DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

 

Le vicende legate alla gestione dei rifiuti nelle province campane hanno reso tangibilmente palese la caratteristica più astratta del contemporaneo modo di produzione: la putrefazione che alimenta il parassitismo della moderna (ultima, conclusiva) fase del capitalismo, quell’imperialismo che l’ideologia della classe dominante disperatamente cerca di nascondere e negare non solo giocando con le parole, ma accecando ed assordando con il chiasso del suo apparato “intellettuale”. Abbiamo qui infatti il parassitismo in senso proprio di aziende che vivono della gestione della spazzatura, aziende che prosperano come scarabei stercorari nello spostamento delle “eco balle”; il parassitismo in senso proprio dei settori della “amministrazione pubblica” che con la creazione di Enti, Consorzi, Commissari, dimostrano con una logica algebrica che lo stato imperialista è il luogo dove la borghesia agisce come capitalista collettivo: cioè come il soggetto che sottomette i bisogni, gli interessi, la sopravvivenza degli esseri umani e della terra a quello della ricchezza solo di quella parte buona a sfruttare e a guadagnare, mascherandosi da Nazione, Patria, Società Civile, Interesse Generale.

La mancanza congenita di progetto, l’anarchia della produzione, proprie dell’industrialismo capitalista, generano quantità immense di “scarti”; la distribuzione capitalista delle merci aggiunge una pletora di imballaggi; il consumo privato proprio dell’homo oeconomicus (il “consumismo” dei moralisti!) riduce il valore d’uso e la durata delle merci che, a loro volta, diventano l’ultimo scarto. Volumi e volumi di ingombri, di spreco, di veleni.

Ma anche da questo punto di vista salta all’occhio un’altra, insopprimibile caratteristica del nostro delizioso mondo: lo sviluppo ineguale. Già, perché nel contesto generale dello sviluppo industriale quel che è “scarto” diventa materia prima e su questa nuova risorsa si ripropone – in forma “moderna” e elegante (siamo ormai nel primo decennio del secondo millennio!) – la dialettica dello sfruttamento imperialista: i “paesi più evoluti tecnologicamente”, il mitico “Nord Europa”, hanno già predisposto gli impianti che trasformano il rifiuto in risorsa.

Sempre più curiosa, la borghesia decadente, mentre si aggrappa alla tonaca del Santo Padre (o al taled del rabbino capo o alla barba dell’imam, a seconda della necessità), realizza la faustiana aspirazione della trasformazione del piombo in oro: ma, accidenti, santità!, il denaro non era lo sterco del diavolo? O, meglio ancora, realizza il sogno antico di trasformare la merda in oro, sogno che l’amaro sarcasmo dei nostri antenati aveva tradotto nel proverbio: “se la merda fosse oro, i poveri nascerebbero senza il buco del culo”.

Si ripropone dunque il tipico rapporto di rapina tra gli imperialisti più o meno potenti: all’ultimo posto, le plaghe delle periferie disperate, Africa, Asia, etc., che fungono da discariche mondiali sulle quali migliaia di disperati dall’aspettativa media di vita di un quarto di secolo razzolano recuperando grammo per grammo tutto ciò che si può riutilizzare, dal cibo ai metalli da rivendere; al primo posto, le asettiche industrie metropolitane che lavorano la “crema” del rifiuto vagliato e sterilizzato; in mezzo, la solita borghesia italiana cialtrona e furbastra, capace di innovazioni tecnologiche d’avanguardia ma soprattutto di inserirsi alla sua maniera, da magliara, nel trasporto, nello stoccaggio, nel trattamento intermedio.

Da noi, l’intreccio e la divisione del lavoro tra legalità e illegalità, tra sviluppo e arretratezza, tra bisogno di reddito e clientela, rendono possibile il fenomeno “Campania” – un territorio che riproduce tutti i fenomeni tipici dello stato imperialista: sfruttamento intensivo del proletariato indigeno e immigrato, industrie che vivono delle commesse dirette e indirette dello stato, istituzioni dello stato che incarnano la funzione di capitalista collettivo che organizza e coordina le risorse e la “camorra” che da un lato si occupa del lavoro sporco, tappa i buchi e, dall’altro, assumendosi il ruolo di “cattivo”, fornisce al riformismo la scusa di nutrire (a suon di dobloni) l’illusione di un capitalismo onesto ed efficiente.

Tutto ciò pesa sul corpo dei proletari campani, che per il momento, al pari di tutti gli altri proletari nazionali, reagiscono come i famosi capponi che Renzo portava in dono all’avvocato Azzeccagarbugli: al grido (sacrosanto) di “la discarica non nel mio giardino”, “litigano” tra di loro e, annegati nel movimento della “gente”, sono ancora legati all’utopismo illusorio di un ecologismo tecnologico-scientifico che altro non è se non l’ennesimo farmaco che prolunga la vita del Capitale.

 

Ai proletari, anche in questo caso vittime del Capitale, come operai dell’industria del riciclo, come abitanti delle zone di discarica e di industria del riciclo e come massa di manovra delle bande legali (tutti i partiti “parlamentari” o aspiranti tali) e illegali (camorre, mafia, racket), questa vicenda deve offrire uno spunto in più per prepararsi all’unica soluzione possibile: la rivoluzione, che elimina il “rifiuto” del capitale “processandolo” nell’unico impianto non inquinante possibile, la dittatura del proletariato. 

 

 

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°02 - 2008)

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