DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

(Avanti!» del 24-1-1915)

 

Quest'articolo dell’«Avanti!» dal titolo La borghesia e il principio di nazionalità, è importante perché attesta la presa di posizione della sinistra socialista non più contro i socialisti passati all’appoggio aperto della guerra, e rappresentati in Italia dal transfuga Mussolini e da scarsissimi seguaci, ma contro una corrente costituente la destra del partito e che presto ne costituirà il famoso «centro», la quale, pur volendosi fare il merito di essere contraria alla guerra, arreca una grande confusione nelle direttive dell’azione socialista.

Si risponde infatti ad una riunione tenuta a Milano da un gruppo di socialisti che non erano né per l'intervento, né per la «neutralità assoluta». L'articolo nel suo contesto confuta la pretesa di questa corrente che il famoso «principio di nazionalità» debba essere accettata come un «presupposto» del socialismo.

Dopo la critica a questo metodo squisitamente revisionista dei presupposti, e la difesa contro l'accusa già allora immancabile di dogmatismo, che fin da allora abbiamo recato, e sempre recheremo, a nostro valore, l'articolo discute il punto della nazionalità, dimostrando che in tutti gli stati e i governi delle classi dominanti un tale principio non trova rispetto alcuno, dato che ogni movente bellico ha palesi basi economiche ed imperialistiche.

 

 

 

A Milano, la sera dell’8 gennaio, si è riunito un gruppo di compagni, tra cui alcuni onorevoli e consiglieri, i quali non sono né per la neutralità assoluta né per l'intervento.

Quegli ottimi compagni nostri, dopo qualche frecciata autorevole contro coloro che nel grido «abbasso la guerra!» compendierebbero tutta la trattazione dei complessi problemi dell’ora che volge, e negano persino la patria e il dovere della sua difesa, son passati a dichiararsi «convinti che il principio di nazionalità non può essere rinnegato, ma segna una tappa verso lo internazionalismo» e, postisi una mano sulla coscienza, si sono accorti «di non poter accettare un principio di neutralità assoluta che assuma i caratteri di quell’herveismo superato e rinnegato anche dai suoi massimi assertori».

Dopo ciò, con buona pace degli interventisti decisi, noi siamo tutt'altro che scossi.

L'accusa di dogmatismo è ormai diventata di moda. Incontriamo quasi ad ogni cantonata qualcuno che si diletta a definirci preti. Ed una larga esperienza ci indica ormai che quell’insulto ci viene scagliato ogni qualvolta il movimento socialista segue l'indirizzo buono, pestando senza esitare i calli a chi vorrebbe trarlo su altre vie. Ma la taccia di dogmatici inflitta ai propri avversari è tanto meno efficace in quanto la si può automaticamente ritorcere. Si può formulare un arbitrario assioma tanto dicendo: «i proletari non hanno patria», come proclamando che: «il socialismo vuole la pace tra gli stati, sulla base del mutuo rispetto delle integrità e autonomie nazionali, presupposto necessario del principio internazionalista e della sua piena attuazione» (ordine del giorno dei socialisti reggiani riportato da G. Zibordi sull’«Avanti!» del 1° gennaio). È questione di vedere di quali argomenti e di quali motivazioni, basate su dati di fatto, dispongano i fautori dell’una e dell’altra tesi. E le cose restano al punto di prima.

Se molti trovano sorpassato e formale il vecchio detto dei comunisti, nessuno negherà a noi il diritto di opinare che la famosa teoria delle libertà nazionali «presupposto necessario», ecc., messa lì così senz'altro, costituisce il più legnoso degli schemi mentali.

