DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Il Natale 2004 verrà ricordato (ma quanto a lungo?) per il disastroso bilancio del terremoto-maremoto scatenatosi nel golfo del Bengala: le vittime, che nelle prime ventiquattr’ore sembravano essere “appena” 24mila, sono poi lievitate drammaticamente fino a toccare una cifra (ufficiale) di circa 250mila. Al di là del rivoltante sensazionalismo rovesciato a piene mani, per settimane, da tutti i mezzi di comunicazione, l’evento suscita una serie inevitabile di domande: l’elevato numero di vittime è davvero una conseguenza diretta della forza dell’evento naturale? quali saranno i contraccolpi economici del disastro sul futuro delle aree colpite? e quali le ripercussioni a livello mondiale? che cos’ha a che fare tutto ciò con il capitalismo e, soprattutto, con la “vecchia talpa” della rivoluzione? Andiamo con ordine.

Grandi onde e grandi affari

Come si sa, il terremoto ha avuto come epicentro un punto dell’Oceano Indiano molto vicino all’isola di Sumatra e i suoi effetti si sono propagati, in forma di “tsunami” (grande onda), per un raggio di oltre 5mila km, fino alle coste orientali dell’Africa. La magnitudo del terremoto è stata pari al 9° grado della scala Richter: una forza devastante che, sprigionatasi dal sottosuolo – fatto consueto nella storia geologica della terra e, in questo senso, elemento oggettivo – , ha incontrato sulla sua strada una della zone più popolate, fra Sri Lanka, la costa indiana orientale, il Bangladesh, Myanmar, la Thailandia con la penisola malese, giù giù fino all’isola di Sumatra. Eppure, le conseguenze di un terremoto ancora più intenso, verificatosi all’inizio del secolo scorso in Alaska, sono state infinitamente meno disastrose. Si dirà: l’Alaska è scarsamente popolata, poco dotata di insediamenti e infrastrutture – ovvio dunque che le conseguenze siano state relative...

Ma proprio qui sta il nocciolo del problema (e una prima, parziale risposta a quelle domande): la crescita anarchica e ipertrofica dell’attuale società, caratteristica della fase terminale, imperialistica, del capitalismo, ha avuto l’effetto di ammassare sulle lande terrestri centinaia di migliaia di proletari e di diseredati, che servono al capitale come serbatoio di braccia, esercito industriale di riserva, masse sfruttate nelle produzioni manifatturiere più o meno arretrate e, in quelle aree, nell’industria del turismo per le classi medio-alte in cerca di brividi esotici (o, in casi particolari, nei bordelli per le luride flottiglie del nomadismo erotico e pornografico). Quello cioè che può apparire alla “coscienza occidentale” un mero dato statistico, “oggettivo e ineluttabile” (un fatto del tutto naturale come un terremoto e le sue conseguenze), è invece l’effetto distorto del “pensiero borghese”: quel “dato” non è per nulla “oggettivo e ineluttabile” – l’evento disastroso è il portato diretto del capitalismo, di un’economia anarchica che anarchicamente ammassa popolazioni anche là dove forse non dovrebbe, fino a causare, in completa contrapposizione con l’ambiente, immani tragedie 1. Non è infatti difficile immaginare che le millenarie tradizioni locali da un lato e l’esperienza documentata di altre “grandi onde” scatenatesi nel corso del ‘900 dall’altro avrebbero dovuto trattenere gli insediamenti a una certa lontananza da coste tanto vulnerabili: ma l’industria del turismo (su cui si regge tanta parte dell’economia dell’area, e anche – non va dimenticato – un settore non da poco delle economie occidentali) richiede villaggi-paradiso in riva al mare, sull’“atollo sperduto”, a due passi dalla barriera corallina, e con tutto l’indotto del caso (pesca in primo luogo) – una micro-economia dai macro-profitti, insomma. E allora, tutti lì ad accalcarsi sulla costa, a sgobbare per tirare a campare nell’unica industria che tira per alcuni mesi all’anno, a pescare il pesce-rombo per il turista occidentale, a lavargli e stirargli il pareo, a preparargli il cocktail…

Ancora. L’evento – a quanto pare – era previsto o almeno atteso, e qualche margine di tempo utile per un preallarme – a quanto pare – c’era: ma nulla è stato fatto. Delle due, l’una: o la tanto celebrata tecnologia e infrastruttura capitalistica è poi impotente anche solo a intervenire tempestivamente in casi del genere; oppure, leggerezza e cinismo si sono alleati per lasciare che le cose andassero come dovevano andare, pensando piuttosto al… dopo – ai “grandi affari” dell’intervento umanitario e della ricostruzione (forse non immaginando subito le conseguenze reali della catastrofe: è l’unico beneficio del dubbio che siamo disposti a concedere!). Nell’un caso come nell’altro, ai nostri occhi ciò suona come un’ulteriore condanna a morte per un modo di produzione così (dis)organizzato.

