DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

I disastri nel Golfo del Messico

 

Se torniamo sugli eventi disastrosi dell’uragano Katrina (2005) e della recente “marea nera” nel Golfo del Messico (oltre che dell’ultimissimo incidente di inizi settembre: l’incendio di un’altra piattaforma petrolifera) non è per amore di anniversari o per inseguire l’attualità nello stile del giornalismo borghese. E’ perché quei due eventi confermano una volta di più, in maniera limpida oltre che drammatica, la condanna storica del modo di produzione capitalistico, da tempo dimostrata e proclamata dall’analisi marxista.

Ricordiamo dunque brevemente come, a fine agosto 2005, uno dei tanti uragani tipici dell’area del Golfo del Messico colpisse con violenza i dintorni di New Orleans, rovesciando sulla città una tremenda massa d’acqua e gonfiando a dismisura sia il fiume Mississippi e il Lago Pontchartrain sia le decine di specchi e corsi d’acqua minori che caratterizzano questa zona di terre basse. Il Quartiere Francese (il cuore storico di New Orleans, perno di un enorme business turistico) fu risparmiato, mentre il Lower Ninth Ward e altre aree abitate dalla popolazione più povera, per lo più (ma non solo) di origine afroamericana, furono semidistrutti. L’evacuazione della città avvenne nel ritardo e nel caos più totali, migliaia di poveracci restarono ammassati per alcuni giorni nel grande stadio cittadino in condizioni disastrose, esercito e polizia presero possesso delle strade arrestando e uccidendo “saccheggiatori” colpevoli di aver preso ciò di cui avevano bisogno. I morti accertati furono circa duemila, i senzatetto parecchie decine di migliaia, e ancor oggi sono molti quelli che mancano all’appello, mentre altre decine di migliaia di persone sono sparse in giro per il Paese, in situazioni di assoluta precarietà e nell’impossibilità di far ritorno a una casa o a un lavoro.

Quanto alla “marea nera”, l’evento è troppo recente (e a esso abbiamo dedicato un lungo articolo nel numero scorso di questo giornale) per tornarci sopra in maniera dettagliata. Basti ricordare che l’emergenza è ben lontana dall’essere superata, che una vera soluzione non s’è ancora trovata (ma ormai i media si sono pressoché dimenticati della cosa) e che, a detta ormai di molti osservatori ed “esperti”, gli interventi parziali messi in campo (gli agenti chimici in grado di “mangiare” il petrolio fuoriuscito, l’incendio della patina di bitume depositatasi sulle acque) potrebbero risultare, sul lungo periodo, ancor più disastrosi per esseri umani, fauna e flora, e più in generale per il fragile equilibrio dell’ecosistema.

Ora, però, proviamo ad andare al di là dell’attualità passata e presente.

La città di New Orleans venne fondata dai francesi nel 1718, su quella che era sostanzialmente l’ultima grande ansa del fiume Mississippi prima del suo sbocco, un centinaio di chilometri più a valle, nel Golfo del Messico – in un punto, dunque, in cui le acque del fiume rallentavano considerevolmente, abbastanza lontano dagli acquitrini e dalle paludi del tratto terminale. Ai francesi, impegnati nella colonizzazione dell’importante valle del Mississippi, interessava istituire alcune teste di ponte per il commercio delle pelli e altre materie prime e New Orleans (insieme, più a monte, con St. Louis) ne era la principale e più importante, quasi alla foce del fiume e quasi sul mare aperto.

La posizione della città era però delle più infelici (in una conca, circondata da ogni parte da masse imponenti d’acque): epidemie e inondazioni non si fecero attendere. Ma la città, ormai costruita e presto prosperante come porto mercantile, restò al suo posto.

Negli sviluppi successivi, mentre al modo di produzione tardo-feudale francese (e, per alcuni anni, spagnolo) si sostituiva, a partire dal 1803, quello capitalistico americano, le gravi contraddizioni di quest’ultimo divennero subito evidenti. Da un lato, l’esplorazione e la colonizzazione vollero dire la nascita di un’agricoltura destinata a passare dai piccoli appezzamenti alle grandi estensioni dell’agricoltura schiavista prima e grande-capitalistica poi; dall’altro, la rapida industrializzazione fece del fiume una grande via d’acqua mercantile e le città sulle sue rive i suoi nodi nevralgici – prima fra tutte, per l’appunto, New Orleans. Il Mississippi andava assoggettato a questo uso, conforme in tutto e per tutto ai dettami delle leggi del capitale.

Così, mentre nel suo “assetto naturale” il fiume esondava stagionalmente riversando sulle terre intorno un limo fertile, queste esondazioni – non più accettabili nella logica dell’agricoltura capitalistica – vennero impedite con la creazione di argini alti e robusti (mentre la fertilità della terra veniva stimolata sempre più con il ricorso a sostanze chimiche). Le conseguenze non si fecero attendere: le terre intorno, non più sedimentate dalle esondazioni e spazzate da venti e piogge, si abbassarono considerevolmente (oggi, la Lousiana continua ad abbassarsi sotto il livello dell’Oceano; la sua parte meridionale, tutt’intorno a New Orleans, è per il 2 % terra ferma, per il 18% marcite, per l’80% acqua); l’avvelenamento del fiume procedette in maniera geometrica (oggi, l’intero tratto che, per alcune decine di chilometri, porta a New Orleans è chiamato Toxic Alley, “Vicolo tossico”, per l’alta incidenza di avvelenamenti, tumori e altre malattie da inquinamento delle acque); il disboscamento lungo le coste per far posto a canalizzazioni, strade e industrie legate all’estrazione del petrolio e alle necessità del porto mercantile fa sì che le coste stesse vengano sempre più erose dagli agenti atmosferici e non esistano più barriere naturali contro l’impeto di marosi e uragani.

