DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Dopo le grandi mobilitazioni per il pane e le lotte nelle fabbriche tessili (2011), tutti episodi squisitamente classisti che hanno messo in moto l’intero proletariato egiziano; dopo la defenestrazione del presidente Mubarak (processato e poi salvato); dopo l’elezione di Morsi e il suo successivo arresto, con repressione dei Fratelli mussulmani e passaggio di potere all’ex-generale al Sisi; dopo tutto ciò, la dittatura in Egitto si è fatta sempre più feroce: gli oppositori sono torturati, uccisi, fatti scomparire o buttati in un fosso dagli “squadroni della morte”.

Nelle oceaniche manifestazioni delle classi medie tenute a fine giugno 2013, le forze proletarie sono rimaste intrappolate nel “fronte della democrazia”, alleanza di masse conservatrici e riformiste. Quel “fronte” ha accolto con grande entusiasmo il golpe dell'esercito, autentico colpo di Stato della borghesia, acclamando il comando di al Sisi sulla società e permettendogli prima di liquidare con arresti e uccisioni la direzione politica dei Fratelli Mussulmani e poi di imporre il pugno di ferro sulle masse proletarie e sulle loro organizzazioni di lotta. Da questa serie di avvenimenti, il proletariato deve trarre le tragiche lezioni della sua storia, uscendo dalla trappola del “mito delle primavere arabe”, ormai orgoglio della piccola borghesia: deve cioè riprendere la lotta di difesa economica a oltranza, allontanando da sé le sirene riformiste e democratiche.

Negli ultimi due anni, l’attenzione della borghesia egiziana si è indirizzata principalmente contro i proletari e gli attivisti dei sindacati indipendenti: negli ultimi mesi, più di 350 persone sono scomparse. Ma il moto di classe sembra ancora vivo: spinti da condizioni materiali insopportabili, i lavoratori stanno tentando di organizzarsi e unirsi, accettando a viso aperto i sacrifici che la lotta comporta. La vicenda del giovane ricercatore italiano sequestrato, torturato e ucciso, è solo una storia finita nel tritacarne della dittatura: le brevi corrispondenze che ha inviato e che sono state pubblicate hanno rotto il muro di silenzio, fornendo uno spaccato reale dell’Egitto e dello scontro attuale tra le classi, un muro innalzato da tutta la stampa internazionale e dai grandi protettori USA (e non solo), che vedono nell’Egitto il fattore equilibrante dei grandi interessi imperialisti nelle guerre in atto dal Nordafrica al Medioriente. Un muro di silenzio da cui, in questi anni, le opposizioni sindacali indipendenti, memori delle lotte passate, han cercato di uscire, venendo allo scoperto contro le organizzazioni sindacali di Stato (che hanno pesato e continuano a pesare nelle lotte di difesa economica, soffocandole con il sostegno delle “forze dell’ordine”). La repressione, la tortura e la morte dei proletari egiziani dunque continua.

Rimangono comunque importanti le notizie riferite dal giovane ricercatore riguardo all’assemblea organizzata all’inizio di dicembre 2015 al Centro Servizi per i Lavoratori e i Sindacati, “che ha visto convenire attivisti ed attiviste sindacali da tutto l’Egitto”, in una situazione generale che si prefigura come estremamente pericolosa e nella quale il governo cerca di utilizzare il sindacato di Stato come testa d’ariete contro i sindacati indipendenti, per marginalizzarli. Sappiamo ancora troppo poco della rilevanza organizzativa, numerica e di classe delle varie sigle sindacali di opposizione (trasporti, scuola, agricoltura, ecc.), espressioni sicuramente reali del movimento operaio: la congiura internazionale del silenzio sulle lotte dei proletari ha il compito di isolare e annullare ogni possibile solidarietà attiva, ogni azione di disfattismo di classe. Nella realtà egiziana, dopo più di due anni, lo scontento e la rabbia tra i lavoratori tentano di farsi strada, ma non riescono ancora a darsi una reale forma organizzativa. L’assemblea di cui si parla nella corrispondenza citata sopra si sarebbe per esempio conclusa “con la decisione di formare un comitato il più possibile rappresentativo, che si incarichi di gettare le basi per una campagna nazionale sui temi del lavoro e delle libertà sindacali”. E tuttavia, a causa del cordone di silenzio che lo circonda, non tutto è chiaro in questo movimento spontaneo di autorganizzazione.

