DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

(Avanti!» del 19-2-1915)

 

Quest'articolo dell’«Avanti!» dal titolo Dal vecchio al nuovo antimilitarismo si ricollega al precedente nella confutazione generale di una visione sdoppiata del gioco dei due gruppi di Stati in conflitto. Esso è importante perché, al disopra del problema se si possa o meno scongiurare l'intervento dell’Italia in guerra, pone quello della ripresa avvenire del movimento proletario internazionale, contrapponendo a un antimilitarismo di tipo riformista una nuova posizione di tipo rivoluzionario, che respinga tutte le menzogne con cui si alimentava l'illusione che il socialismo si ritraesse nell’orbita della nazione (così come oggi vediamo farsi da parte di ogni movimento che si qualifichi socialista o comunista!). Viene ancora una volta sconfessato lo sterile pacifismo borghese e proclamato che solo il crollo del sistema capitalista potrà in futuro impedire le guerre.

 

 

 

Dopo più di mezzo anno di guerra e di discussione fremente intorno ad essa, è oggi cosa possibile trarre qualche deduzione che tenga giusto conto della nuova luce portata dai tragici avvenimenti sul delicato e gravissimo argomento dei rapporti tra socialismo e guerra?

L'indagine non è certo accademica né prematura, ché la rendono necessaria ed attuale le condizioni in cui si trovano i partiti socialisti di quegli Stati neutrali per i quali sussiste qualche eventualità di intervento nel conflitto. Domani, dopo la pace, con i lumi della storia e della cronaca retrospettiva ed autentica, senza l'accecamento delle passioni che dividono belligeranti e neutrali in questa ora di crisi, la discussione sarà sviscerata e completa e tutti i socialisti del mondo vi prenderanno parte per giungere - indubbiamente - a conclusioni decisive che servano da punto d'appoggio per l'avvenire. Ma la febbrile indagine e la discussione talvolta caotica e tumultuosa si sono imposte e si impongono oggi a noi; perché il proletariato socialista italiano dinanzi all’eventuale scoppio di una guerra si troverà in condizioni ben diverse che non quelle degli altri paesi, su cui la raffica si abbatté in pochissimi giorni; ed una ben più grave responsabilità storica gli deriverà dal lungo periodo nel quale rimase spettatore dell’azione - o della passione - dei suoi fratelli d'oltre Alpe.

Una cosa - parmi - da tutte le constatazioni e le induzioni che in sei mesi ci sono passate sott'occhio risalta evidente: la teoria e la propaganda dell’antimilitarismo prima di questa guerra si svolgevano prevalentemente in vista dell’interesse e della necessità proletaria di impedire e deprecare con ogni mezzo la guerra e di contrastare le nefaste conseguenze del militarismo in tempo di pace (spese per i folli armamenti, repressione armata dei movimenti operai, influenze perniciose della vita militare sulla gioventù, ecc.) - ma era stato lasciato troppo nell’ombra il problema di quello che i socialisti avrebbero dovuto fare, non già per scongiurare la guerra, ma per difendere le conquiste del proletariato e salvare dalla rovina il socialismo, quando la guerra fosse già scoppiata.

L'errore di visuale consisteva nel pensare riformisticamente il problema dell’antimilitarismo (riduzione degli armamenti, nazione armata, arbitrato, ecc. ), mentre il compito del socialismo non è di risanare la società borghese, bensì di affrettarne la demolizione ab imis fundamentis, risalendo cioè ai cardini del suo organamento economico. L'antimilitarismo non è quindi fine a sé stesso, ma è una delle facce dell’azione anticapitalistica del socialismo. «Solo la socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio renderà impossibili i conflitti fra le nazioni», così il Manifesto dei Comunisti.

Si era invece pian piano diffuso il concetto che la guerra, anche in regime borghese, fosse impossibile. Lo scoppio della spaventevole conflagrazione attuale ha demolito questo erroneo convincimento - e in pari tempo ha suggellata la condanna marxista del capitalismo, la cui civiltà basata sullo sfruttamento del salariato, piega la sua parabola storica verso l'abisso della barbarie guerresca.

Il socialismo doveva essere pronto ad attendere da questa solenne conferma teorica qualche cosa di meglio che la sconnessione pratica dell’Internazionale. Ma il socialismo moderno deve ancora completarsi nel crogiuolo della storia, al fuoco dei suoi conflitti interni e dei suoi stessi errori per liberarsi da tutte le scorie che lo inquinano e lo imbarazzano....

L'antimilitarismo classico si era prospettata poco, troppo poco, la situazione in cui i socialisti e le classi lavoratrici si sarebbero trovati nelle poche ore in cui la guerra da una minaccia diviene una realtà.

