Nel 2011, molti paesi del Medio Oriente e del Magreb, duramente colpiti dalla crisi economica mondiale, furono scossi da movimenti di protesta che giunsero talvolta fino al rovesciamento di alcuni regimi (fu il caso di Tunisia, Egitto, Libia, Yemen, oltre al tentativo in Siria). Oggi, la Tunisia è il solo di questi paesi a seguire la strada di una debole democratizzazione borghese, tanto fragile quanto effettiva. Dal 2013, l’esercito egiziano ha ripreso il controllo diretto del potere, mentre la Libia, lo Yemen e la Siria affondano in interminabili conflitti che abbinano la guerra civile agli interventi stranieri. In un primo momento, l’Algeria e il Sudan, che a diverso titolo sono due importanti paesi dell'area nordafricana e sahariana, non furono travolti da quest’ondata.

 

Il Sudan ha potuto godere di una certa “prosperità petrolifera”, sebbene la maggior parte delle risorse sia finita, attraverso il processo di indipendenza, nel Sudan del sud (attuale Juwama) – processo terminato proprio nel 2011, dopo una guerra durata ventun anni (una guerra sanguinaria totalmente ignorata dalla corte degli “anti-imperialisti selettivi”, adepti del nazionalismo pan arabo, e dai terzo mondialisti romantico-reazionari e dai militanti affetti da emiplegie politiche di ogni sorta!). Nel 2012 e nel 2013, ebbero luogo numerose manifestazioni contro il generalizzato aumento dei prezzi, che furono contenute con una dura repressione (più di trecento morti in poche settimane nel 2013). In Algeria, paese con un’economia basata sulla rendita petrolifera e gasifera (terzo o quarto produttore di petrolio africano, a seconda degli sbalzi geopolitici, ma primo estrattore per il gas), lo Stato ha potuto comprare la pace sociale attingendo alle riserve di valuta straniera: a partire dal 2011, c’è stata infatti una pioggia di prestiti per il consumo (ad esempio, per acquisti di nuove automobili), per la creazione di attività (principalmente piccoli commerci), etc… Ricordiamo a questo proposito che il paese era reduce da un lungo periodo di agitazioni culminanti nella guerra civile più violenta della seconda metà degli anni ’90 del ‘900 (con un bilancio tra morti e scomparsi stimato tra 150 e 200.000 persone, ma ad oggi ancora sconosciuto nelle sue dimensioni reali).

Con la Repubblica Democratica del Congo, Sudan e Algeria sono i due più grandi paesi d’Africa, con una popolazione che supera, per entrambi, i 40 milioni di abitanti. La loro economia, oltre a essere, come già s’è detto, fondata sulle rendite petrolifere e sul gas, esporta poco: poche merci scarsamente diversificate sono prodotte in Algeria, che ha una base industriale in regressione e diretta al mercato interno; per quanto poi riguarda il Sudan, si tratta solo di produzione  ed estrazione di materie prime (oro, gomma arabica, cotone…). A partire dalla loro indipendenza (Sudan 1956, Algeria 1962), i due paesi sono in sostanza delle dittature militari più o meno modificate, con una gestione militare del potere diretta o delegata a civili: situazione non certo originale in quello che un tempo veniva chiamato Terzo Mondo.

Entriamo ora nel merito dell’analisi di alcuni elementi specifici che riguardano le determinazioni storiche di questi due paesi, per constatare come lo sviluppo capitalistico non sia stato portato avanti principalmente da una borghesia imprenditoriale, ma sia stato gestito generalmente da una borghesia "di Stato", sovente incardinata intorno all’unica istituzione nazionale compiuta, in possesso dei mezzi materiali per poterlo dirigere: l'esercito...

