DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

LA SINISTRA DEL PCD’I AL V CONGRESSO DELL’INTERNAZIONALE COMUNISTA

Gli errori tattici sono conseguenza di insufficienze programmatiche

Il 17 giugno 1924, il V Congresso dell’Internazionale Comunista apriva i battenti nel Grande Teatro di Mosca. Era trascorso un anno e mezzo dall’ultimo Congresso, ma molte cose nel frattempo erano cambiate ed esigevano dai delegati di 41 sezioni delle chiare indicazioni: da un lato, su come interpretare i drammatici avvenimenti recenti; dall’altro, su come affrontare (con quali mezzi teorici e pratici) le difficili questioni che stavano per porsi al movimento rivoluzionario.

Pochi mesi prima era morto Lenin, che anche al IV Congresso non aveva potuto che fare qualche breve intervento, e il comunismo internazionale perdeva quello che, per decenni, era stato il restauratore del marxismo contro le degenerazioni del riformismo socialista. Ma sul tappeto le questioni scottanti erano altre. Come interpretare la gravissima sconfitta avvenuta solo pochi mesi prima, nell’ottobre 1923, in Germania? Si era trattato di una insufficiente preparazione da parte del Partito tedesco? Erano giustificate le critiche mosse da diversi esponenti di sinistra, tra cui Trotsky, alle direttive emanate in quell’occasione dai vertici dell’Internazionale? E come valutare le recentissime sconfitte in Bulgaria, in Polonia, in Estonia? Avevano esse la medesima origine di quella tedesca, cioè una intrinseca debolezza nell’impostazione tattica, che considerava prioritario, per il successo, giungere a un’intesa di tipo parlamentare con altre classi e con partiti socialdemocratici alleati per l’occasione (il cosiddetto “governo operaio e contadino” accettato – con poche eccezioni – dal IV Congresso) [1]? O la sconfitta si doveva ad un’errata valutazione della situazione?

E inoltre: in che modo e in che misura avrebbe potuto o voluto rispondere l’Internazionale – cioè l’insieme dei partiti comunisti mondiali – a quella che si annunciava come grave crisi interna al Partito comunista russo?

Nella sua lunga e articolata relazione introduttiva, il presidente dell’Internazionale, Zinoviev, dopo aver affrontato in modo analitico alcune questioni particolari (la caotica situazione del partito francese, il movimento americano, l’estremismo di sinistra ecc.), annunciava quella che era una vera e propria svolta tattica: si doveva iniziare la lotta contro la destra, e la socialdemocrazia (fino ad allora considerata come una potenziale alleata nella lotta rivoluzionaria: era la famosa tattica della “conquista delle masse”) era ora definita come il terzo partito della borghesia: “La borghesia in Europa è costretta ad aggrapparsi ora al fascismo, ora alla socialdemocrazia. I fascisti sono la mano destra, i socialdemocratici la mano sinistra della borghesia. Questo è il fatto nuovo della situazione”[2]. Ne conseguiva una critica feroce al partito tedesco: “La ‘teoria’ secondo cui la socialdemocrazia sarebbe stata ‘sconfitta’ dal fascismo si è dimostrata manifestamente falsa e con ciò la teoria di Radek e di Brandler”. Ma l’Internazionale aveva prontamente reagito agli altrui errori, affermò Zinoviev, sostituendo la vecchia direzione con un gruppo che riuniva qualche elemento di centro e alcuni altri di sinistra (Fischer, Maslow).

Insomma: il vertice dell’IC scaricava sulla sezione tedesca ogni responsabilità nel fallimento di Ottobre; la politica del “governo operaio” era giusta, ma Radek l’ha applicata in Sassonia in modo errato; e se nella risoluzione adottata dal IV Congresso sul “governo operaio” sembrarono fatte troppe concessioni alla destra, si trattò solo di un errore commesso dallo stesso Zinoviev nella sua stesura, un errore redazionale (!!) che i destri vollero interpretare come direttiva politica (!!).

