziare la loro stessa guerra d'indipendenza. Da allora, l'indebitamento non cessò di crescere a causa della forma “dipendente” con cui essi entrarono nel commercio mondiale. Ripetute volte il mancato pagamento dei debiti servì da pretesto per interventi militari. Così, in Messico nel 1861, con l'aggressione congiunta di Gran Bretagna, Francia e Spagna, o in occasione del bombardamento dei porti venezuelani da parte delle flotte britannica, tedesca e italiana (1902), o  delle innumerevoli invasioni statunitensi in America centrale e nei Caraibi. Tuttavia, alla fine della Seconda guerra mondiale, il debito pubblico estero era sotto controllo e tale rimase fino al 1973, quando ammontava a circa 40 miliardi di dollari. In conseguenza della crisi petrolifera, all'inizio degli anni ’70, vi fu una forte accumulazione di petrodollari nelle maggiori banche del pianeta e nelle casse dei paesi capitalistici più forti. Si diede così inizio a una politica di prestiti facili, a bassi tassi d'interesse, di cui si avvantaggiarono soprattutto governi militari che finanziarono progetti faraonici e acquisto di armamenti. Dal 1979, gli Usa raddoppiarono invece i tassi d'interesse e, dal momento che la maggior parte dei debiti era in dollari, la gestione del debito divenne oppressiva e ingovernabile. Già nel 1982 si manifestò la gravità della crisi, quando il Messico dichiarò l'impossibilità di far fronte ai propri impegni finanziari. Da quel momento, il Fondo Monetario Internazionale e i governi dei paesi più industrializzati imposero una politica di austerità e di tagli ai sussidi alimentari, sanitari e scolastici (le vicende della Grecia o dell’Italia di oggi, come si vede, non sono cose inedite, anche se toccano una della aree più nevralgiche come quella europea!), che facilitò una recessione tanto profonda da far parlare degli anni ’80 come di un “decennio perduto” per l'America Latina, che si trasformò in area di pura esportazione di capitali. I diversi tentativi di formare cartelli tra i paesi debitori, al fine di dilazionare i pagamenti, frenare il ribasso dei prezzi delle materie prime, rompere la politica protezionista della CEE e degli Usa, riformare il FMI, fallirono. Nel 1992, il totale del debito raggiungeva i 450 miliardi di dollari, senza che si profilasse alcuna soluzione.

Tali fattori di vulnerabilità, come abbiamo ricordato nell’articolo precedente con i recenti dati economici, sembrano negli ultimi anni, sia pur faticosamente, venir meno, almeno per i maggiori stati latino-americani, avendo questi non solo rafforzato la propria autosufficienza in quanto a investimenti di capitali in loco, ma anche notevolmente diversificato i rapporti economici, non solo con l’aumento delle esportazioni di materie prime nelle regioni emergenti (Cina, India, ecc.), ma favorendo anche la penetrazione del capitale europeo e cinese, sempre più in sostituzione di quello USA. Questa nuova situazione sta “permettendo” ai maggiori paesi latino-americani di cominciare a fare sempre più la “voce grossa” contro il gendarme USA, che ovviamente vorrebbe continuare a essere sempre tale, pur non avendo i “requisiti” di una volta. Ricordiamo, a tale proposito, nel 2002 il tentativo (fallito) di golpe in Venezuela, appoggiato dagli USA, dal governo spagnolo e dal FMI, contro il governo di Chavez (e l’attentato contro quest’ultimo), sventati dalla immediata   mobilitazione popolare nelle piazze. Più significativo ancora il caso boliviano del 2008 quando, di fronte all’aperto sabotaggio economico USA al gasdotto che esportava il gas boliviano al Brasile, tutti i maggiori stati latino-americani si mobilitarono a difesa della Bolivia: in un comunicato congiunto, i governi di Brasile, Argentina, Cile e Venezuela, affermarono di non riconoscere “nessun governo che pretenda di sostituirsi a quello democratico eletto dai boliviani e confermato in un referendum appena un mese fa con quasi il 70% dei voti”. Il governo brasiliano Da Silva proclamò: “il Brasile non tollererà, ripetiamo, non tollererà, nessuna rottura dell’ordine democratico in Bolivia”. Dall’Argentina, la stessa presidente Cristina Fernández esprimeva la propria durissima condanna per il “sabotaggio terrorista”, affermando che “l’Argentina è fermamente decisa a difendere l’integrità territoriale boliviana”,confermando il “pieno e incondizionato appoggio al governo Morales”. Il venezuelano Chávez fu ovviamente ancor più duro: come atto di solidarietà alla Bolivia, espulse l’Ambasciatore statunitense a Caracas, richiamò il proprio da Washington e dichiarò: “gli statunitensi devono imparare a rispettare i popoli dell’America latina”. Significativa anche la posizione di Brasile, Argentina e degli altri paesi aderenti all’ALBA e al MERCOSUR, che non riconoscono Lobo come presidente honduregno, eletto dopo un colpo di stato militare di ispirazione USA, che aveva deposto Zelaya con tendenze filo chaveziste, anche per la sua adesione all’ALBA.

