DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Il 26 aprile 1986, nella cittadina di C(ernobyl', cento chilometri a nord di Kiev, in URSS [1], esplodeva il reattore n. 4 della locale centrale nucleare. Quel giorno, improvvisamente, il mondo intero, incredulo, veniva messo al corrente che l’enorme macchina capitalistica russa era fragile e vetusta e che lo Stato stesso appariva impotente di fronte a quest’avanzata decadenza. Le conseguenze immediate e a lungo termine dell’incidente sulla popolazione e sul territorio si sono rivelate catastrofiche e ancora oggi non se ne conoscono chiaramente tutti gli aspetti: non solo l’URSS fu coinvolta, ma l’intera Europa fu investita dalla nube tossica sprigionatasi per giorni dal reattore. Come entità statale, l’URSS sopravvisse pochi anni alla catastrofe.

Il 20 aprile 2010, al largo della Louisiana, nel Golfo del Messico, è esplosa la piattaforma petrolifera Deepwater Horizon (che estraeva petrolio per conto della società inglese BP), uccidendo undici fra tecnici e lavoratori [2]. Dai suoi resti sommersi, ha subito iniziato a riversarsi in mare un’enorme quantità di idrocarburi: i dati ufficiali parlano di 5.000 barili ogni giorno, ma alcuni esperti si sono spinti a dichiarare che la quantità di greggio che finisce in mare aperto potrebbe toccare i 60.000 barili.

Si sa: piove sempre sul bagnato. Non più tardi di cinque anni fa, le stesse coste erano state sferzate dall’uragano Katrina e le immagini di una New Orleans ridotta in ginocchio sono ancora negli occhi di tutti; oggi, le stesse popolazioni (nella stragrande maggioranza, popolazioni impoverite, proletari, sottoproletari, immigrati, masse proletarizzate di recente – il “sommerso” dell’“America ricca e potente”) sono poste di fronte a un enorme disastro, di dimensioni “bibliche”, che le colpisce direttamente e indirettamente. Quello a cui abbiamo assistito, nei primi lunghissimi giorni, è stato il solito balletto al rallentatore di politici sonnacchiosi, top manager scellerati, portavoce affetti da... riduzionismo: il presidente Obama s’è destato dal suo torpore solo dopo una settimana e in tutto questo tempo il Chief Executive della BP ha continuato a minimizzare le conseguenze e ad affermare che la compagnia da sola avrebbe risolto il problema. Sempre dopo una settimana, La Repubblica riportava le parole del solito esperto: “Il petrolio viene anche raccolto attraverso una specie di ‘cupola’, di ‘coppa’ gigante, posta sopra le perdite delle pompe: anche questa, però, è una tecnica che la pressione a quella profondità potrebbe vanificare. Se l'operazione non riesce nel giro di 48 ore, bisognerà passare al piano B, scavare un altro pozzo e cercare di intercettare le perdite dell'altra bocca iniettando gas e altre sostanze chimiche bloccanti: ma ci vorrebbero settimane, mesi”. Probabilità di riuscita? “Prego per il piano A”, spiega sempre... l’esperto, “non vorrei dover ricorrere alla seconda ipotesi” [3].

Così, di preghiera in preghiera, dopo dieci giorni (scriviamo ai primi di giugno), il piano A è ancora in fase di allestimento e se ne ignora l’efficacia. Nel frattempo, si è già constatato che, comunque vada il piano A, bisognerà trivellare a fianco dell’attuale pozzo e mettere in campo il piano B. I tempi previsti sono di almeno due-tre mesi. Questo significa che al ritmo attuale l’odierno incidente supererà di gran lunga nei suoi effetti quello avvenuto in Alaska nel 1989, quando la petroliera Exxon Valdez riversò 40 milioni di litri di petrolio in mare: incidente che fino ad oggi è stato, per gravità, la pietra di paragone di ogni incidente che coinvolge il petrolio.

Nel frattempo, i “soccorsi” stanno applicando due strategie: sciogliere nel mare con solventi la macchia oleosa e isolare parti del greggio con sistemi a strascico per poi dargli fuoco in mare aperto. Ora, sappiamo dai manuali scolastici di fisica che, in fatto di materia, nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma, e anche nel caso in esame non può che valere la medesima regola. I solventi separano le parti più leggere del petrolio e lasciano che quelle più pesanti (cere, grassi, bitumi,catrame) cadano sul fondo marino, ricoprendolo di un funereo lenzuolo impermeabile e mortale – lasciando, inoltre, sostanze altamente tossiche disciolte nel mare (e parliamo di tonnellate e tonnellate). Quando poi si dà fuoco al greggio, ecco che il primo effetto si ripete: una coltre di materiale organico pesante si deposita sui fondali e una quantità enorme di sostanze tossiche, comprese le famose diossine, svolazza nei cieli, insieme a ceneri incombuste – che, prima o poi, ricadranno a terra spargendo ovunque altro materiale tossico [4].