Nonostante queste ammissioni e nonostante questa sterzata a sinistra, nei confronti del Partito italiano, e soprattutto della Sinistra (diventata nel discorso di Zinoviev ‘ultrasinistra’), venne mantenuta la critica più severa: “Tra i ‘sinistri’ italiani ci sono dei dottrinari che credono che noi

possiamo trovarci assieme ed elaborare una volta per tutte, sulla base di certi ‘principi’, una certa alchimia tattica, che andrebbe utilizzata per ogni occasione. E quando essi dicono che, se l’Internazionale non accetterà il loro punto di vista, allora essi si atterranno semplicemente a una ‘disciplina formale’ e cercheranno di formare una frazione di sinistra a scala internazionale, io credo che l’Internazionale non lo permetterà mai. Bordiga ci è caro, ma l’Internazionale ci è ancora più cara. Non è l’Internazionale che deve adattarsi a Bordiga, è Bordiga che deve adattarsi all’Internazionale. Non c’è posto per una ‘disciplina formale’ nella nostra Internazionale comunista”[3].

Di seguito, ripubblichiamo ampi passaggi dell’intervento di Bordiga in risposta alla “svolta tattica” e alla critica espressa da Zinoviev, riassumendo il resto e ampliando il discorso all’oggi, a ulteriore dimostrazione che, nel pubblicare questi documenti, noi non facciamo dell’asettica storiografia, ma li riproponiamo come armi di battaglia. Il testo integrale dell’intervento si potrà leggere nei Documenti compresi nel VI volume della Storia della Sinistra Comunista, attualmente in preparazione.

L’intervento di Bordiga, XIII seduta, 25 giugno 1924 

 

La prima parte del discorso fu dedicata a ribadire le ragioni dell’opposizione di sinistra alla tattica fino ad allora seguita dall’IC, sottolineando anche i discutibili procedimenti adottati nel Congresso precedente per non procedere a una discussione seria sulla questione tattica generale. È dunque necessario ed urgente – affermava Bordiga – che l’Internazionale, cioè tutti i partiti che la formano, sottopongano a un esame critico l’attività dei suoi dirigenti: è necessario che l’Internazionale poggi sulla sua base, non sul suo vertice.

“[Al IV Congresso] la questione della tattica era all’ordine del giorno. Essa venne trattata in parallelo al rapporto del compagno Zinoviev sull’attività dell’Esecutivo. Si presentò al Congresso perfino un progetto di tesi sulla tattica preparato dallo stesso compagno Zinoviev. Ed è vero che questo progetto di tesi fu adottato alla fine del Congresso. Tuttavia la commissione che doveva incaricarsi del problema e che, se ricordo bene, era composta dal Presidium e da alcuni membri delle delegazioni più importanti, non vi poté lavorare in modo adeguato. Essa non si riunì che negli ultimi giorni, e solo in quegli ultimi momenti io potei presentare un progetto di tesi che era opposto a quello del compagno Zinoviev, e di cui il Congresso non poté neppure prendere conoscenza.

“Ci trovavamo, come ho detto, negli ultimi momenti del Congresso ed io non potei insistere. Si adottò un progetto di tesi sulla questione tattica, ma non si ebbe, come al III Congresso, una vera discussione sulla tattica. Attualmente questa discussione sarebbe necessaria. Ma noi ci troviamo di fronte ad una discussione d’ordine tutt’affatto diverso, perché una discussione sulla linea tattica dell’Internazionale in generale è qualcosa di completamente diverso che discutere solo sulla tattica che l’Internazionale ha applicato nel periodo compreso fra l’ultimo Congresso e quello attuale, e trarne delle conseguenze che hanno un valore momentaneo, transitorio, senza pervenire a conclusioni generali sulle questioni che dall’Internazionale non sono ancora decise. […]

“Sarebbe necessario che noi discutessimo sull’attività e la tattica dell’Internazionale tutta intera, sul rapporto del suo organo più alto, l’Esecutivo, sulla sua attività tra i due congressi. Sarebbe necessario sottomettere a un esame molto attento l’attività, l’opera dell’organo direttivo dell’Internazionale. In realtà noi vediamo, al contrario, che non si fa qui il processo all’Esecutivo, ma è sempre l’Esecutivo che fa il processo ad ogni partito, ad ogni sezione”.