Il recente vertice della CELAC (Comunità degli stati latino-americani e caraibici) del dicembre 2011, tenutosi con l’esclusione di USA e Canada e di ogni altra “tutela” straniera, con la sua forte marcatura di integrazione e solidarietà interregionale, pur nella coesistenza di diverse tendenze politiche (anche filo USA: Colombia, Cile, Costa Rica, Honduras, Panama), ha preso posizione contro il blocco economico, commerciale e finanziario di Cuba e sul riconoscimento del diritto dell’Argentina sulle isole  Malvinas contro il Regno Unito.

E’ chiaro che la proliferazione di sigle e organismi volti all’integrazione indicano anche l’esistenza di differenti “indirizzi  politici” riguardo alla stessa integrazione: la creazione dell’Alleanza del Pacifico Latinoamericano (Messico, Perù, Colombia e Cile) si contrappone sia all’ALBA, voluta dal Venezuela (Bolivia, Nicaragua, Ecuador, Cuba), sia al MERCOSUR a guida brasiliana. I tre organismirappresentano “visioni” dell’integrazione diverse, fra l’antimperialismo dell’ALBA, la sinistra moderata del MERCOSUR e il “liberismo” di derivazione statunitense dell’Alleanza del Pacifico Latinoamericano. Ed è questa la ragione per cui anche allo stesso vertice della CELAC non è passata la proposta di Chavez di sostituire l’OSA, l’unico organismo dove sono ancora presenti gli USA. Sta di fatto che, nonostante tali differenti correnti politiche, all’interno della CELAC si sono votate misure storicamente importanti come quelle su Cuba e sulle Isole Malvinas.

 

Il punto sulla situazione

I dati e i fatti riportati dicono piuttosto decisamente come al declino economico USA segua anche quello politico e militare. La crisi economica USA, come quella europea, è infatti “strutturale”: una crisi di sovrapproduzione di merci e capitali di forte entità [4]. E, d’altra parte, il cammino (o, fin qui, “la corsa”) dei paesi emergenti, i cosiddetti BRICS, non rappresenta un fatto “contingente”, ma un qualcosa di portata epocale, destinata a travolgere i vecchi scenari geopolitici mondiali. Nel disperato tentativo di non perdere le vecchie posizioni conquistate nel corso del lungo dominio quasi assoluto, gli USA saranno sempre più imbrigliati, da un lato, nella tentazione di continuare quel dominio politico e militare (con relativa ideologia da “arbitro mondiale”), che richiede però la “presenza in loco”, con relativa spesa militare nelle varie regioni, e, dall’altro, in un atteggiamento di prudenza, “pragmatico”, che impone loro di non imbarcarsi in imprese che appesantirebbero ancor di più l’elefantiaco bilancio statale (si veda al riguardo il proclamato disimpegno da Irak e Afganistan). La Cina, il gigante asiatico, e il Brasile, il gigante sudamericano, sembrano, dall’alto dei loro PIL finora elevati, aspettare gli sviluppi drammatici di questo declino generale, per sostituirsi sempre più al gigante americano.

