(Il Comunista" del 12 Aprile 1921)

 

Non è assolutamente accettabile come spiegazione dell'attuale passivo atteggiamento del partito socialista dinanzi alle violenze del fascismo contro il proletariato la tesi che esso aborra dall'uso della violenza - per principio in una sua ala destra, per valuta­zione di opportunità in un'ala sinistra.
Nemmeno nei suoi esponenti più specificamente "destri" la socialdemo­crazia italiana annovera avversari di principio della violenza, checché si possa dire dell'umanitarismo pietista dei Prampolini e dei Turati. Fedeli alla loro mentalità contingentista (parola che potrebbe in parte sostituire più effi­cacemente quella di opportunista) che fa discendere la tattica da adottare dalle indicazioni delle mutevoli situazioni che si attraversano, essi so­no con­trari alla risposta violenta alla violenza fascista per ra­gioni che devono cer­carsi più a fondo di una generica ripu­gnanza cristiana alla violenza, che di­pendono dal particolare ca­rattere del fascismo e dalla valutazione della pre­sente situazione italiana. In fondo a tali ragioni vi è una direttiva di massima che cercheremo di rintracciare, ma è specifico carattere dell'"opportunismo" il tacerla ed il sostituirla con un'altra che per l'occasione sarebbe quella di un orrore tolstoiano per lo spargimento di sangue.
 