È infatti a furia di presupposti che si distrugge il socialismo. La spina dorsale del riformismo è questa teorica delle condizioni. Il socialismo sarà, ma prima occorre… e qui potremmo elencare tutte le forme degenerative dell’azione proletaria: partecipazione al potere, blocchi, cooperativismo esagerato, eccessivo educazionismo, adesione all’imperialismo capitalista o all’irredentismo romantico... tutto, ben s'intende, per preparare le condizioni necessarie allo sviluppo della lotta di classe, alla quale penseranno i pronipoti dei nostri nipoti. Ed in ultima analisi, il borghese più filisteo può dirsi socialista, se gli mandate buono qualche acconcio presupposto: ad esempio (e sono comunissime obiezioni) l'istruzione popolare perfetta, o magari la trasformazione morale della natura umana. È evidente che tutte queste condizioni ci portano in un campo perfettamente antitetico a quello del pensiero e della azione socialista.

E credono quei compagni che - senza irriverenti allusioni - sono sospesi tra la neutralità e l'intervento, di aver tagliata la testa al toro dicendo che la neutralità assoluta ha un carattere herveistico, e siccome l'herveismo é stato rinnegato dal suo… inventore, così può condannarsi senz'altro l'opinione dei neutralisti estremi? Questi sono mezzi dialettici altro che da preti!

Anzitutto nessuno - credo - di quei compagni che sono contrari anche alla cosiddetta guerra di difesa si è definito herveista.

Hervé era, più che altro, un volgarizzatore ed un propagandista efficacissimo. È rimasto il suo nome ad un metodo di azione antimilitarista, non ad una dottrina. Ben altre basi ha l'antimilitarismo socialista che non un brevetto del professore parigino! Ma ad ogni modo é serio invocare come argomento decisivo il voltafaccia indecente e non recente di costui?

Si annienta forse il sindacalismo, come teoria, col solo ricordare l'evoluzione del pensiero di Sorel? I gesuiti adoperano come argomento spiritualistico la pretesa conversione di Voltaire in punto di morte. La bottega del neo-idealismo cattolico nazionalista italiano ci squaderna ad ogni istante l'elenco dei nostri rinnegati. Adagio, dunque, che siamo noi a copiare i sistemi e l'abito mentale dei preti!

Il Socialismo è la massima delle moderne eresie. Esso non deve perciò temere di rovesciare dai suoi altari nessuna deità. L'affermazione sentimentale che non si può rinnegare il sentimento di nazionalità, non può e non deve quindi trattenerci dal portare la nostra critica anche sulle ideologie che si basano sul concetto di nazione.

Le nazionalità sono dei fatti, in quanto esistono innegabili differenze di razza, di costumi, di tradizioni storiche e culturali nelle diverse regioni della terra. La divisione però del mondo abitato in raggruppamenti nazionali non è che un'astrazione, ed è impossibile, anche limitatamente a piccole zone, concepirla in maniera incontroversa. Vi concorrono troppi coefficienti geografici, etnici, storici, molte volte in aperto contrasto tra loro. Esistono invece in realtà le divisioni e le frontiere dei vari stati, che hanno carattere più o meno nazionale, e possono risultare dallo smembramento di una o dall’aggruppamento di molte nazionalità, magari intrecciate in modo indissolubile.

La formulazione del concetto che ogni nazionalità deve costituire uno Stato a sé senza ingerenze straniere, pur sembrando accettabile nel senso etico a chiunque si ispiri a concetti astratti di giustizia e libertà, ha un valore puramente metafisico, qualora si prescinda dalla possibilità della sua realizzazione, messa in rapporto allo svolgimento storico dei rapporti fra gli Stati e anche - poiché se ne discute dal punto di vista socialistico dei contrasti fra le varie classi sociali.

Esaminando l'evoluzione storica del concetto di nazionalità, si può concludere che la sua universale realizzazione è un'utopia dalla quale sempre più andiamo allontanandoci; e perciò il frapporre tale postulato alla effettuazione del socialismo e, peggio ancora, all’impostarsi dell’azione di classe del proletariato, costituisce una condanna del socialismo all’inesistenza e del proletariato all’impotenza.