Non solo: la creazione di argini, imbrigliando il fiume e impedendone le naturali esondazioni, fa sì che, nel suo letto, una massa d’acqua formidabile viaggi con velocità sempre maggiore verso il mare: da un lato, scagliando troppo lontano i sedimenti trasportati (direttamente nell’abisso del Golfo e non più lungo la costa, a irrobustirla rinnovandone le parti erose) e, dall’altro, mangiando letteralmente le anse, tagliandosi percorsi più diritti rispetto all’andamento sinuoso originario e acquistando così ancor più velocità e violenza. Quando tutto ciò preme sugli argini intorno a New Orleans, può verificarsi una rottura (le tremende inondazioni del 1927 e del 1937, allora le ultime di una lunga lista, stanno a dimostrarlo) e il disastro [1].

A ogni inondazione, a ogni cedimento, a ogni disastro, gli argini vengono ricostruiti più alti – accrescendo così le potenzialità distruttive. Tutta l’area intorno alla città è letteralmente imbrigliata da sistemi di contenimento, anche perché il fiume avrebbe la tendenza naturale a spostarsi di un centinaio di chilometri più a ovest, riprendendosi un proprio letto antico – e ciò vorrebbe dire la morte della città come secondo porto mercantile degli Stati Uniti (e dunque anche, di conseguenza, del suo business turistico). E’ una storia che continua: infatti, nelle celebrazioni del quinto anniversario del disastro del 2005, le autorità hanno annunciato un progetto di costruzione di argini ancor più alti, tutt’intorno alla città...

A questo scenario da tregenda, si aggiunge ora il disastro della piattaforma petrolifera della British Petroleum (e quello più recente) – e ogni commento è superfluo.

E’ evidente, da tutto quanto detto in maniera molto sintetica, che tutto ciò non poteva essere evitato: sono le leggi stesse del capitale (quelle che impongono al capitale di trasformarsi al più presto in capitale accresciuto) a rendere impossibile una qualunque soluzione, a rendere ridicoli i tentativi di ecologisti e riformisti di mettere qualche pezza, in un sistema che è del tutto integrato e in cui ogni parte obbedisce sempre e comunque a quella legge superiore. Si coglie, in questi disastri (che sono gli ultimi di una lista impressionante, negli Stati Uniti come altrove), l’assoluta impossibilità per il capitale (mosso dall’unica, suprema necessità di estrarre plusvalore, di valorizzare se stesso) di prevedere le conseguenze vicine e lontane del proprio anarchico agire.

Scrive Marx nel Capitale: “Come nell’industria cittadina, così nell’agricoltura moderna, la produttività aumentata e la crescente mobilitazione del lavoro si pagano con la devastazione e l’inaridimento della forza lavoro. E ogni progresso dell’agricoltura capitalistica è un progresso non solo nell’arte di depredare l’operaio, ma nell’arte di depredare il suolo; ogni progresso nell’incremento della sua fertilità per un certo periodo, è insieme un progresso nella rovina delle sue sorgenti perenni. Quanto più un paese, come per esempio gli Stati Un iti d’America, parte dalla grande industria come base e sfondo del suo sviluppo storico, tanto più questo processo di distruzione è veloce [...]. Perciò la produzione capitalistica sviluppa la tecnica e la combinazione del processo di produzione sociale solo minando al tempo stesso le fonti primigenie di ogni ricchezza: la terra e il lavoratore” (Libro Primo, Cap. XIII: Macchine e grande industria).

Solo il comunismo, la società senza classi, senza profitti e senza denaro, potrà risolvere queste drammatiche contraddizioni. Lo potrà fare eliminando il contrasto fra città e campagna, distribuendo razionalmente la popolazione sulla crosta terrestre, rapportandosi alla terra non per estrarne plusvalore a tutti i costi con la violenza ai ritmi e agli equilibri naturali, bonificando intere regioni non con l’ansia del profitto ma del benessere collettivo, mobilitando risorse tecnologiche e umane non vincolate all’interesse economico. Utopia? La vera utopia è quella di chi invece vorrebbe risolvere quelle distruttive contraddizioni, mantenendo in piedi un modo di produzione che ne è la radice profonda.

Come volevasi dimostrare, e come l’uragano Katrina e le “maree nere” del Golfo hanno dimostrato.

 

Note:


[1] Sono parecchie le testimonianze secondo cui, all’apice dell’uragano Katrina, sarebbero stati fatti saltare gli argini intorno al povero Lower Ninth Ward, in modo da far rifluire lì le acque del Lago Pontchartrain in piena e così salvare il “gioiello” del French Quarter. D’altra parte, qualcosa di analogo avvenne durante la piena del 1927: per salvare la città, vennero fatti saltare gli argini a monte, devastando le terre intorno e immiserendo così migliaia di braccianti, mezzadri e piccoli coltivatori.

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°05 - 2010)

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