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Cominciamo a dimostrare la inesistenza di questa pregiudi­ziale pacifista generica, indicando i casi in cui il metodo della violenza armata fu (vedremo anche in quali casi sarà!) invocato dagli odierni zoccolanti della non resi­stenza al fascismo.
In teoria la violenza viene storicamente giustificata dalla più serafica barba di riformista, in quanto fu volta alla costituzione degli attuali ordina­menti sociali, alla conquista delle libertà ci­vili e nazionali. Santa è, nella valutazione del più addomesticato socialdemocratico, la memoria di quella violenza che diede all'Italia la libertà nazionale e le guarentigie costituzio­nali - e altrettanto dicasi per gli altri paesi, correndo dalle... uccisioni dei classici tiranni, alla rivoluzione francese, alle guerre di indi­pendenza di un­gheresi, polacchi, greci, boemi, ecc., ecc., ecc. Casi dunque, come si vede, non solo di guerre nazionali, ma al­tresì di guerre "civili" e di quelle in cui non si scherzava davve­ro...
Ma le invocazioni alla violenza dell'azione, e nella realtà di date situa­zioni, non già quindi come semplice giustificazione teoretica, da parte degli attuali campioni della tesi: porgere l'al­tra guancia, sono a nostra disposizio­ne nella molto più recente cronaca politica. Se la violenza era santa per con­quistare le li­bertà democratiche e le indipendenze nazionali, non lo è meno quando si tratti di guardare da minacce e pericoli questi inesti­mabili beni - nella mentalità degli idilliaci nostri socialpacifisti.
Non sono essi ancora gli insurrezionisti del '98?[1] Gli apo­logizzatori e i sobillatori dello schiodamento delle rotaie sotto i treni che dovevano traspor­tare le truppe per le guerre eritree?[2] Ma si può venire più avanti. Nell'ago­sto del 1914 si minacciava l'intervento dell'Italia in guerra al fianco dei suoi alleati e con­tro la Francia. I nostri socialdemocratici, d'accordo con rivolu­zionari, anarchici, e... repubblicani, annunziarono in un procla­ma che avrebbero invitato il popolo alla insurrezione armata se la mobilitazione in quel senso fosse stata ordinata dal governo.
Durante la guerra, ogni qualvolta si minacciò quella leggen­daria ditta­tura militare di cui mi occupavo in un precedente ar­ticolo, essi annunziarono propositi insurrezionali, solo preoccu­pati dal pericolo del nemico "esterno". Quando a guerra finita si tornò ad agitare quell'insulsissimo spauracchio, tornarono a vo­tare deliberati apertamente insurrezionali (vedi un ordine del giorno della riformista Camera del Lavoro di Milano di cui la data mi sfug­ge). Sempre che furono, o essi immaginavano che fossero minacciati gli isti­tuti democratici e le libertà costituzio­nali, i riformisti parlarono (e, badate, non era millanteria, era adesione teoretica e disposizione pratica tra loro coerenti) di chiamare le masse sulle piazze all'azione armata.
Contro i minacciati colpi di mano di D'Annunzio essi sem­pre invocaro­no, e la violenza popolare e proletaria, e la violenza repressiva statale. E, d'altra parte, durante la guerra, allorché il territorio della patria era invaso, ancora una volta, più volte, essi inneggiarono alla violenza delle armate di­fenditrici della integrità nazionale. Questo atteggiamento loro, e quello su ricor­dato dinanzi alla minaccia della guerra contro l'Intesa, li avvici­navano ai democratici interventisti, mentre questi poi si avvici­navano nella più spin­ta adesione alla guerra ai pretesi reazionari manipolatori di colpi di Stato.
Ma ancora. Non ricordate che inno alato Filippo Turati sciolse nella Camera alla rivoluzione russa - quando questa era ancora quella dei cadetti e di Kerensky, e non quella di Lenin e dei bolscevichi? Eppure essa non era certo in quella prima fase meno cruenta e violenta che nella seconda fase, quando realizzò quel regime della ferrea dittatura proletaria, contro l'avven­to del quale tra noi Turati annunziò non molto dopo di essere pronto ad im­bracciare un fucile.
Non è dunque una pregiudiziale avversione teoretica o sen­timentale alla violenza che motiva l'attuale atteggiamento dei socialdemocratici dinanzi al dilagare del fascismo. E nemmeno è la paura, spiegazione che sarebbe anco­ra più stupida. La paura può avere influito presso chiunque; magari sogget­tivamente può cogliere anche un comunista, essa soprattutto spiega larga­mente il fatto che molti che si dicevano e si proclamavano rivoluzio­nari in tempo di bonaccia non perché lo fossero nel loro pensie­ro ma per pura de­magogia e magari scarsa conoscenza teorica delle questioni su cui conciona­vano, abbiano trovato conve­niente rivelarsi per quello che erano, cioè auten­tici socialdemo­cratici, facendo sì che oggi il capo del partito socialista, fino a ieri massimalista, sia proprio Filippo Turati. Ma l'atteggiamento della so­cialdemocrazia italiana, nei cui effettivi vanno comprese le forze che per tanto tempo vennero credute estremiste, recen­temente e felicemente scac­ciate dalla Terza Internazionale, ha ben altra logica e ben più grave signifi­cazione.
Se domandate agli accorti teorici del riformismo nostrano quale linea leghi tutti quei loro atteggiamenti eroici che abbia­mo rammentati colla loro odierna politica così dimessa, quelle pose leonine coll'attuale belare da agnellini, vi diranno: nessuna. Ed anzi assumeranno, ironizzandovi, di non essere e non voler essere dei teorici e dei generalizzatori, di non essersi mai co­struiti schemi generali in cui si possano inquadrare le infinite mutevolezze dei fatti storici, di essere troppo colti, troppo sot­ti­li, troppo sensati e troppo... furbi per dedicarsi a simili eserci­tazioni degne del nostro infantilismo critico massimalista.
Malgrado ciò noi, che siamo ostinatamente schematici, dog­matici, semplicisti teorizzatori, possediamo una spiegazione plausibile di quegli at­teggiamenti che fa alla coerenza dei so­cialdemocratici l'onore che la loro modestia vorrebbe offuscare. Esiste una tesi specificamente antimarxista ed anticomunista (ed antisocialista, se il socialismo è qualche cosa di più dell'Ersatz che ne propinano le varie specie di ex- compagni) secondo la quale la rivoluzione borghese, ossia "democratica", quella che ci diede il pa­trimonio di incalcolabile valore (e peggio per voi, po­veri iloti delle officine e della terra, se non vi accorgete di es­se­re a parte di tanto retaggio!) del regi­me liberale e parlamen­ta­re, fu l'ultima rivoluzione legittimamente violenta e magari san­guinaria. L'ulteriore sviluppo della società umana dovrebbe pro­cedere per pacifiche e graduali azioni delle collettività, colle armi incruente che il sistema della democrazia elettiva offre alla manifestazione dei loro in­teressi e delle loro tendenze. Ma se per poco quello stesso fondamentale di­ritto alle armi "civili" della scheda e delle libertà costituzionali viene mi­nacciato da prepotenze statali o extra statali, allora ridiventa sacro l'uso della violenza popolare, l'azione insurrezionale armata per ri­stabilire quel minimum di diritto sulla cui base si potrebbe svol­gere l'ulteriore elevamento delle masse. Non è il caso di dire o di ripetere come una tale teoria, oltre al costituire il rinnega­mento definitivo di ogni dottrina socialista sia di una astrattezza e schematicità veramente idiote, ed abbia ricevuto proprio dalla signora realtà - vantata nostra demolitrice polemica! - atroci smentite. Ci occorre però far constatare come essa giustifichi a capello il susseguirsi di quegli atteggiamenti dei nostri socialisti di destra che abbiamo rammentati. Minacciate le conquiste della rivoluzione borghese, nel campo della indi­pendenza nazionale o delle guarentigie democratiche, occorre difenderle cogli stessi mezzi coi quali unicamente fu possibile conquistarle. Secondo la mentalità socialdemocratica la violenza è condannata non in qu­anto tale, ma in quanto il proletariato vi fa ricorso per la sua lotta di emancipazione che essi pretendono possa efficacemente esplicarsi usufruendo dei mezzi che of­fre la democrazia. Ma se questi mezzi stessi sono messi in forse, per preser­varli da ritorni reazionari non vi è che la violenza. Naturalmente non è vio­lenza classista, è violenza emergente da una collaborazione tra i lavo­ratori e gli elementi "di sinistra" della classe borghese.
In una parola - e spero la conclusione non parrà avventata dopo quanto precede, a cui mille altri analoghi argomenti po­trebbero aggiungersi - i so­cialdemocratici sono per la violenza a condizione che questa serva a difen­dere una conquista borghese, una istituzione borghese, in quanto essi assu­mono "essere le istituzioni democratiche terreno indispensabile per il cam­mino di emancipazione del proletariato".
Se la violenza serve solo per il proletariato, solo per la sua azione di classe, contro il regime borghese anche ove questo os­servi ortodossamente le regole costituzionali (che secondo noi sono specificamente sue e convengono ai soli suoi interessi; se­condo i socialdemocratici sono patrimonio della so­cietà al di so­pra delle classi) soprattutto se la violenza, come la rivoluzione russa indicò e la Terza Internazionale insegna, serve proprio contro la de­mocrazia borghese, per spezzarla e sopprimerla, al­lo­ra la violenza diviene pei socialdemocratici, criminale - ed essi vengono alla logica conclusione che è, anzi, legittima la violenza contro queste tendenze e questi movimenti.
 