Sappiamo come i “passaggi del testimone” tra grandi potenze è sempre stato foriero storicamente di scontri e guerre di grande portata e il periodo storico che si prepara non sarà certo da meno. I focolai non mancano, e sono anzi disseminati in ogni parte del mondo, a partire dall’area mediorientale che diventa sempre più incandescente. In America Latina, dunque, il pericolo per gli USA – e non solo sul piano economico – non è più rappresentato dalle vecchie potenze occidentali, che si ritrovano adesso più o meno nelle sue stesse brutte acque, ma soprattutto dal Brasile (oltre che da Argentina, Cile, ecc,), che toglie sempre più respiro (=profitti e rendite) al loro capitale, ai loro monopoli, riducendo in tal modo anche le possibilità di spazio per spese, interventi e avventure militari nella stessa area latino-americana “prediletta”. Quelli falliti o andati a male negli ultimi dieci anni che abbiamo ricordato (Venezuela 2002, Bolivia 2008, Honduras 2010), insieme agli “impantanamenti” in Irak e Afganistan, denunciano una scarsa capacità di “tenere testa” come un tempo ai tentativi di mettere in piedi governi “non graditi”.

Significativo a questo proposito è stato l’incontro, tutt’altro che cordiale, tenutosi tra la Rousseff e la Merkel lo scorso 5 marzo in Germania. La presidente del Brasile si lamenta dello “tsunami monetario” (definizione della politica monetaria espansionista dell’Europa e degli Stati Uniti), che “pregiudica l’industria dei paesi emergenti”. Ma intanto, nel settembre 2009, il presidente Lula aveva firmato un accordo di cooperazione militare, per il quale il Brasile iniziava la costruzione di sottomarini convenzionali e nucleari e di elicotteri militari. L’accordo trasformava chiaramente il paese in una potenza industriale e militare inserendolo nel ristretto gruppo di paesi capaci di fabbricare sottomarini nucleari e caccia di quinta generazione. Quest’anno deciderà invece l’acquisto di 36 cacciabombardieri di ultima generazione scegliendo tra il Rafale della francese Dassault e l’F-18 Super Hornet della statunitense Being. Il capo di stato maggiore delle forze armate, il generale Carlos de Nardo, ha dichiarato il 20 marzo scorso, di fronte a ufficiali, al Ministero della Difesa: “Non ci sono luoghi per conflitti in America del Sud. Possiamo incontrare piccole crisi alle nostre frontiere, che risolveremmo con l’invio veloce di nostri effettivi”. Poi aggiungeva che il continente possiede in abbondanza idrocarburi, risorse idriche, produzione alimentare e biodiversità, e che il ruolo del Brasile “consiste nel contribuire al processo di dissuasione continentale contro l’avidità di potenze straniere”. Come si vede, il Brasile accompagna la propria offensiva sul piano valutario e commerciale con quella militare, offrendosi sempre più nel ruolo di “protettore” dell’area latino-americana, appannaggio assoluto da circa un secolo degli USA. Ma la cosa non riguarda solo il Brasile: tutti gli stati latinoamericani approfittano del “buon momento” per mettere in atto un vero riarmo generalizzato sia in funzione anti-USA e anti-Europa, sia in funzione di prove di forza nei confronti degli stessi stati interregionali.

Comunque, la situazione in America Latina è oggi tutt’altro che semplice. Aree e regioni restano ancora sottoposti fortemente al dominio economico, politico e militare americano, come la ricordata Alleanza del Pacifico tra Messico, Colombia, Perù e Cile. Altre guardano ormai sempre più come punto di riferimento soprattutto al Brasile, come gli stati del MERCOSUR (Argentina, Paraguay, Uruguay). Altre ancora sono sotto l’influenza venezuelana di Chavez, come gli stati dell’ALBA, l’Alleanza Bolivariana per le Americhe.