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In Algeria, Abdelaziz Bouteflika è stato presidente dal 1999, ma il FLN (più precisamente il sistema esercito- FLN) detiene il potere dall’indipendenza nel 1962 (quasi la metà del tempo di durata della colonizzazione francese, 57 anni contro 130), facendosi “amare” al punto che uno slogan ripetuto nelle recenti manifestazioni reclama una “seconda indipendenza"… Dopo un breve periodo (1962-1965) di cosiddetto “socialismo autogestionario”, vagamente ispirato al modello iugoslavo e molto caotico, l’esercito ha preso il potere, ha messo la “sinistra”in riga (oltre che in esilio e sottoterra) e si è impegnato a sviluppare il paese grazie ai ricavi dal petrolio. Con il colonnello Boumediene come presidente e Bouteflika come capo della diplomazia, l'Algeria sembrava la “Mecca dei rivoluzionari”, dalle Pantere Nere statunitensi a tutte le fazioni nazionaliste delle varie lotte anticoloniali, più o meno allineate al “campo socialista“ russo o con la Cina maoista. Lo stato nazionalizzava gli idrocarburi e usava una retorica di “dura indipendenza” nei confronti della Francia, proprio mentre organizzava con essa una massiccia emigrazione di giovani lavoratori come valvola di sfogo per la sicurezza politica, economica e demografica del paese.

Ma la facciata ha cominciato a sgretolarsi dopo la fine dell’era di Boumediene: difficoltà economiche dovute a una fase di calo del corso del petrolio, liberalizzazione dell'economia (ovvero monopolio dei circuiti di importazione di diversi clan al potere), inasprimento poliziesco-bigotto e tensione sull’identità araba (codice della famiglia retrogrado, permanente promozione dell’Islam, rifiuto di riconoscimento delle lingue berbere, tra cui soprattutto il kabyle)… Il FLN preparava nella confusione la rivelazione del suo fallimento. Nell’ottobre 1988, scoppiarono rivolte di liceali, giovani disoccupati, etc., e, dopo una fase repressiva (che fece più di 500 morti), il sistema politico si aprì, ma per polarizzarsi inesorabilmente tra islamisti ed esercito. Il processo elettorale che avrebbe visto la vittoria islamista, chiuso dall’esercito nel gennaio 1992, innescò un decennio di crisi e di guerra civile. Bouteflika sarà ripescato (dopo quasi trent'anni di oblio) per superare questa situazione: un’operazione che durò per ben quattro mandati. Numerosi ictus e un’assenza quasi totale dalla scena pubblica a partire dal 2014 non impediscono, a coloro che gli algerini chiamano i “decisori", di rilanciare il suo fantasma come candidato al quinto mandato (il “dipinto", viene chiamato, visto che da anni non si vede altro che la sua immagine ufficiale). Questo è il preludio del movimento attuale.

La scintilla è stata la pretesa del regime di mantenere una volta di più al potere il presidente Bouteflika, ormai ridotto a manichino, anche se nel suo stato cosciente fu un dirigente autoritario: pretesa avanzata da un “circolo" composto da suo fratello Saïd, da imprenditori, affaristi, generali e dirigenti dei servizi segreti, che da tempo costituiscono il vero governo. Bisogna anche ricordare che, se la guerra civile è finita, alcuni focolai islamisti persistono: e se le autorità li definiscono come un “terrorismo residuale”, essi sono stati comunque capaci di architettare e portare a termine l’attacco al complesso petrolifero d’In Amenas nel 2013 (39 ostaggi uccisi), e altre operazioni circostanziate di guerriglia. È certo però che la popolazione non è piu tentata da soluzioni islamiste radicali. Contrariamente al Sudan, il regime algerino è ricco, benché molto abbia attinto, negli ultimi anni, dalle sue riserve, passate da 200 a 80 miliardi di dollari circa, e sebbene il prezzo del petrolio si abbassi tendenzialmente dal 2014.

Anche se non fa guerre, è un paese che spende discretamente dal punto di vista dell’ apparato militare (l’Algeria è classificata 25esimo esercito mondiale, secondo GlobalFirePower, mentre sarebbe piuttosto la 55esima economia…). È allo stesso modo uno stato di polizia, pur avendo saputo adattarsi al multipartitismo e a una censura minore che ai tempi del suo splendore. Il fatto che il regime sia sopravvissuto alla tempesta del 1992-2002 è una prova della sua capacità di resistenza, tanto che, agli occhi degli algerini più rassegnati, sembrava ormai che dovesse perpetuarsi per sempre. Per vincere gli islamisti armati il regime aveva tacitamente accordato agli islamisti “pacifici“ una sorta di diritto alla "reislamizzazione permanente" della società. Il risultato è stato un paese in cui “non si muore di fame ma di noia". Se ci atteniamo ai numeri delle statistiche ufficiali, troviamo una gioventù demograficamente maggioritaria, che conta quasi 2 milioni di studenti e un tasso di disoccupazione (ufficiale) dai 16 ai 24 anni del 30% circa (tra i laureati oscilla tra il 20-25%), e che come « sogno » ha un visto d’uscita dal paese. La fuga di cervelli procede velocemente, parallelamente ai tentativi degli harragas (coloro che “bruciano le frontiere", in dialetto algerino: i migranti clandestini). Per coloro che non muoiono in mare il destino che li attende è una vita di precariato o di subcommercio ambulante, a Parigi o nelle altre grandi città europee.