Ce la prendiamo allora con la fisica della materia? Certo che no! Neanche la decadente cinematografia hollywoodiana del filone catastrofista aveva preso in considerazione un simile evento: una bocca aperta direttamente negli inferi che vomita veleno in continuazione! Ma, mentre al cinema c’è sempre l’eroe che risolve brillantemente il problema, nella realtà vige il detto: “tra il dire e il fare c’è di mezzo [per l’appunto!] il mare”. Tutti gli interventi che si effettueranno saranno sperimentati per la prima volta e, consapevoli di ciò, facciamo francamente fatica a ritenere attendibili le previsioni degli esperti: possiamo solo attendere gli sviluppi. Ma questo incidente fa il paio con quello di C(ernobyl' ricordato all’inizio: e non solo per i suoi effetti ambientali.

A noi comunisti non interessa inseguire la cronaca, occupandoci delle responsabilità individuali. Sono più di 150 anni che denunciamo le cause oggettive, strutturali, fondamentali, che fanno del sistema capitalistico una macchina che tritura sotto le proprie ruote dentate risorse ed esseri umani, senza sosta e senza preoccuparsi delle conseguenze a medio e a lungo termine. Quello che ci viene presentato come il migliore dei mondi possibili, nella realtà di tutti i giorni è ormai il sistema più contraddittorio e distruttivo che l’umanità abbia creato: in esso infatti convivono la più grande capacità di produrre valori d’uso e la più estesa condizione di miseria delle masse sfruttate, insieme a una serie infinita di eventi distruttivi sia per l’ambiente che per gli esseri umani.

Se il sistema capitalistico si è sempre fondato sulla produzione di Sua Maestà l’Acciaio, altrettanta importanza va attribuita al petrolio. Da questa sostanza, vero e proprio sangue dell’organismo capitalistico, la moderna tecnologia estrae di tutto. Il petrolio si nasconde infatti ovunque: negli abiti, nelle vernici, nei collanti, nei mobili, nei mezzi di trasporto, nelle plastiche, nelle centrali energetiche, negli edifici, oltre che nella farmacopea e perfino nel comparto alimentare. Questo è possibile perché la sua origine biologica, con il passare delle ere geologiche e a seguito di eventi catastrofici, ha trasformato i vasti ecosistemi del passato in una sostanza oleosa  che contiene un’innumerevole gamma di molecole organiche, le quali per la maggior parte non sono neppure state studiate appieno nelle loro caratteristiche chimico-fisiche e, là dove sono conosciute, stanno alla base di numerosissime merci con cui ingrassa il capitale. La moderna industria ha ricavato di tutto dal petrolio: ma soprattutto il capitale ne ha tratto enormi profitti, facendo del possesso e del controllo di questa sostanza ragione di vita o di morte di se stesso come modo di produzione.

Non dimentichiamo che, in questi ultimi anni, il prezzo di questa materia prima è salito alle stelle: il fattore profitto in se stesso e il “fattore leva” rappresentato dal suo aumentato prezzo sono dunque sufficienti a spiegare le cause oggettive dell’attuale disastro – l’imperativo era continuare a pompare dalle viscere della terra la più grande quantità di greggio, nulla doveva fermare quest’impresa. Ora, sappiamo bene che per il capitale la sicurezza è un costo. È un costo aggiuntivo quando si progetta e si prevede tecnicamente di inserirla in un qualsivoglia macchinario o processo produttivo; ed è un costo ulteriore quando ad essa, in piena produzione, si applicano risorse umane ed economiche.

Non basta. Per il capitale, i “disastri” e le “catastrofi” sono, al contrario di quello che si può pensare, una fonte di lauto guadagno (le cronache giudiziarie sul terremoto dell’Aquila ne sono solo l'ultimo fulgido esempio). Infatti, se oggi la BP dovrà spendere miliardi di dollari per “risarcire” l’accaduto, vi sono tanti altri capitalisti (individuali, anonimi, collettivi, di stato) in giro per il mondo che si fregano le mani calcolando i profitti imprevisti che, quest’anno, grazie a questo incidente, potranno ingollare, scambiando le proprie merci e i propri servizi con i dollari della società petrolifera inglese. Nella società in cui vige la regola del profitto per il profitto, del capitale che inevitabilmente si deve valorizzare ciclo dopo ciclo, la regola non è mai “far manutenzione”, ma aspettare il disastro per poi ricostruire – prassi quanto mai lucrosa (la storia lo ha abbondantemente dimostrato) per le tasche della borghesia.