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Perché adunque i classici nostri riformisti sono contro la reazione vio­lenta al fascismo? Perché essi sanno che il fascismo non è affatto un movi­mento antidemocratico e tendente alla sop­pressione del regime parlamenta­re elettivo. Perché essi vedono bene che lo scopo della violenza fascista non è la soppressione della democrazia borghese e neppure lo schiacciamento della socialdemocrazia operaia; esso è soltanto la organizzazione di­fensiva del regime democratico borghese contro l'assalto prole­tario. I lavoratori co­munisti escono dai quadri della lotta parla­mentare e proclamano l'intendi­mento di muovere alla conquista violenta del potere. La borghesia, colle guardie bianche, si or­ganizza per la lotta, non per sopprimere dunque essa la demo­crazia, bensì per difenderla da noi comunisti che la vogliamo violen­temente sopprimere.
È soltanto così che si può spiegare come, mentre è canone di azione per i socialdemocratici, giusta il già detto, che agli atten­tati al diritto democra­tico si risponde colla violenza popolare (e del resto, oltre alla storia, la logica più elementare ne testimo­nia) nella situazione attuale i socialisti esortano le masse a non insorgere violentemente, ma ad avvalersi, per la loro difesa, di quegli stessi mezzi democratici al libero uso dei quali l'avversa­rio sembra at­tentare. È ch'essi sanno come il fascismo non vuole contendere loro l'uso definitivo del diritto elettivo, basterà per placarlo dimostrare che si vuole far uso di questo, impegnandosi a fare uso soltanto di questo nelle azioni ulte­riori.
In Italia, oggi, il fascismo ha una prima funzione: smontare tutto quello che nei propositi di lotta rivoluzionaria comunista vi era di artificiale, isola­re i veri avversari del regime vigente dai suoi possibili ausiliari. Piombando sui massimalisti, esso non spera di distruggere subito quanto vi è di vero movimento co­munista - oggi organato nel nostro partito - ma di ridurre il grosso del P.S.I. al rinnegamento definitivo del comunismo ed all'alleanza cogli altri difensori della democrazia borghese.
In questo si inquadrano le ripetute dichiarazioni dei dirigenti fascisti ri­guardo ai problemi operai, e le recenti parole di Mus­solini: "Senza assumere arie da profeti, si può anticipare, per quel che riguarda i socialisti, il risul­tato delle elezioni: saranno decimati, ed il trionfatore sarà Filippo Turati. Una delle conse­guenze più appariscenti dell'azione fascista, è la ripresa tu­ra­tiana. Le azioni di quest'uomo, che non valevano una 'palanca greca' nel congresso di Bologna, oggi sono quotatissime nel 'bor­sino' del Pus.[3] La storia gli ha dato ragione. Ma senza il fa­scismo, Turati sarebbe già precipi­tato da un pezzo nel gorgo dei dimenticati".
Senza assumere arie da profeti, possiamo dire che il secondo periodo di azione fascista sarà quello di azione diretta contro la parte irriducibilmente rivoluzionaria e comunista del proletaria­to, di cui oggi si ostenta di non parlare. Ma allora sarà attenuata ogni distinzione tra i vari nemici giurati del comunismo, allora il fascismo non si presenterà più sdoppiato dallo Stato, e al ti­mone dello Stato vi sarà forse la socialdemocrazia.
Noi temiamo tanto meno questo secondo periodo, in quanto, da ostinati teorici, pensiamo che i riflessi di chiarificazione dell'opera fascista non siano stati inutili per noi. E pensiamo anche che il portato della prima fase di vio­lenza fascista, ossia la conversione amorevole dei pseudo-massimalisti alla collabo­razione di classe giovi indirettamente alla orientazione ed alla stessa preparazione rivoluzionaria delle masse, cosicché è ancor dubbio chi sarà a dare il segnale dell'offensiva nella seconda battaglia che sosterrà la borghe­sia. Chiunque la inizi, è certo che non finirà in un'alleanza, ma nella disfatta definitiva di uno dei contendenti. E guai ai vinti, da qualunque parte essi sa­ranno!
 