Nella storia moderna l'affermazione del principio di nazionalità coincide con le rivoluzioni democratiche che introdussero la sovranità popolare e col sostituirsi del terzo stato alle aristocrazie feudali. La nuova economia borghese aveva bisogno di un regime di relativa libertà politica, e tendeva a costituire gli Stati parlamentari per spianare la via al dominio del capitalismo. Per abbattere l'antico regime, la borghesia doveva procurarsi l'appoggio delle grandi masse ed accettava le ideologie umanitarie che furono base della rivoluzione. Il concetto di nazionalità fu in questo processo più un mezzo che un fine, servì a trascinare il popolo meglio che a redimerlo.

Raggiunte le forme politiche statali, necessarie all’economia capitalistica, la nuova classe dirigente si disinteressa affatto di proseguire verso la realizzazione di quegli idealismi che costituirono il suo programma dei primi tempi eroici.

La prima grande affermazione del principio di nazionalità è contenuta nella dichiarazione dei diritti dei coloni inglesi degli Stati Uniti, all’epoca della guerra d'indipendenza. In quel caso non trattavasi di una vera guerra nazionale, poiché gli americani erano inglesi di origine ed avevano distrutta la razza indigena dei pellirosse, e fu proprio una vertenza di indole economico-commerciale con la madre patria che spinse nelle colonie il giovane e vigoroso capitalismo a crearsi un proprio Stato indipendente.

 Nella vecchia Europa le guerre e le rivoluzioni unitarie, dalle quali la borghesia attinse le energie per il suo sviluppo, ebbero in realtà caratteri nazionali. Ma gli Stati che ne ebbero origine, come gli altri già costituiti, nei loro metodi di governo e nella loro politica successiva mostrarono e mostrano che la concezione dei diritti nazionali dei popoli non era stata per loro un programma, ma semplicemente la maschera di interessi dinastici e di classe.

Sarebbe troppo lungo, ed è superfluo, l'esame dettagliato di tutta quanta l'opera degli Stati moderni nelle loro mutue rivalità e nelle imprese coloniali, ed è facile concludere che le borghesie dominanti sono guidate, nella loro politica estera, solo dal famoso «sacro egoismo» nazionale, anzi statale, che non trova limite altro che nel cozzo potenziale o effettivo con altri egoismi meglio premuniti d'armi. Unica legge è in tali rapporti la forza e non esiste un'etica degli Stati, come non esiste un diritto internazionale che valga a risolvere le vertenze fra gli Stati maggiori.

La borghesia - a parte alcune minoranze di romantici o di demagoghi - ha conseguentemente abbandonato la illusoria dottrina democratica delle nazionalità liberamente coesistenti, per volgersi alle tendenze ed alla politica dei vari nazionalismi, culminanti nelle aspirazioni imperialistiche e nei sogni delle egemonie, scopi che non possono raggiungersi se non schiacciando con la violenza le analoghe tendenze di Stati rivali.

Così vediamo la borghesia italiana conciliare le tradizioni delle guerre di indipendenza col brigantaggio libico ed egeico, e quella germanica, sorta dalla guerra di liberazione contro la dinastia degli Absburgo, allearsi a questa nella guerra contro la Serbia, ed esaltare l'annientamento dell’indipendenza belga come cosa giusta e logica.

Non occorre molto per dimostrare che nella storia contemporanea e nei tragici avvenimenti d'oggi è il fatto Stato che prevale sul fatto Nazione.

E noi socialisti vediamo nell’organismo statale non l'esponente della collettività dei cittadini, ma l'istituto conservativo dei privilegi delle minoranze capitalistiche.

Vi è posto nel cozzo di questi egoismi borghesi e statali per la difesa o l’affermazione di principi di natura universale come la democrazia o la nazionalità? Noi lo neghiamo. Uno Stato che subordinasse le sorti della sua espansione economica e le risorse della sua azione militare a sentimentalismi o scrupoli del genere, non farebbe che prepararsi la sconfitta e cedere il posto agli altri Stati più agguerriti.