Durante e dopo la “rivoluzione” del 2011, lo spazio di agibilità politica dei lavoratori e delle classi medie si era allargato. Si assistette allora alla nascita di centinaia di nuovi organismi non solo sindacali, ma d’ogni genere, un vero e proprio movimento. Negli ultimi due anni, invece, dopo il colpo di Stato, la repressione da parte del regime ha profondamente indebolito le iniziative proletarie. Ogni sindacato si è rinchiuso in un ambito locale e settoriale. La necessità di unirsi e coordinarsi è testimoniata dalla grande partecipazione alle riunioni e alle assemblee: ma in esse è stata anche additata da molti lavoratori la grossa frammentazione del movimento e perciò invocata la necessità di lavorare in modo unitario, coordinandosi al di là delle correnti di appartenenza. A quanto pare, gli interventi in assemblea sarebbero stati concordi nella proposta di un appello per un piano d’azione a breve e medio termine. L’idea di base era di “organizzare una serie di conferenze regionali che portino nel giro di pochi mesi ad una grande manifestazione unitaria di protesta”. L’idea, avanzata da qualcuno, di prendere la piazza (“a Tahrir!”), che da più di due anni è vietata a qualsiasi forma di protesta, è una pericolosa suggestione. Il rifiuto dello sciopero, la pubblica dichiarazione di un codice di condotta, l’impegno al dialogo tra Stato, imprenditori e sindacato, la disponibilità a mettersi nelle mani delle “forze dell’ordine” sono chiari segni che la possibilità di un’azione generale, pubblica e indipendente, è un’illusione. Occorre aggiungere che fino al 2008 esisteva un solo sindacato ufficiale: l’Etuf (Federazione egiziana dei sindacati), completamente allineato con lo Stato. La successiva Federazione egiziana dei sindacati indipendenti (Efitu, la prima nella storia del paese) è già stata protagonista di lunghe stagioni di scioperi e mobilitazioni. Ma dal 28 aprile 2015, segno dei tempi, con una sentenza dell’Alta corte amministrativa, lo sciopero è diventato illegale in Egitto e costringe al pensionamento forzato i lavoratori eventualmente condannati per questo “reato”.

L’insieme delle proposte pratiche venute dall’assemblea, mentre dagli interventi era segnalata la dispersione e l’isolamento delle forze proletarie nello scontro in atto fra sindacati di regime e sindacati indipendenti, ci induce a pensare che l’assemblea non fosse poi quella mobilitazione proletaria di cui ha bisogno il movimento di classe, ma piuttosto l’espressione dell’ideologia delle mezze classi che hanno appoggiato il generale, e sicuramente di equivoci elementi infiltrati. La lotta comunque non sembra proprio avviata alla crescita: a fine febbraio 2016, in diverse regioni del paese, i lavoratori nei settori del tessile, del cemento, delle costruzioni, sono entrati in sciopero a oltranza, per lo più con rivendicazioni relative all’estensione di diritti salariali e alle indennità riservate alle società pubbliche – scioperi quindi per lo più scollegati tra di loro, e in gran parte slegati dal mondo del sindacalismo indipendente.

Questi tentativi di coordinamento sindacali, comunque, non sono nuovi: durante le grandi manifestazioni di Piazza Tahrir, erano anzi molto frequenti. Mischiando necessità di sopravvivenza e illusioni di allargamento dei diritti, rivendicazioni economiche e politiche, e sfidando i gruppi armati che bloccavano le vie di fuga della piazza, coloro che vi hanno partecipato hanno semplicemente ignorato che il “movimento” era un intreccio di tendenze politiche e sociali, che via via si sono srotolate. Solo la preparazione rivoluzionaria del proletariato può interrompere il ciclo della repressione: se non sono sorrette dalla forza del proletariato, le rivolte popolari, gli slogan e le iniziative, le sfide libertarie sono destinate, non solo al fallimento, ma soprattutto a rientrare nei ranghi imposti dalla dittatura.