Per decenni, lo humor nero, gli scherzi assurdi, i diversivi sulla lingua ufficiale pietrificata dalla propaganda, simili a quelli degli ultimi anni del blocco dell’Est europeo, sono stati uno sfogo emozionale massivo e diffuso, unito a quello più materiale del trabendo (piccolo commercio di importazione diffuso, i circuiti maggiori essendo gestiti da numerosi clan più o meno legati al regime). Il concentrarsi del disgusto collettivo ha stavolta alimentato un moto spontaneo, fatto di numerosi appelli a manifestare sui social, per impedire il quinto mandato. E venerdì 22 febbraio 2019, giorno di preghiera e di fine settimana in Algeria, ha avuto luogo la prima manifestazione, ad Algeri e in numerose altre città del paese, al grido di "Tutto, ma non questo!". La manifestazione è  stata  un successo, e davanti al carattere massivo della protesta la polizia ha  arretrato. Da allora, le manifestazioni si sono susseguite ogni venerdì, segnate dalla diversità dei partecipanti, dalla presenza di molte donne, dal fervore e anche dall’umorismo dei manifestanti. La violenza è poco presente, soprattutto se si pensa al carattere di massa delle manifestazioni. Il potere sembra paralizzato, agita la solita accusa del “complotto straniero”: ovvero, secondo la retorica ufficiale, una manipolazione della Francia, o meglio… del diavolo.

La borghesia algerina passa volentieri un week end di shopping a Parigi, ci invia i figli a studiare (quando non li manda in Svizzera o a Londra), investe nell’immobiliare parigino, ma ha sempre bisogno di fingere di levarsi con orgoglio e con la più feroce diffidenza contro l’ex colonizzatore, i cui governi non hanno che un solo desiderio: che l’Algeria sia stabile, ad ogni costo! Eppure, il fronte del regime si lacera, cosa che risultava già evidente, da qualche anno, tenendo conto degli arresti poco chiari, dei licenziamenti interni strategici e dei regolamenti di conti: ma si trattava per lo più di liti di palazzo, di lotte di influenza per la spartizione del bottino. Stavolta si è capito che è necessario sacrificare qualche pedina, se pure prestigiosa: alcune fessure sono apparse, si sono allargate e dopo alcune manovre, il 2 aprile, Bouteflika è esonerato per incapacità. Ma le manifestazioni continuano. L’uomo forte del momento, il generale e capo di stato maggiore Ahmed Gaïd Salah, e i suoi sostenitori vorrebbero chiaramente una "transizione" nel segno della continuità e propongono elezioni presidenziali per il 4 luglio (opzione poi abbandonata). I manifestanti rifiutano, la situazione si tende un poco, ma non sfocia apertamente in una lotta violenta. Tra l’altro, una mossa del regime è stata la moltiplicazione degli arresti dei dirigenti, dei grandi padroni, di due ex capi molto temuti dei servizi segreti, dell’ex capo di stato maggiore Khaled Nezzar (che si dà alla fuga), di politici di diverse fazioni; ma non siamo di fronte all’equivalente della Sudanese Professionals Association del Sudan (organizzazione-ombrello di 17 sigle sindacali di professionisti e impiegati): in Algeria, troviamo poche individualità con una certa popolarità, tra le quali ad esempio Mustapha Bouchachi, avvocato, militante dei diritti umani e uomo politico. Il regime algerino ("Potere assassino", dice lo slogan, già canzone di Matoub Lounès, cantante e oppositore assassinato durante la guerra civile) ha saputo e potuto fagocitare la società molto meglio che il suo omologo sudanese. Il fervore e la gioia di essersi ribellati in tanti, di aver fatto indietreggiare il potere, vanno insieme alla rabbia, che tanti giovani indirizzano volentieri contro tutti i dirigenti.