Un’ultima riflessione ci riporta proprio a C(ernobyl' 1986. Ormai, nell’Occidente avanzato, il sistema capitalistico segna il passo: a dirlo non è solo l’attuale profonda crisi strutturale – lo proclama anche lo stato reale delle grandi infrastrutture su cui esso si regge, e questo deterioramento fa dell’attuale incidente l’immagine riflessa nello specchio storico dell’incidente russo. Il mondo capitalista occidentale si trova di fronte alla propria decadenza e il petrolio che sgorga dal mare ne è solo l’ultimo esempio più lampante e dirompente. L’Inghilterra e gli USA sono ormai due potenze industriali in difficoltà, fortissimamente indebitate e con un sistema infrastrutturale vecchio ed elefantiaco, la cui “manutenzione” costa ormai troppo. Ecco perché l’equazione C(ernobyl' 1986-Louisiana 2010 non è poi così ardita. Non sappiamo se gli USA sopravvivranno, così come li conosciamo oggi, un altro lustro: ma sappiamo che la talpa ha ben scavato e che il capitale perde i pezzi sotto la sua azione.

Non dobbiamo però illuderci. Il modo di produzione capitalistico non si farà da parte pacificamente: al contrario, continuerà la sua folle corsa, anche a rischio di distruggere l’intera specie umana. E’ ormai gran tempo che la sua marea nera venga fermata una volta per tutte: e solo il proletariato mondiale, diretto dal suo partito, può farlo.

 

PS: mentre terminavamo la stesura di questo articolo, le notizie hanno continuato ad accavallarsi. Ad oggi, la BP ha ammainato la bandiera e il suo portavoce negli USA, scoraggiato e avvilito, ha chiesto aiuto al mondo per risolvere la situazione. Ogni commento è superfluo. Pochi giorni dopo, gli ha fatto eco Obama, prospettando addirittura... un’opzione nucleare, per riuscire a chiudere l’infernale foro. E così, con la ricomparsa del nucleare, il cerchio con C(ernobyl' si chiude.

Inoltre, alcuni fatti significativi si sono verificati negli ultimissimi giorni (metà giugno). La militarizzazione dell’area cresce con il passare dei giorni, e due fatti lo dimostrano a chiare lettere. Con la scusa di sorvegliare l’eventuale infiltrazione di non meglio specificati “gangster immigrati” (!), l’FBI e la polizia della Louisiana hanno cominciato a esercitare controlli serrati sui lavoratori addetti alla ripulitura di spiagge e tratti di mare, per verificarne status e regolarità dei documenti. Inoltre, nel suo discorso alla nazione del 15 giugno, il presidente Obama ha annunciato l’invio dell’esercito per... far fronte alla marea nera: ora, anche ammesso che l’esercito possa essere usato per risolvere un “problema” che nessuno finora è apparentemente riuscito a risolvere dal punto di vista tecnico-logistico, c’è da chiedersi allora come mai esso non sia stato fatto arrivare fin dall’inizio. In realtà, cresce il malumore delle popolazioni locali direttamente colpite dal disastro e aumentano così le possibilità di disordini: come nel caso dei terremoti di Haiti e del Cile (cfr. il nostro articolo al riguardo sul n.2/2010), lo Stato lo sa bene e manda le sue truppe. Altre preziose lezioni da tenere a mente!

Sul rapporto Capitalismo-Ambiente, si vedano i nostri articoli:


[1] Usiamo controvoglia la sigla URSS, solo perché è questo l’uso corrente. Sia chiaro che per noi non esistevano in quel paese né socialismo né soviet, distrutti entrambi nella loro sostanza dalla controrivoluzione staliniana.

[2] Notiamo qui che degli undici morti i media si sono quasi immediatamente dimenticati.

[3] La Repubblica, 27/4/2010.

[4] Secondo Il Sole-24 ore del 6/6, gli effetti dei veleni stanno già facendosi sentire fra la popolazione locale e gli addetti alla ripulitura (spesso piccoli pescatori rovinati). Il giornale parla di “una vera e propria epidemia tossica”.

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°04 - 2010)

 

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