Non si tratta di divisioni spiegabili a partire da impostazioni ideologiche diverse, seppure le ideologie si accompagnino sempre alle tendenze economiche materiali, come abbiamo visto per la stessa superideologica e imperialista Dottrina Monroe. Da sempre, lo scontro nei paesi latino-americani (come altrove) nei confronti degli imperialismi che si sono succeduti e per ultimo nei confronti degli USA, è quello tra il capitale interno a tali paesi, che, come ogni capitale, ha cercato di aprirsi la sua strada, e il capitale “straniero”. La funzione dei vari imperialismi è infatti sempre quella di mettersi anzitutto al servizio degli interessi dei grandi capitali monopolistici dei loro paesi e delle loro zone d’influenza, a scapito di quelli appena nati o giovani, di altre aree, sottraendo a questi quanti più profitti e rendite possibile e impedendo loro un “regolare” (se è lecito usare questa espressione per indicare il cammino del capitalismo!) sviluppo (ne sappiamo qualcosa in Italia con la secolare “questione meridionale”). Preferibilmente, come avviene ancora in grandi aree geografiche come quella africana, la strategia è anzi quella di indebitarli per poterli ricattare, dominare sul piano economico e politico o metterli sotto la propria “tutela” militare. Nel tempo, però, faticosamente e in forza dell’intensificarsi comunque, sul piano mondiale dei flussi di merci e capitali, alcuni paesi dell’America Latina (come, in altre regioni, la Cina, l’India, il Sudafrica) sono riusciti a dotarsi di una propria autosufficienza economica; altri l’hanno fatto di meno e altri ancora rimangono molto indietro. Nel suo rapporto con l’imperialismo, il capitale interno a tali paesi viene fin dall’inizio sottoposto a una forte pressione, che alimenta una “divisione” e/o “spaccatura” tra una frazione “compradora” più o meno strettamente legata e succube agli interessi del capitale straniero e una frazione “nazionale” che tenta invece di sviluppare le esigenze del capitale autoctono, cercando di non farsi schiacciare troppo dal dominio di quello straniero. Tutti gli interventi militari, i vari “golpe” che si sono succeduti nel tempo (ricordiamo quelli cileno e argentino degli anni ’70 del ‘900), hanno avuto l’obbiettivo di schiacciare e annullare le frazioni economiche e politiche “interne” che meno accettavano il saccheggio imperialista, per sostituirle con quelle che invece si prestavano a tale gioco (il tutto, come abbiamo visto, in obbedienza ai canoni della Dottrina Monroe).

Le ragioni degli interventi militari, dei golpe, degli imbrogli elettorali vari, e, per converso, delle lotte e resistenze interne contro di essi, non sono da ricercare nelle varie fasulle ideologie sfornate: né in quelle a giustificazione delle imprese imperialiste né in quelle a giustificazione della “resistenza” contro lo stesso imperialismo sul piano interno, come nelle varie ideologie “antimperialiste” o “terzomondiste”, con le loro varianti peroniste, democratiche, guevariste, ecc. Non vanno ricercate soprattutto nella contrapposizione tra “sistemi economici diversi”: quello capitalistico, rappresentato dagli stati imperialisti, e quello presunto “socialista” che, nelle suddette ideologie, sarebbe rappresentato dalle misure stataliste o nazionalizzatrici, o comunque “antiliberiste” Si tratta, invece, della lotta feroce, senza esclusione di colpi, all’interno dello stesso sistema capitalistico, statalista o liberista che sia, per la divisione dei profitti e delle rendite, che ha visto e vede fortemente in contrasto gli imperialismi da un lato e le varie frazioni borghesi interne dall’altro – tutte con denominatore comune l’estorsione quanto più alta possibile del plusvalore ai proletari per l’accumulazione dei profitti capitalistici.

