DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Le violente rivolte che infiammano Algeria e Tunisia in questi primi giorni del 2011 parlano il linguaggio del proletariato in lotta, e lo fanno come l’hanno fatto, tempo fa, rivolte analoghe altrove nel mondo, come ad Haiti e in Egitto (dove, non per caso, in questi stessi giorni, si è assistito al classico modo, sempre adottato dalle classi dominanti, di deviare il malcontento sociale entro i vicoli ciechi dello scontro di religione). Dai margini (sempre più vicini al centro) di quello che per borghesi e piccolo-borghesi è sempre il “migliore dei mondi possibili”, vengono segnali inequivocabili.

La miseria, la fame, la disoccupazione, la mancanza totale di prospettive, l’impossibilità di sopravvivere, sono sempre più le condizioni in cui versano i proletari: soltanto un esile strato privilegiato ne è (ancora per poco) al riparo, e ciò solo grazie alle briciole cadute dal lauto banchetto della ricostruzione imperialista nei pochi decenni seguiti al secondo massacro mondiale – quel boom economico che borghesi e piccolo-borghesi proclamavano non dovesse finire mai e che, comunque, fu possibile attraverso un forsennato sfruttamento del proletariato di ogni paese. Viva dunque la lotta dei proletari di Algeria e Tunisia, qualunque possa essere, nel giro dei prossimi giorni e delle prossime settimane, lo sviluppo della situazione, perché da loro vengono segnali e insegnamenti preziosi per tutto il mondo proletario.

 

Dovendo pur sempre giocare al massacro dentro alla psicosi creata ad arte nell’ultimo decennio per dividere e paralizzare, gli osservatori internazionali, i mass media, sono infatti costretti a “nominare l’innominabile”: con malcelata preoccupazione, devono riconoscere che qui il fondamentalismo islamico e Al Qaeda (quegli stracci sbrindellati che pur sempre serve agitare) in verità non c’entrano, e che le masse martoriate dei quartieri poveri di Algeri e Tunisi, delle grandi città e dei paesi dell’interno, si rovesciano nelle strade e si scontrano con polizia ed esercito, sotto la spinta di quei fattori materiali e (almeno per il momento) non in nome di questa o quella ideologia pronta per l’uso.

Algeria e Tunisia non sono contrade lontane, piccole e sottosviluppate: sono grandi paesi da tempo entrati nella soave modernità capitalistica. La prima, in particolare, vi è giunta attraverso un lungo e sanguinoso moto anticoloniale, sboccato – in assenza di un proletariato in lotta nelle metropoli e di un partito rivoluzionario in grado di dirigerlo e di indirizzare in quel senso anche i moti anticoloniali – nel trionfo di una giovane e aggressiva borghesia locale, destinata a prendere la strada di tutte le borghesie: quella della competizione sul mercato mondiale, dell’estrazione di plusvalore dal lavoro vivo e dunque dello sfruttamento del proletariato. Lì, esattamente come altrove.

Algeria e Tunisia sono vicine (e non solo geograficamente), perché la crisi economica mondiale (apertasi a metà degli anni ’70) sta bruciando via via tutte le “controtendenze” che il capitalismo è in grado di mettere in campo per cercare di ritardare la resa dei conti finale: e ciò accomuna i giovani e giovanissimi proletari algerini e tunisini agli altrettanto giovani proletari delle banlieues francesi di qualche anno fa (cittadini francesi a tutti gli effetti) e ai proletari immigrati in Italia (che in molti vorrebbero paralizzare in inutili rivendicazioni di “diritti di cittadinanza”), nella spinta generosa a spezzare un ordine e una pace sociali che sono opprimenti e castranti. I proletari delle metropoli capitalistiche, addormentati da decenni di ideologia e pratica opportunista sparsa a piene mani da partiti e sindacati che hanno come unico interesse quello di tenere in piedi la sporca società del capitale, tardano a comprendere che l’unica via è quella della lotta aperta. E, così facendo, ritardano anche l’aiuto necessario ai loro ammirevoli fratelli di classe algerini e tunisini: la creazione di un fronte di lotta che vada ben oltre le frontiere nazionali, che scardini una buona volta obiettivi riformisti e nazionalisti, che cementi le lotte in un unico attacco alla cittadella capitalistica.

Perché il martirio dei proletari di Algeri e Tunisi come quello (purtroppo inevitabile in queste condizioni di isolamento) di altre città dei margini e del centro nel prossimo futuro, non sia invano, è necessario però, non solo riprendere la strada della lotta aperta e cementare le lotte oggi separate e lontane, ma anche comprendere, nel vivo di queste stesse lotte, la necessità di darsi un’organizzazione e una direzione politiche: la necessità del partito rivoluzionario.

Algeria e Tunisia sono vicine, fra di loro e al resto del mondo proletario, anche per questa urgente, non rinviabile, necessità storica.

 

Partito Comunista Internazionale

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