D'altra parte, l'esame dei fatti mostra all’evidenza che quei governi i quali, mentre lottano contro i nemici e magari vanno insidiando negli alleati i nemici dell’indomani, si fanno banditori di certi idealismi, li mettono contemporaneamente sotto i piedi con la più grande disinvoltura quando ciò loro convenga. Gli antagonismi e gli avvicinamenti tra i grandi stati non si determinano in base ai caratteri storici o sociali delle loro popolazioni o delle loro istituzioni, ma si cambiano e si invertono a seconda dell’aumentare o del diminuire della potenza militare di ciascuno.

Una fugacissima occhiata alle ultime guerre mette in rilievo questa verità. Quanta retorica non si è spesa sulla famosa Quadruplice balcanica contro la Turchia? Si levò allora alle stelle la concordia dei popoli che anelavano alla libertà, e non si videro i veri moventi della guerra nelle ambizioni degli stati e delle dinastie balcaniche.

Venne però la seconda guerra, quando i vincitori vollero dividersi il bottino, e crollò così l'impalcatura dello scenario convenzionale su cui si era fatto trionfare, riesumando le scolorite profezie mazziniane, il famoso principio di nazionalità, che avrebbe dovuto additare ai redenti la pacifica soluzione della contesa. Dieci anni circa or sono, l'Europa stette sotto la minaccia della conflagrazione tanto deprecata a causa della irriducibile rivalità anglo-russa per l'egemonia asiatica… Scongiurato lo scoppio del conflitto, venne la guerra russo-giapponese, da cui uscì fiaccato il colosso moscovita. L'Inghilterra si volse così contro un'altra rivale, e si preparò d'ogni parte e di lunga mano l'urto attuale, a cui il Giappone partecipa alleato con la nemica di ieri… Ma domani altre rivalità ed altri sogni di egemonie politiche e commerciali si determineranno, nel continuo spostarsi dei centri di attrazione e di repulsione della dinamica degli stati. Quali influenze esercitano, sull’azione e sulle direttive degli stati borghesi, le nazionalità? Che cosa autorizza a definire la presente «guerra delle nazioni»?

Nel momento storico che attraversiamo si comportano in modo analogo la Germania e l'Austria, due Stati la cui struttura nazionale è enormemente diversa. La maggioranza delle classi dominanti in tutti i paesi in lotta aspira ad una soluzione imperialistica della guerra, a base di annessioni e smembramenti dei paesi debellati. Chi resta a guardia del famoso principio di nazionalità? Lo Stato moscovita che massacra gli ebrei, opprime i finlandesi, prepara il tradimento ai polacchi? La borghesia inglese che reprime la rivolta boera, e pensa di ingrandire il suo impero coloniale mentre la guerra insanguina il continente? La Francia borghese che riprendendo l'Alsazia-Lorena si ripromette di staccare un'altra fetta di territorio germanico? Gli Alleati che, diffidando gli unì degli altri, firmano in Londra il patto famoso di non trattare la pace che di comune accordo?

Il principio delle autonomie nazionali - che per alcuni casi classici dà indubbiamente luogo a problemi di reale attualità e causa malessere che attarda l'attività di classe del proletariato - non può dunque attendere la sua attuazione dalla borghesia dominante e dagli Stati costituiti.

Inteso in modo troppo universale, esso manca di soluzioni anche teoricamente indiscutibili. Condotto nel campo della sua realizzazione esso importa delle rettifiche di frontiera che nessuno Stato accetterà pacificamente.

Il conseguimento quindi delle indipendenze nazionali non potrebbe aversi senza guerre. Ma queste, risolvendosi nella prevalenza del più forte, non possono che creare nuovi irredentismi più cocenti dei precedenti, quando anche pervengano a sopprimerli.

E, dato che nessuno dei moderni Stati borghesi, che hanno nelle proprie mani la forza degli eserciti e delle flotte, vuole e può sposare la causa delle nazionalità irredente, quale deve essere di fronte ad un tale problema l'atteggiamento del proletariato socialista?

È quanto esamineremo in un prossimo articolo.

 

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