Nei numerosi articoli che abbiamo dedicato in tutti questi anni alla situazione egiziana 1, abbiamo sostenuto che le cosiddette “primavere arabe” sono la connotazione che la piccola borghesia ha dato a questi moti, snaturandoli e consegnandoli così snaturati all’apprezzamento e all’esaltazione delle capitali imperialiste: nulla a che vedere con le reali lotte di fabbrica e con le rivolte per il pane, cui hanno partecipato soprattutto i proletari e che sono nate sul terreno oggettivo della necessità di difesa economica (nel frattempo, altri episodi di lotta di classe avevano confermato questa spinta reale, in Tunisia e in Turchia). In paesi come l’Egitto, con una lunga tradizione di lotte operaie, era già da tempo in corso (e lo abbiamo documentato) un processo di creazione di sindacati indipendenti, rispondenti alla necessità di rappresentare veramente gli interessi reali dei lavoratori. La nascita e la diffusione di queste organizzazioni indipendenti ci hanno confermato quanto il proletariato senta la necessità di darsi organizzazioni economiche di difesa. D’altro canto, la loro estrema frammentazione è un segno della difficoltà di agire uniti e organizzati, una difficoltà d’ordine generale.

Del tentativo della classe di darsi vere organizzazioni di difesa ci vengono testimonianze importanti. I sindacati indipendenti sono stati tra i combattenti più attivi nelle battaglie contro il regime militare di Mubarak, il che ci conferma la natura non ideologica del movimento; al contrario, il movimento piccolo-borghese, con la sua ideologia riformista, idealista e anarcoide, ha dato un colpo di freno alla mobilitazione proletaria. Che la lotta di difesa economica abbia un’importanza sostanziale per la preparazione rivoluzionaria è dimostrato (in negativo) dal fatto che molti lavoratori hanno paura delle conseguenze economiche per chi lascia la federazione ufficiale (Etuf): il rischio è quello di perdere le quote versate per anni nelle casse del sindacato, e con esse di dover rinunciare a una buonuscita che può arrivare anche a 100mila ghinee (quasi 12mila euro). Questione di scarsa importanza per i non proletari: non per nulla la borghesia e la piccola borghesia egiziane cercano di canalizzare le lotte del proletariato dentro la cornice della rivendicazione dei diritti democratici.

Ma il limite democratico piccolo-borghese non può essere neutralizzato e scavalcato senza la presenza e la guida del partito di classe. La repressione, istintivamente e per memoria storica, si abbatte sul movimento proletario, che la borghesia non ha nessuno scrupolo e nessuna pietà nell’attaccare. Nonostante tutto, la classe non può non lottare per il salario e per difendere le condizioni di vita e di lavoro. Gli scioperi, nonostante tutti i tentativi del governo e dei sindacati ufficiali, e la violenza volta a tenere i proletari alla catena e in silenzio, troveranno la loro strada.

Solo attraverso esperienze che partono dal terreno della difesa a oltranza degli interessi immediati, di sopravvivenza, esperienze combattive e tendenti a unità e organizzazione, sarà possibile introdurre nelle lotte economiche il programma comunista, con le sue finalità ultime: la distruzione della galera borghese, la liberazione definitiva dalla schiavitù salariale, con i suoi orrori e le sue crudeltà.

 

1 “Egitto: dopo un anno di lotte, i lavoratori tessili hanno vinto” (Il programma comunista, n.5/2007);Egitto: continua la lotta dei tessili di Mahalla” (Il programma comunista, n.6/2007); “Accade in Egitto: uno spettro s'aggira per il mondo!” (Il programma comunista, n.4/2008); “La crisi si abbatte sulla sponda sud del Mediterraneo” (Il programma comunista, n.2/2011); “Algeria, Tunisia, Egitto, Libia... sempre più instabile il modo di produzione capitalistico” (idem); “Nord Africa: Alle radici delle rivolte del 2011” (Il programma comunista, n.1/2012); “L'Egitto negli artigli della ‘democrazia sostanziale’” (Il programma comunista, n.5/2013); “Egitto: Le forze produttive, la lotta di classe e la funzione di disarmo delle mezze classi” (idem).

 

Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista)

 

 

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