Dunque, anche il modo in cui si era stabilita, ormai da tempo, la prassi di valutare al vertice le innumerevoli “questioni” locali (francese, tedesca, italiana e via dicendo) per sottoporre poi, al Plenum o in commissioni più o meno ristrette, le decisioni prese (o almeno l’orientamento che tutti i delegati, quasi sempre obbedienti, avrebbero dovuto seguire nelle votazioni finali), era da rivedere profondamente – una vera discussione sui problemi generali dell’Internazionale sarebbe rimasta, diversamente, impossibile.

“E gli oratori che partecipano a questa discussione internazionale al congresso dell’Internazionale su incarico di una sezione dell’IC, quasi sempre si preoccupano soltanto delle faccende del loro partito, e rispondono soltanto a ciò che il compagno Zinoviev ha detto sulle questioni che riguardano il loro partito. Gli oratori restano sempre nei ristretti confini dei propri affari nazionali. Non ci troviamo quindi davanti a discussioni e risoluzioni che abbiano un vero carattere internazionale e sulle quali la massa dei militanti del Comintern, attraverso la voce dei delegati, possa prender posizione sull’opera, sull’attività dell’organo dirigente nel periodo in esame”. 

La recente evoluzione politica, la serie di sconfitte del movimento rivoluzionario a scala europea non dovevano giustificare in alcun modo una rinuncia alle posizioni di totale autonomia del partito di classe. Il fascismo e la (social)democrazia non sono solo due aspetti del dominio totalitario che il Capitale esercita sul lavoro salariato: sono due forme fluide, che trapassano “osmoticamente” l’una nell’altra. E noi, oggi, nel 2021, non abbiamo tutti i diritti di ritenere che questo dominio totalitario sia in tutto simile – o forse peggio, se consideriamo l’oppressione ideologica nella quale viene costretto, attraverso mille mezzi, il proletariato mondiale – a quello del 1924?

“Le considerazioni riguardo alla crisi del capitalismo che ci avevano indotto nei precedenti congressi a costatare che la borghesia, per mantenere il suo potere, era costretta a lanciarsi in un’offensiva violenta contro la classe operaia, mantengono la loro completa validità. L’offensiva della borghesia continua e là dove essa ha acquisito il carattere di fascismo (credo che avremo l’occasione di parlare del fascismo in altri punti dell’ordine del giorno), essa non differisce molto dalla diagnosi del compagno Zinoviev riguardo alla politica socialdemocratica, che è stata la politica di un terzo partito borghese, la politica della mobilitazione dell’aristocrazia operaia e di certi strati contadini e piccolo borghesi nell’interesse della borghesia. Ebbene, in fondo, il fascismo non è nulla d’altro. Il fascismo non è più la semplice tradizionale reazione dello stato d’assedio, del terrore, è un movimento ben più moderno, più astuto, più sperimentato e che tende appunto a trovare appoggio tra certi strati della massa. Gli è difficile raggiungere la massa dei lavoratori industriali. Ma, nel primo periodo della sua attività, gli riesce di provocare in altri strati, mediante lo sfruttamento dell’ideologia piccolo borghese, una mobilitazione analoga alla mobilitazione socialdemocratica nell’interesse della conservazione dei rapporti borghesi. Noi dobbiamo attenderci che i due metodi dell’offensiva borghese formeranno una sintesi e che i socialdemocratici e i fascisti insieme condurranno un’offensiva violenta contro il movimento rivoluzionario, e che formeranno una alleanza, come l’avversario definitivo contro il quale il comunismo mondiale dovrà battersi”.