Alla base dell’attuale maggiore “integrazione interregionale” in America Latina vi è indubbiamente la possibilità di un maggiore respiro del capitale dell’intera regione, che “gode” maggiormente delle difficoltà dello strozzinaggio e ladrocinio imperialista USA ed europeo (cui ci si permette adesso di “tirare l’orecchio” per i “guai “ causati o che possono causare le “economie in crisi”, come abbiamo visto nel caso brasiliano) per rilanciare i propri profitti: un “banchetto”, in effetti, a cui partecipano di buon grado sia le frazioni borghesi sedicenti “più stataliste”, coi loro più o meno antichi rancori ideologici accumulati nei confronti dello straniero (soprattutto USA), sia quelle “più liberiste”, che avevano stretto legami di più o meno forte sottomissione con esso e che, nella situazione attuale, possono permettersi anche, con tutta la prudenza possibile, di “cambiare aria”. Si tratta però di uno sviluppo che, in barba a ideologie e “visioni economiche” diverse, non potrà che aggravare, nella stessa regione, anche le diseguaglianze e gli scontri tra Stati che, rispetto a prima, stanno assumendo funzioni di vero dominio imperialista e Stati che ne rimarranno succubi, come lo erano nei confronti dei vecchi imperialismi statunitense ed europeo.  

 



[1] Per l’analisi che segue, ci siamo basati sulle seguenti fonti: D. Bertozzi, “La dottrina Monroe: gli USA con licenza di imperialismo”, POL-Politica in Rete, 30/10/2010; “Si conclude con successo il vertice della CELAC”, Radiocittà aperta.it, 88.9; “Nasce oggi la CELAC”, Il pane e le rose, 2/12/2011; “Debito estero dell’America Latina”, Dizionario di storia moderna e contemporanea (Portale a cura dell’INCA CGIL); G. Carotenuto, ”L’America integrazionista si stringe intorno alla Bolivia”, Giornalismo partecipativo, 12/9/2008; R. Zibechi, “Il Brasile dichiara guerra monetaria all’Europa e agli USA", Puntocritico. Centro studi di politica internazionale, 25/3/2012. Un’utile documentazione è contenuta pure in L’Atlante. Un mondo capovolto, Monde Diplomatique/Il Manifesto, 2009, e in L’Atlas du Monde Diplomatique. Mondes émergents, Monde Diplomatique, 2012.

[2] Sulle origini della “Dottrina Monroe” e sulle sue varie implicazioni, cfr. Oliviero Bergamini, Storia degli Stati Uniti, Bari 2009.

[3] Si veda d’altra parte quanto scrivevamo nel 1951, sul n.1 di quello che allora era il nostro quindicinale, Battaglia comunista, nell’articolo “Non potete fermarvi. Solo la rivoluzione proletaria lo può, distruggendo il vostro potere”.

[4] Scrivevamo dodici anni fa, al termine di un lungo articolo intitolato “Gli USA dalla ‘prosperità’ alla crisi” (Il programma comunista, n.2/2002): “Quanto l’economia americana a livello mondiale aveva recuperato nell’ultimo decennio rispetto al passato, nel prossimo futuro è destinata a perderlo. E d’altro lato l’affanno del cuore del capitalismo mondiale non potrà che aumentare l’instabilità di tutto il sistema, accelerare e acuire gli antagonismi imperialistici e le crisi che esploderanno alla periferia saranno sempre più ‘ingovernabili’ e maggiormente contagiose per le metropoli del centro”. Quel che è successo nei dodici anni seguenti è sotto gli occhi di tutti: per chi vuol vedere. Cfr. anche “Il corso del capitalismo mondiale dal II dopoguerra verso il III conflitto imperialistico o verso la rivoluzione proletaria”, Il programma comunista, nn.1 e 4/2005, e “Il crollo dei mercati finanziari è la palese conferma del grado estremo e irreversibile cui è giunta la crisi del sistema capitalistico”, Il programma comunista, n.4/2007.

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°03 - 2012)

 

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