[1]      Nel 1898 ebbero luogo violenti movimenti proletari provocati da una gra­ve crisi economi­ca, in particolare a Milano, dove il governatore militare Bava-Bec­caris proclamò la legge marziale. Il generale Pelloux fu chiamato al governo (è a questa "dittatura militare" che il testo fa allusione più avanti) e restò al potere fi­no al 1900. Sotto il suo governo i socialisti praticarono l'astensionismo al parla­mento e rivendicarono l'uso della violenza nelle strade per difendere le libertà vio­late e pro­testare contro gli arresti dei militanti di estrema sinistra. Lo stesso Tu­rati subì una lunga pena de­tentiva. Numerosi socialisti e anarchici si rifugiarono all'estero. Questo periodo terminò con l'assas­sinio del re Umberto I da parte dell'anarchico Bresci nel 1900. Fu allora che, con il nuovo re Vitto­rio Emanuele III, Giolitti fu chiamato al potere e cominciò la famosa "età d'oro" del liberalismo e del riformismo.

[2]      Nel 1895-96, ci furono ugualmente violente agitazioni contro la politica coloniale del primo ministro Crispi in Eritrea- Etiopia che sfociò nel 1896 in una cocente disfatta con la battaglia di Adua. Questi movimenti, vigorosamente ap­poggiati dai socialisti, furono contraddistinti da am­mutinamenti di truppe e sabo­taggi di ferrovie. Furono il prologo degli avvenimenti che si produssero a Milano due anni dopo e allo stesso tempo l'epilogo dei movimenti in Sicilia e della loro violenta repressione nel 1894.

[3]      Termine spregiativo per indicare il P.S.I.

 

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