 Ma andiamo avanti, e parliamo pure, a questo punto, di iene e di coccodrilli. Ovunque si verifichi distruzione di capitale fisso (macchine, infrastrutture, edifici, ecc.), là vi è poi ricostruzione e di conseguenza business. E a questo ci si prepara: anzi ci si è preparati da subito, mentre ancora si contavano i cadaveri. Chi gestirà la ricostruzione è presto detto: il capitale internazionale, nelle sue ramificazioni nazionali e statali, secondo una gerarchia che vede al primo posto i capitali più forti e agguerriti e le borghesie che ne sono interpreti sullo scenario mondiale, giù giù fino alle borghesie locali dell’area, più o meno legate a questo o quel paese, a questo o quel capitale nazionale.

250mila morti, nella cinica partita doppia del capitale, sono un bell’affare! Si pensi anche solo ai lenzuoli bianchi, ai sacchi di plastica di diverso colore, al materiale di qualunque genere utilizzato per coprire e separare la montagna di cadaveri – il tutto stimabile in più di 350 km di tessuto o quant’altro; oppure, si pensi al combustibile necessario per le pire o ai disinfettanti utilizzati a manetta… Noccioline, affari secondari e di breve durata, naturalmente; ben altro è quello che ci si aspetta di rastrellare in prospettiva: si pensi all’industria farmaceutica, a quella alimentare, a quella edile civile, all’industria delle comunicazioni (intesa come infrastrutture), all’industria del petrolio, e poi a tutto il comparto servizi. Questo è il vero “grande affare” della ricostruzione, uno “tsunami” di tutt’altra portata: e così, come sempre, il bravo borghese, mentre con una mano s’asciuga le lacrime, con l’altra accende la calcolatrice.

Per quanto tempo poi il volano dell’economia possa trar vantaggio dalla morte di decine e decine di migliaia di proletari e dalla distruzione di capitale fisso è un’altra cosa. Tre sono i fattori materiali da tenere in considerazione: l’entità “reale” del danno, le dinamiche interimperialistiche e l’atteggiamento del proletariato mondiale. Proviamo a vederli.

Le conseguenze economiche

 Gli economisti borghesi si sono messi subito al lavoro e hanno decretato che, in fondo, sul piano strutturale, lo “tsunami” non ha creato grossi danni. Citiamo da un articolo apparso sul giornale on-line Mia economia: “Un disastro di grande entità dal punto di vista umano come quello che ha colpito le regioni affacciate sull’Oceano Indiano avrà un impatto sorprendentemente basso sulle economie dei Paesi stessi. […] a scriverlo è il Wall Street Journal, secondo cui ‘la maggior parte delle infrastrutture chiave del Sud-est asiatico, inclusi i porti e le reti di trasporto, sono rimaste intatte’. ‘Nel complesso – scrive sempre il WSJ – il disastro dovrebbe nel peggiore dei casi limare la crescita economica della regione per il 2005 di pochi decimi di punto percentuale. E in alcuni Paesi, per esempio India e Indonesia, l’espansione economica potrebbe rimanere intatta’”. Ancora, sempre dalla stessa fonte on-line: “Anche secondo l’economista Wing Tye Woo, professore all’Università della California intervistato dall’International Herald Tribune, quello provocato dallo Tsunami sulle economie della regione ‘è soltanto un piccolo contraccolpo, che però è concentrato nella parte più povera della regione’. Per l’IHT, che cita uno studio della Standard Chartered Bank, considerando l’importanza del turismo per alcuni Paesi, la crescita del Pil sarà indebolita di meno dell’1% in Tailandia, del 2% per lo Sri Lanka, per arrivare al 4% delle Maldive. Le calamità non hanno toccato infatti i servizi chiave, come le banche e le telecomunicazioni, né la vitale industria manifatturiera (come la fiorente industria dei semiconduttori in Malesia), e la spesa del governo e dei privati ammortizzerà una parte dei costi. E si parla già di un rilancio per alcuni settori, come quello immobiliare e delle costruzioni”.