Vi è questo vecchio ritornello, inventato in Italia dalla destra del Partito, della direzione “elitaria”, settaria, priva di contatto con le masse. Solo qualche mese prima, Tasca – l’esponente della destra – poteva sostenere davanti all’Internazionale che la direzione del PCd’I non era stata in grado di organizzare e dirigere una sola azione di sapore rivoluzionario contro il fascismo. “Difesa astratta dei principi”, “partito di eletti”, “incapacità politica di andare alle masse”, “incapacità di attuare il fronte unico”: questo era l’armamentario di cui si serviva la destra nei dibattiti, quando garantiva la propria fedeltà assoluta alla direzione dell’IC. A dire il vero, è anche il ritornello che sentiamo ripetere, a distanza di cent’anni, da tutta l’arlecchinesca compagnia di studiosi “marxisti”, di arrabbiati immediatisti, di frustrati volontaristi che non riescono a far progredire di una virgola la rivoluzione, perché pensano che questa sia un arnese da maneggiare a proprio piacere e non segua le inesorabili leggi del materialismo dialettico. Ma è vero: non basta aver occhi per leggere le righe che seguono. Per capirle, bisogna essere riusciti a sfuggire alla morsa ideologica della controrivoluzione.

“Si tratta di ben altro. Si tratta di dedicare la nostra adeguata attenzione di marxisti sui problemi concernenti le condizioni immediate di vita del proletariato, problemi che sono sollevati dall’offensiva del capitale. Si tratta di costatare che il compito dei partiti comunisti – e su questo siamo completamente d’accordo – non sta soltanto nel far propaganda del nostro programma massimo, della nostra ideologia marxista, ma anche nell’esaminare tutti gli episodi particolari della vita operaia, di seguirli con attenzione, nel partecipare a tutte le lotte sollevate dagli interessi immediati della classe operaia, nel considerare questa lotta come il terreno sul quale il partito comunista insegna al proletariato a combattere, e lo conduce verso lo sviluppo rivoluzionario della lotta.

“Per ottenere ciò noi abbiamo il dovere e la possibilità di rivolgerci agli operai che non hanno ancora compreso la nostra ideologia politica, che non lottano ancora nel nostro partito, che sono fedeli ad altri partiti. Possiamo esigere la formazione di un fronte unico della classe operaia, possiamo aspirare ad una azione unitaria della classe operaia. Ma questo non significa una coalizione banale coi partiti socialdemocratici che abbiamo qualificato come traditori e che come prima continuiamo a denunciare come responsabili della situazione nella quale il proletariato si trova. Si tratta di due cose del tutto differenti. 

“Ed è nel primo senso che noi abbiamo sempre dichiarato di accettare la tattica del fronte unico, e che in  questo senso ci siamo sforzati di applicarla nel nostro paese.

“La formula qui proposta è: fronte unico dal basso e non dall’alto […]. Essa significa il fronte unico dei lavoratori, della classe operaia tutta intera, non la coalizione dello stato maggiore del partito comunista con quelli di altri partiti sedicenti operai. Perché, se non vogliamo compromettere tutto il nostro lavoro di preparazione politica rivoluzionaria nel proletariato, non dobbiamo neppure lasciar supporre che vi sia un altro partito operaio al di fuori del partito comunista; che i partiti socialdemocratici e i partiti comunisti siano parti della classe operaia che si sono divise per caso ma che possono marciare e lottare insieme. Dobbiamo dire al contrario che la distinzione del nostro partito dai partiti opportunisti è una necessità della lotta rivoluzionaria, ma che, malgrado ciò, noi non rinunciamo a prospettare un’azione comune sul terreno delle rivendicazioni parziali fra operai che sono già comunisti e operai che si trovano nei partiti socialdemocratici e opportunisti, e forse anche in partiti borghesi.

