DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

In altra pagina di questo giornale, diamo conto dell'intervento francese in Mali sviluppatosi a partire dalla metà di gennaio: esso dimostra che – come rilevavamo nell'editoriale del numero scorso – sotto la pressione della crisi mondiale si moltiplicano le “aree critiche”, e che l'Africa è una di queste. Intanto, però, giungono notizie, da un capo all'altro del Continente africano, dell'indomita combattività di un proletariato deciso a vender cara la propria pelle.

In Tunisia, che da parecchi anni conosce un'acuta effervescenza sociale (di qui partirono i moti proletari del 2011 che, prima di essere incanalati nei vicoli ciechi di rivendicazioni democratiche e piccolo-borghesi, investirono via via gli altri paesi della sponda sud del Mediterraneo), da alcuni mesi la classe operaia è tornata a scendere in lotta, a dimostrazione che non c'è “cambio di regime” che possa “liberare” il proletariato dall'oppressione di classe. Disoccupazione, emarginazione e costo della vita crescono di giorno in giorno in maniera impressionante (soprattutto nel centro-sud, dove il tasso di disoccupazione è fra il 25,3 e il 26,1%; a Tunisi, è del 19%), i quartieri proletari affondano nel degrado e nell'abbandono, le tensioni si moltiplicano e una tradizione ormai pluridecennale di organizzazione e conflitto resta viva e riconoscibile. Nel novembre scorso, a Siliana, cittadina di 25mila a 130 km a sud di Tunisi, ci sono stati violenti scontri con le forze dell'ordine nel corso di uno sciopero generale, con più di trecento feriti fra i manifestanti, seguiti da scontri altrettanto violenti con le formazioni paramilitari delle “Leghe di difesa della rivoluzione”. A Gafsa, la produzione di fosfati, importante risorsa dell'economia tunisina, è praticamente bloccata da scioperi e sit-in; a Sidi Bouzid, dove scoccò la scintilla della rivolta due anni fa, è un susseguirsi di scioperi e proteste. Gli apparati repressivi, passati in toto dal vecchio al nuovo regime (e se mai ancor più affinati, come si conviene a un... regime democratico), si sono scatenati contro operai e militanti sindacali, con tutto il corredo di torture e omicidi, stupri e “scomparse in carcere”. A essi dà poi man forte la “repressione ideologica” operata dalle forze islamiche che – come abbiamo più volte ricordato – svolgono la medesima funzione controrivoluzionaria (in salsa religiosa) della classica socialdemocrazia. Verso la fine di gennaio, poi, a Qairouan, una grossa manifestazione di disoccupati si è trasformata in una notte di guerriglia urbana, repressa con violenza dalle forze dell'ordine, che hanno fatto parecchi feriti e centinaia di arresti.

 

Se ci spostiamo all'altro capo del Continente, in Sud Africa, ecco che il panorama non cambia. Anzi. Se già il massacro dei minatori di Marikana (che abbiamo ampiamente commentato sul n. 5/2012 di questo giornale) giungeva dopo un lungo periodo di agitazione, di scontri duri all'interno di sindacati di regime e nei confronti di un governo che, sotto la facciata democratica e “arcobaleno”, continuava l'opera repressiva dell'epoca della segregazione razziale, da allora non sono mancate le dimostrazioni di una continua volontà di lotta da parte dei minatori (punta di diamante del proletariato sud-africano: non dimentichiamo che il settore minerario occupa direttamente 500mila operai e altrettanti indirettamente) e di altri segmenti della classe operaia, ma anche di settori impoveriti della popolazione. La crisi economica falcidia anche qui, anche in questo che è l'imperialismo più forte del Continente. A metà gennaio 2013, buona parte dei 58mila minatori degli impianti di di Khomanani, Thembelani e Tumela, di proprietà dell'Anglo-American Platinum (Amplats), filiale che possiede l'80% del conglomerato minerario britannico Anglo-American e che estrae il 40% della produzione mondiale di platino, è scesa in sciopero di fronte alla minaccia di licenziamento per 14mila di loro, parte di un ampio piano di ristrutturazione in tutto il comparto del platino, di cui il Sud Africa è il produttore mondiale numero uno. Le condizioni di lavoro nei campi minerari sono tremende: si deve scavare sempre più in profondità, in cunicoli molto stretti e mal ventilati, e le spese per manutenzione e modernizzazione, specie in un periodo di crisi, sono “spese improduttive”, zavorra di cui disfarsi... Il settore delle miniere di platino, che rifornisce l'industria automobilistica (e non solo i gioielli!), risente della crisi mondiale dell'automobile e dei progressivi aumenti dei costi per l'energia elettrica. Lo slogan padronale potrà dunque solo essere “maggiore produttività e minori costi, per una maggiore competitività sul mercato mondiale” = espulsione di migliaia di lavoratori. Qui come altrove. Altre ristrutturazioni incombono in altre industrie e settori minerari, a fronte di una disoccupazione che tocca già un quarto della popolazione sud-africana.

Sempre a metà gennaio, i braccianti dei vigneti (già, il vino sud-africano!) e dei campi di frutta e verdura della regione del Capo occidentale (60% delle esportazioni agricole del paese, 200mila lavoratori), da mesi in lotta per aumenti salariali del 100%, si sono scontrati con polizia e sbirri privati intorno alla città di De Doors: si tratta di lavoratori stagionali, che percepiscono un salario minimo giornaliero di 69 rand (=6 euro) – definito “salario da fame” dallo stesso istituzionale Bureau for Food and Agricultural Policy (l'industria vinicola sud-africana vanta profitti annuali che si aggirano intorno ai 26 miliardi di rand). L'agitazione è in corso da novembre, quando i braccianti hanno rifiutato di accettare le proposte avanzate dalla centrale sindacale di regime COSATU per giungere alla composizione del conflitto e sta mettendo in serio pericolo vendemmia e raccolto. La polizia sudafricana è intervenuta più volte in assetto antisommossa, sparando proiettili di gomma e lacrimogeni e facendo qualcosa come 150 arresti, mentre la principale autostrada che collega la regione del Capo a Johannesburg e molte altre strade sono rimaste chiuse per quasi una settimana, bloccate da autentiche barricate erette per impedire l'arrivo di crumiri e gli spostamenti della polizia. Salutiamo dunque con gioia i proletari sud-africani, che continuano oggi una tradizione classista risalente fin agli inizi del '900 e troppo spesso tradita e deviata nelle secche di problematiche razziali e nazionali. Un manifesto diffuso a Johannesburg nel settembre 1917 dagli Industrial Workers of Africa dichiarava: “Unitevi in quanto lavoratori. Unitevi! Dimenticatevi delle cose che vi dividono. Che non si parli più di Basuto, Zulu, o Shangaan. Siete tutti lavoratori e il lavoro è il vostro comune legame”.

Dalla Tunisia al Sud Africa e viceversa, risuoni il medesimo grido!

 

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