Il governo ha proposto una nuova elezione presidenziale, che s’è tenuta lo scorso 12 dicembre: e, nonostante un astensionismo record (di cui il regime occulta il tasso reale), è risultato eletto un politico poco conosciuto, scelto dal regime: il generale Gaïd Salah. I militanti dello “Hirak" (dall’arabo, “il movimento", nome auto-assegnatosi dai partecipanti a questa protesta) hanno coniato lo scherzo: “Il candidato è l’elezione!". Ma Salah non ha fatto a tempo a godere di questa “vittoria": il 23 dicembre è morto (sembrerebbe di morte naturale). Il “nuovo governo" ha fatto rilasciare un certo numero di persone arrestate durante le manifestazioni, e, benché il movimento si sia indebolito in alcune regioni e nonostante il fatto che una parte degli Algerini vi si oppongano ora apertamente, la protesta non è ancora finita.

L’esito di queste vicende sarà in una parte importante condizionato dall’andamento dei prezzi del petrolio e del gas (dunque, della relativa prosperità dello Stato). La situazione è bloccata da quasi un anno: né il potere né i manifestanti hanno i mezzi per un superamento della fase attuale e la violenza pare a entrambe le parti pericolosissima (ricordiamo la guerra civile degli anni 1990-2000). Il fatto che l’Algeria sia una potenza regionale, poco influenzabile da vincoli diplomatici, rinforza questa situazione di stallo, facendo temere all’Unione europea (Francia in primis) un’ulteriore implosione o esplosione e la possibilità che milioni di profughi si riversino sulle coste nord del Mediterraneo…

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Passiamo ora al Sudan, dove Omar El Béchir e la giunta militare governavano dal 1989. Prima di questo, altri governi militari si erano succeduti al potere dall’indipendenza del 1956, intervallati da  brevi periodi di governi civili. Come l’Algeria, il paese fa parte della Lega Araba, ma tale appartenenza risulta impropria: in arabo, bilad sudan significa infatti “paese degli uomini neri” e in effetti la popolazione del paese è nettamente africana, nonostante molte tribù, soprattutto nel nord, rivendichino origini arabe. Al di la delle mescolanze delle popolazioni, questo richiamo alle origine arabe è un modo per assicurarsi prestigio e status e dunque accesso al potere e alle ricchezze. In Algeria, la grande rimozione riguarda la guerra di indipendenza, la sua conduzione reale e la "privatizzazione" del paese da parte del FLN, dopo diversi regolamenti di conti da parte di alcune sue fazioni: tutto fu cancellato, a favore di un monopolio statale della verità storica. In Sudan, la rimozione ha riguardato lo schiavismo e le fratture etnico-religiose del paese.

Geograficamente, tutta la zona fu per secoli (quelli della tratta chiamata “orientale”, dall’VIII all’inizio del XX secolo almeno) un’area di djihad e di scorrerie destinate al rifornimenti di schiavi, ai commerci e al transito carovaniero legato allo schiavismo. Mentre il nord fu a poco a poco islamizzato, il sud (divenuto indipendente) restò animista e fu in parte cristianizzato. Durante la dominazione anglo-egiziana le due zone furono amministrate in modo distinto; la loro unificazione nel 1946 condusse a una prima rivolta del sud, dal 1955 al 1972. La guerra riprese nel 1983, fino al 2005, quando il colonnello Nemeiry volle imporre al sud la charia (legge islamica), già in parte in vigore al nord. Le guerre del Sudan non finirono qui: dal 2003 a oggi, ha avuto luogo quella del Darfour, mentre dal 2011 le regioni del Nilo blu e del Kordofan del sud (rimaste soggette al nord) affrontano il potere centrale. Alcune di queste regioni sono produttrici di petrolio, ma se ciò attira la cupidigia in modo totalmente evidente, bisogna aggiungere la desertificazione, che scatena i conflitti per le terre e l’acqua tra agricoltori e allevatori, il fattore demografico, la marginalizzazione di lungo periodo di queste zone: tutte determinazioni alle quali vanno ad aggiungersi il razzismo e le sporche eredità della storia schiavista. Precisiamolo: non si tratta affatto di una guerra di religioni (le popolazioni del Darfour, per esempio, sono tutte musulmane), quanto piuttosto del risultato ancora conflittuale di una sorta di colonizzazione endogena, che è difficile distinguere in quanto tale, poiché messa in opera in modo molto diffuso e su un lunghissimo periodo. Il risultato più logico di questa conflittualità permanente è che le spese per la sicurezza (l’esercito, le milizie alle quali lo stato affida il terrore nelle regioni insorte, i servizi segreti, i NISS) assorbono circa l’80% del budget dello stato, fino all’innescarsi del movimento del dicembre 2018.