Il quadro delineato ci sembra chiaro. Da un lato, il grande business dell’intervento umanitario; dall’altro, quello ancor più grande della successiva ricostruzione. In fondo, l’unico vero contraccolpo è quello delle morti di decine e decine di migliaia di proletari: ma di quelli ci si può dimenticare presto – ne muoiono già tanti in giro. E le iene si sfregano le zampe.

Rapporti di forza fra potenze imperialistiche nel Sud-Est asiatico

 Facciamo un piccolo e necessario passo indietro. Dopo la Seconda guerra mondiale, l’area in questione diventa preda degli Stati Uniti e di un Giappone fortemente ridimensionato (oltre che di un’Inghilterra ridotta al rango di secondo violino), mentre l’Unione Sovietica funge da terzo incomodo, monopolizzando a suo uso e consumo i vari movimenti di liberazione nazionale dal giogo coloniale e post-coloniale. Ai giorni nostri, quel teatro è profondamente mutato. Chi fa la parte del leone è oggi la Cina, non tanto in quanto potenza già affermata (solo una prossima guerra aperta potrebbe eventualmente sancirlo), ma al contrario proprio per le sue caratteristiche di economia ancora relativamente giovane e di conseguenza aggressiva. La Cina ha un discreto surplus di capitali e sta accumulando enormi riserve: è quindi costretta a esportare questi capitali, al punto di essere fra i primi creditori dell’enorme deficit degli Stati Uniti.

Che quadro ha davanti a sé la potenza nascente? L’Unione Sovietica non esiste più e l’economia degli Stati Uniti si è progressivamente indebolita rispetto a cinquant’anni fa. La Cina ha dunque nuove nazioni con cui fare affari a ovest (e a nord, con la Russia): ma la sua attuale vocazione è quella di sfruttare il mare interno costituito dal proprio Sud, l’arcipelago delle Filippine, la penisola indocinese, giù giù fino alle isole indonesiane. Naturalmente, qui va a cozzare con gli interessi statunitensi (anche se oggi – essendo quegli interessi planetari – qualunque potenza emergente finirebbe per cozzarci contro, ovunque).

E’ probabile quindi che i due contendenti più forti (Cina e Stati Uniti) si spartiranno la torta della ricostruzione, lasciando qualche boccone anche a UE, Giappone e Australia. E, perché no?, anche alla Russia.

Il proletariato

Tutto questo andrà avanti almeno finché il proletariato locale, precipitato in condizioni se possibile ancora più insostenibili nel futuro prossimo, e quello delle metropoli occidentali, coinvolto nella più generale crisi del capitalismo senescente, lo permetteranno – non perché non lo “vogliano” più, ma perché non lo “possono” più.

Proviamo di nuovo a riflettere. L’estensione della zona colpita è talmente vasta che le economie che la caratterizzano coprono un ventaglio che va da quelle mediamente sviluppate a quelle di mera sopravvivenza rurale. Le popolazioni rurali, tra le più colpite, produrranno un flusso migratorio interno (e in parte internazionale) tale da far salire di molto la temperatura sociale, mai del tutto sopita in quell’area. Ma, come sempre, questo innalzamento della temperatura sociale non potrà avere sbocco, se il proletariato occidentale si comporterà anch’esso come coccodrillo e, in parte, come iena: ovvero, se continuerà ad accodarsi al carro della propria borghesia.

E’ perciò necessario che qui da noi, dove batte il cuore del capitalismo, la temperatura sociale ricominci a salire. E’ necessario che il proletariato occidentale abbandoni alle ortiche la borghesia nazionale e i suoi reggicoda, affasciandosi davvero agli altri drappelli di proletariati più giovani e masse diseredate, formando davvero – politicamente e non solo statisticamente – un proletariato internazionale, attraverso un processo che dovrà culminare nella rivoluzione mondiale. Questa è l’unica solidarietà concreta, risolutrice e rivoluzionaria, che il proletariato occidentale deve ai suoi fratelli asiatici così duramente colpiti: non certo quella pelosa e drammaticamente sprecona degli “aiuti internazionali”, che in queste settimane le borghesie di tutto il mondo hanno vomitato confusamente sulle zone del disastro.