I socialisti avevano l'esperienza di crisi parziali, per guerre limitate o coloniali, come la guerra anglo-boera, quella russo-giapponese, quella libica… ma il conflitto fra i più forti Stati del mondo, fra i paesi confinanti e preparati all’impiego dei metodi di offesa più spaventevoli, nel periodo angoscioso in cui i telegrammi cifrati che si scambiano i governi decidono della sorte di milioni di uomini, ha travolto in una crisi senza confronti tutte le opinioni, le tendenze, le previsioni, i propositi. È troppo noto ciò che è avvenuto. Oltre a non aver potuto scongiurare la guerra - ciò che assolutamente non costituiva il fallimento del socialismo - i socialisti hanno nei principali Stati, e salvo poche eccezioni, pienamente solidarizzato coi rispettivi governi portando a questi un contributo notevolissimo di energie morali e materiali, tra la gioia manifesta delle classi conservatrici.

Sconvoltisi tutti i valori e le concezioni preesistenti, una simile condotta è stata giustificata dai socialisti convertiti alla guerra non solo con la pregiudiziale del patriottismo che impediva loro di fare alcunché in danno del loro paese impegnato a fondo in una guerra micidiale - quale che fosse la colpa o la responsabilità del governo - ma più ancora sforzandosi di prospettare un dualismo tra le «missioni storiche» delle due parti in conflitto, che determinasse l'aperto parteggiare del socialismo per una delle due.

Un simile storpiamento dei fatti si è verificato parallelamente dall’uno e dall’altro lato delle incendiate frontiere, e non è il caso di ritornare sulla confutazione di questi sistemi di inesattezze, di menzogne e di pregiudizi, che purtroppo si sono sovrapposti alla reale visione del cataclisma, fuorviando le masse dal loro indirizzo di opposizione e di antagonismo ai ceti dirigenti.

È quasi indubitato che i diversi governi, a differenza della corrente opinione, contavano sull’adesione dei socialisti e che senza tale certezza sarebbero stati assai più cauti nella loro politica bellicosa. I socialisti tedeschi, austriaci, francesi, belgi, ecc., dal canto loro hanno ritenuto indiscutibile che l'abbandono della politica socialista d'intransigente opposizione alle istituzioni fosse danno trascurabile a petto del pericolo di indebolire la causa nazionale, una volta che la guerra era proclamata.

L'efficacia dell’antimilitarismo socialista si è fermata così sulle soglie spalancate del tempio di Giano.

* * *

La grande revisione socialista a cui andiamo incontro dovrà sanare questo fondamentale errore. Ai socialisti d'Italia conviene pure sforzarsi di anticipare qualche conclusione, dinanzi alla prospettiva di un intervento nella guerra dello Stato italiano. Alla illusione di alcuni che il socialismo si ritrarrà nell’ombra e nell’orbita della nazione, contrapponiamo la convinzione che il socialismo invece si volgerà a nuove e più strette forme di unione e di azione internazionale, nel mentre che l'accresciuta diffidenza verso la possibilità di un graduale miglioramento civile del regime attuale spingerà sempre più il proletariato verso la tattica e la tendenza rivoluzionaria. In tutti i paesi belligeranti si è già iniziato un profondo cambiamento nella opinione dei socialisti. Questi cominciano a riflettere che hanno troppo sacrificato sull’altare della patria e si delinea una tendenza alla pace e alla ricostruzione dei rapporti proletari internazionali.

In questo momento storico sarebbe deplorevole se il Partito socialista italiano, nel caso di una guerra, si lasciasse far prigioniero della situazione, si lasciasse legare le mani in una qualsiasi solidarietà colla borghesia, sacrificando la continuità logica del suo atteggiamento politico.

Il pacifismo borghese, movimento sterile e per nulla rivoluzionario, può arrestarsi dinanzi alla guerra inutilmente avversata, e ricordarsi solo della necessità di salvare la patria. Ma il socialismo, antimilitarista perché antiborghese, non deve desistere dalla propria azione dinanzi allo scoppio di una guerra, non deve lasciarsi vincolare da scrupoli patriottici. Altre forze, altri fattori sociali, altri partiti pensino alla salvezza della nazione, se a loro è noto il contenuto di quel termine alquanto astratto. Il Partito socialista non ha e non può avere altra missione che quella di salvare il socialismo, tanto più oggi che molti cominciano a pentirsi di averlo dimenticato. Il socialismo italiano, malgrado la triste guerra a coltello di vecchi e nuovi avversari, deve, e saprà - avvenga o non avvenga la guerra -, passare attraverso l'incendio e la rovina tenendo alta la bandiera, sicuro di trovare domani solidali col suo atteggiamento i lavoratori degli altri paesi ridesti dal sonno sanguinoso di distruzione e di strage.

 

 

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