Alla fine del 2018, il Sudan era economicamente in ginocchio: assenza di valute, forte inflazione, penurie diffuse (inclusa l’assenza di benzina!), e questo nonostante gli aiuti di Sauditi ed Emirati a ricompensa per l’invio di milizie sudanesi nella guerra in Yemen. La triplicazione del prezzo del pane è servita poi come scintilla per accendere le manifestazioni spontanee del 19 dicembre, che hanno avuto luogo nella capitale, Khartoum, e in più città, come Atbara, nodo ferroviario e zona di vecchio radicamento del partito "comunista" sudanese. Quest’ultimo, debole e clandestino, ma ancora presente (fu un tempo uno dei più importanti del mondo arabo), insieme a partiti legati a differenti movimenti armati e una organizzazione della società civile, si sono impegnati per coordinare questa protesta, che una prima ondata di repressione non è riuscita a far cessare (migliaia di arresti, torture, decine di morti). La su citata SPA raggruppa avvocati, medici, universitari, etc.: in breve, si tratta dell’espressione di una borghesia chimicamente pura che cerca di perforare il coperchio di piombo militare – l’espressione di una tendenza a una "normalizzazione " di questa vasta area dallo sviluppo, fino a questo momento, caotico.

Sarà ciò possibile? Vi è in realtà un altro problema. All’inizio di aprile 2019, di fronte al fatto che né il movimento né la giunta avevano ceduto, la coalizione d’opposizione detta Dichiarazione per la libertà e il cambiamento ha lanciato la parola d’ordine di confluire nel quartiere dirigenziale della capitale, Khartoum (sede di numerose istituzioni, tra cui il quartier generale delle forze armate, del NISS, etc.): una folla di centinaia di migliaia di persone si è messa in marcia, creando veri accampamenti  nel quartiere e riuscendo a non farsi sgomberare dalla polizia e dalle milizie. Cinque giorni più tardi, l’11 aprile, Omar El Bechir è stato sacrificato da altri capi militari e arrestato: un consiglio militare di transizione ne ha preso il posto. L’opposizione capisce allora subito che niente è stato messo in gioco: mantiene l’accampamento in città e conferma le manifestazioni.

La protesta in questione è descritta dagli osservatori come, se non rivoluzionaria, per lo meno di “rovesciamento sociale”: oltre all’organizzazione materiale e logistica, le tende si organizzano per regioni, città, partiti, sindacati, altre come uffici, o come cinema, luoghi di espressione corporea, creazione di volantini, etc. La parola si libera, oratori improvvisati informano i compatrioti su ciò che sta avvenendo nelle regioni in guerra, la presenza e la partecipazione delle donne sono massicce, soprattutto tra le giovani (il 40% della popolazione ha meno di 15 anni!), la musica non manca. Quando inizia il ramadan e un imam del quartiere lancia fulminanti proclami contro la presenza haram (empia e proibita) delle donne, è messo a tacere, gli viene impedito di proseguire. La pressione mantenuta dal movimento, la mobilitazione sempre numerosa, hanno condotto, alla metà di maggio, a un accordo per una transizione civile-militare: può sembrare dunque che il regime islamo-miltare sia oramai superato. Ma alcuni elementi più opportunisti, implicati nelle malefatte del regime decaduto, fanno parte di questa transizione (è il caso del capo della RSF, una delle milizie meglio armate, dispiegate in parte a Khartoum). Su un piano internazionale, l’Arabia Saudita si è affrettata ad accordare un aiuto d’emergenza per la transizione, anche se si intendeva benissimo con El Bechir; l’UE si congratula per la caduta di un capo di stato accusato di crimini contro l’umanità dalla Corte penale internazionale, pur avendo mantenuto accordi con il paese in merito alla lotta contro l’immigrazione e per la sorveglianza delle frontiere sudanesi; gli Stati Uniti, che avevano applicato sanzioni contro il regime in seguito alla guerra del Darfour e al Sud, le hanno tolte a poco a poco, nel corso degli anni, nel quadro degli accordi per la « Lotta al terrorismo »; la Cina aveva grossi interessi di natura strettamente economica e farà in modo di conservarli ed accrescerli… Insomma, il vecchio regime era conveniente per tutte le potenze.