 Il mondo del capitale

 Alla fine di tutti questi ragionamenti, qualcuno potrà anche obiettare che tutto ciò è accaduto in paesi poveri, privi di strutture e controlli di sicurezza: ben altra cosa sono i nostri “lidi civilizzati”… Balle! Senza andare tanto lontano, vada a gettare uno sguardo in “casa nostra”, dove, nello splendido Golfo di Napoli, una metropoli si arrampica cancrenosa sulle pendici di due vulcani per nulla sopiti come il sistema dei Campi Flegrei e il Vesuvio (quest’ultimo ancora attivo e pericolosissimo). Si calcola che, nel caso di un’eruzione di media intensità, si dovrebbe evacuare più di un milione di persone nelle prime 24 ore – un inutile quanto grottesco piano di evacuazione (basta una nevicata per mandare in tilt la Protezione Civile!) che serve a nascondere la tragica verità di morte che il proletariato napoletano (italiano e mondiale: il caso di Napoli si può moltiplicare per mille, in giro per l’Occidente avanzato, dalla California minacciata dal Big one all’Inghilterra delle recenti inondazioni) scoprirà a proprie spese, fra le lacrime di coccodrillo degli opinionisti di turno, quando dovesse verificarsi l’amara “fatalità”.

Per il comunismo

 Il responsabile dell’inquinamento della natura e della vita umana, delle distruzioni e delle catastrofi, non è né “l’uomo” in generale né “la società” in generale e ancor meno la famosa “civiltà industriale”, comodo luogo comune per mascherare i problemi reali. E’ un modo di produzione ben preciso, retto da leggi ben precise: è il modo di produzione capitalistico, caratterizzato dalla generalizzazione della produzione di merci mediante lavoro salariato. Lo sviluppo della produzione mercantile sulla base del lavoro salariato porta ineluttabilmente alla corsa al profitto e all’accumulazione, alla concentrazione del capitale e all’imperialismo: nocività, inquinamento, distruzioni e disastri non sono che aspetti (e aspetti parziali) delle conseguenze di questo sviluppo.

La misura della “moderna decadenza sociale” si può ricavare mettendo a raffronto la tragedia così come s’è consumata con una prospettiva politica e sociale in cui, avendo la rivoluzione e la dittatura proletarie guidate dal partito comunista spazzato via mercato, profitto, classi e altre delizie dell’oggi, anche il discorso del rapporto uomo-natura venga reimpostato in maniera radicalmente diverso. Il comunismo, economia di specie (interessata e orientata ai bisogni della specie umana e non alle necessità del capitale: e, proprio in quanto tale, in armonia con la natura di cui la specie umana fa parte), basata solo su valori d’uso (ciò che “serve” realmente all’uomo/donna e alla loro riproduzione storicamente intesa, con la pienezza e universalità di godimento che un’umanità liberata dal lavoro e dalla merce potrà esprimere), riorganizzerà il modo di lavorare, gli insediamenti umani, i ritmi e le abitudini di vita, i rapporti sociali. Riconsegnerà la gioia del lavoro come attività creativa a un’umanità che per secoli l’ha dimenticata subendo invece la dannazione dello sfruttamento e della mercificazione. Abolirà il mostruoso contrasto odierno fra città e campagna con tutti gli squilibri terrificanti che l’accompagnano. Disinquinerà e disintossicherà dai veleni materiali e ideologici che già non ci lasciano respirare e pensare. Eliminerà le produzioni dannose e inutili e produrrà finalmente secondo un piano, senza sprechi e senza più ammassare uomini: anzi, restituendo spazio alla terra, alla natura. Con il corollario (non secondario!) che, ricondotta a un numero e ad attività sostenibili, l’umanità avrà davvero modo di scegliere aree sicure dove abitare, fondando quelle scelte su dati geologici e climatico-ambientali ben precisi (e inattaccabili perché non “parti” di una “scienza” inevitabilmente sottoposta al dominio della legge del profitto e della convenzienza economica), che ridurranno al minimo i rischi legati a eventi ambientali così disastrosi.

E’ per questa prospettiva che i comunisti si battono, consapevoli che catastrofi come quella del Natale 2004 non dimostrano altro che la necessità di por fine a un modo di produzione ormai solo distruttivo: anche nel suo rapporto con la natura.

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