“Quando proponiamo il fronte unico sul terreno dei sindacati, dei consigli di fabbrica o di ogni altra organizzazione operaia, anche se diretta da capi opportunisti, un fronte unico che ci condurrà forse alla necessità di negoziare personalmente con i capi opportunisti – il che non ci spaventa – quando facciamo ciò, noi esortiamo alla lotta organi che possono diventare organi rivoluzionari, e che dovranno diventarlo perché il proletariato trionfi. Quando invece invitiamo all’azione comune un partito non comunista, allora ci rivolgiamo a un organo che non è suscettibile di lottare per la rivoluzione mondiale, che non è capace di sostenere gli interessi della classe operaia, e col nostro atteggiamento diamo a questi partiti un certificato di capacità rivoluzionaria, e questo manda all’aria tutto il nostro lavoro di principio, tutta la nostra opera di preparazione politica della classe operaia”.

È lo stesso presidente dell’Internazionale ad ammettere che errori tattici sono stati fatti in passato. Ma egli afferma – proseguiva Bordiga – che la tattica deve seguire, deve adattarsi alle situazioni contingenti via via mutevoli: non vi dovrebbe dunque essere una tattica valida “una volta per tutte”, bensì una tattica flessibile e, se errori ci furono, essi furono causati da errori fatti da questo o quel compagno, che non ha saputo comprendere l’evoluzione degli avvenimenti, per esempio quelli tedeschi, non hanno saputo applicare correttamente le tattiche del fronte unico e del governo operaio…

“Ma è un fatto che il fronte unico è stato presentato dall’Internazionale e dai Congressi internazionali sotto la forma di un blocco coi partiti operai, del blocco del Partito comunista con gli altri sedicenti partiti operai. E allora la responsabilità della interpretazione sbagliata della tattica del fronte unico ricade su tutta intera l’Internazionale, sulla maggioranza dei Congressi e sulla direzione stessa del Comintern […] In Germania è accaduta la stessa cosa. I fatti dimostrano che, durante un certo periodo prima dell’enorme delusione che abbiamo provato, in Germania col consenso dell’Internazionale è stata condotta una politica di coalizione, e ci si è abbandonati all’illusione che i socialdemocratici di sinistra potessero essere trascinati in un’azione rivoluzionaria assieme al Partito comunista.

“Se vogliamo ora liquidare con utilità queste esperienze, allora dobbiamo dire chiaramente che tali illusioni non erano le illusioni personali del tale o tal altro compagno della Centrale del Partito Comunista tedesco ma erano le illusioni della grande maggioranza dell’Internazionale e del suo stesso Centro dirigente.

“Ma adesso ci si dice: Ma siete proprio dei ragazzacci! L’Internazionale va a sinistra, ma voi non siete mai contenti e lo volete ancora di più. Ammesso che l’Internazionale vada a sinistra, io vorrei osservare […] che quello che abbiamo criticato dell’attività della direzione politica dell’Internazionale, è proprio questa attitudine di andare a destra o a sinistra, a seconda di come la situazione appare e secondo quanto si ritiene di dover considerare in rapporto con lo sviluppo degli avvenimenti. Fino a quando non avremo discusso il problema dell’elasticità, dell’eclettismo […] finché questa elasticità rimane e oscillazioni possono aver luogo, c’è da temere che ad una forte deviazione verso sinistra ne seguirà una ancor più forte verso destra.

“Noi non desideriamo, nell’attuale situazione, una oscillazione a sinistra, ma una chiara e netta rettifica della tattica dell’Internazionale. Una tal rettifica non deve avvenire nel modo da noi desiderato, essa può corrispondere alle opinioni della maggioranza dell’Internazionale, dei suoi capi, che hanno tutto il diritto di tenere in considerazione le proprie idee ed opinioni, ma essa dovrebbe essere applicata in modo chiaro. Vogliamo sapere dove stiamo andando”.

“Vogliamo sapere dove stiamo andando”: nei due anni successivi, la Sinistra comunista non cessò di porre la domanda all’Internazionale. Finché il “dove” risultò drammaticamente chiaro…

 

[1] Si veda il cap. 4 del V volume della nostra Storia della Sinistra comunista, ed. il programma comunista, Milano 2017.

[2] Protokoll fünfter Kongress der Kommunistischen Internationale, pag. 66.

[3] Id. pag. 102.

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