L’elemento reale più importante per adesso, oltre alla parziale caduta di un regime fallito e fallimentare, è l’azione, in un contesto bloccato e di ritardo locale, dell’acido capitalista modernizzatore su strutture arcaiche mantenute con la coercizione. Il Sudan, che si pensi alla religione, allo statuto della donna, alle speranze di una gioventù statisticamente maggioritaria, può essere un esempio in tal senso per molti altri paesi. Ma all’alba del 3 giugno, l’esercito ha attaccato l’accampamento di Khartoum, facendo capire in questo modo il limite che intendeva porre al movimento e gli strumenti attraverso cui vorrebbe inquadrare il processo. Il bilancio di questo attacco della RSF è di circa 130 morti, senza contare i feriti, le donne violentate e i torturati. Nonostante la durezza dell’episodio repressivo, il movimento non si è fermato. Scioperi e manifestazioni sono proseguiti. Il fatto che l’economia sia a pezzi e la volontà delle "potenze padrine" (in primo luogo, Arabia saudita ed Emirati arabi uniti) di rendere stabile un paese geopoliticamente importante, arginando le  repliche delle primavere arabe, hanno fatto in modo che le negoziazioni continuassero tra l’opposizione e i militari. Le due parti sono arrivate a un accordo il 4 agosto, firmato il 17, che definisce le modalità di una transizione di 39 mesi e le sue forme istituzionali. Il potere sarà suddiviso tra civili e militari, questi ultimi hanno fatto in modo di mantenere i ministeri della difesa e dell’interno e di appropriarsi di tutti gli averi finanziari e materiali del partito dell ex capo di stato Omar El Bechir, totalmente esclusi nel processo. Nel quadro della evoluzione guidata da fazioni borghesi, progressiste o reazionarie, militare e civile, un solo elemento testimonia un fattore di progresso sostanziale: l’Islam non sarà più alla base della costituzione e dello stato, che sarà quello di "tutti i suoi cittadini": e oggi è in corso una transizione del potere controllata, un primo ministro civile governa, Omar el Bechir è in arresto e sotto inchiesta. Se il processo di transizione continuerà, la popolazione sudanese potrà rendersi conto dei limiti delle libertà borghesi, in un futuro forse non troppo lontano.

L’orizzonte, se non sarà ancora una volta di schiacciamento e repressione, sarà dunque una “normalizzazione“ democratica. Il proletariato, in entrambi i paesi, non si distingue dalla massa, anche se è presente nei movimenti: non emerge ancora. Possiamo però avanzare l’ipotesi, molto interessante da un punto di vista rivoluzionario, che, in queste situazioni, dei movimenti di fondo, una sorta di tettonica sociale, siano in corso: in Algeria come in Sudan, forme apertamente coercitive di accaparramento della ricchezza prodotta e le imposizioni che le giustificano sono scosse a causa del poco o nulla che offrono alla maggior parte della popolazione, ancora in crescita. Certo, la gioventù non è una classe: ma la maggior parte di questi giovani sono proletari. Se si confermano e maturano il loro desiderio e il loro bisogno di liberarsi dal peso che li schiaccia insieme a quello delle leggi generali del capitalismo – in particolare la religione, in queste varianti reazionarie –, sarebbe un’ottima notizia, in un’epoca poco entusiasmante come l’attuale. Facendosi sentire, potrebbero contribuire a smuovere altre situazioni simili, oggi alquanto numerose…

 

Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista)

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