(Da "Il Comunista" 3 febbraio 1921)

 


Fascismo è una parola creata da noi, accettata da coloro che noi inten­devamo rappresentare nell'idea che la parola stessa foggiava, e divenuta, poi, di dominio nazionale. Ma i fasci di combattimento, dai quali rampollarono i nuovissimi fascisti, eb­bero, in origine, scopi sensibilmente diversi da quelli perseguiti dai fasci odierni, se pure gli uni e gli altri tendano naturalmente alla difesa degli istituti borghesi.

I primi fasci di combattimento volevano essere a programma rivoluzio­nario. Nel concetto di valorizzare la vittoria militare era assorbita ogni altra preoccupazione dei problemi sociali i quali - sotto determinate forme e con speciali soluzioni - erano un raf­forzamento, nella pratica, di quel concetto originario e basale.

I combattenti, per il solo fatto di essere stati tali, avevano - secondo il programma dei fasci - molti diritti, primo fra i quali quello di dirigere ormai lo sviluppo politico ed economico della nazione. La sopravvalutazione del combattente, divenuto élite attraverso il sacrificio della trincea, fu lo spirito che animò co­loro i quali foggiarono il primo programma dei fasci. Diremo più oltre quanto fosse errata tale concezione che la vita stessa italiana, nel successivo svolgersi, dimostrò assurda e non-sociale. Ci basti, per ora, dire che il programma politico dei fasci, senza pregiudizio nella forma del re­gime, s'imperniò sovra a due principii:

1) L'Italia, dopo la vittoria militare, deve acquisire forza tale nel conses­so delle nazioni, per mantenere non solo il suo posto di grande potenza, ma per ottenere il riconoscimento di quegli altri diritti che il trattato di Versa­glia le ha contestati;

2) I partiti che furono contrari alla guerra non dovranno aver ragione di intervenire nella formulazione del programma di ricostruzione del paese; i lavoratori, in associazioni sindacali apolitiche, potranno, sì, trattare dei loro interessi di categoria, ma senza trascendere all'intervento nei problemi poli­tici che na­scono dalle competizioni economiche.

Programma di conservazione e di reazione.

Se pure faceva grandi concessioni all'idealismo, mal celava preoccupa­zioni di difesa classista. Manteneva vivo e desto lo strumento militare per ausilio all'azione diplomatica e per i so­gni egemonici in Dalmazia e in Al­bania, in Tripolitania ed in Asia Minore; scopriva il suo contenuto imperia­listico, pure sotto le forme verbali ed ambigue della democrazia, ed il prin­cipio della Costituente e del Parlamento del Lavoro.

Intorno a questo programma si coalizzarono le forze conser­vatrici della nazione; la piccola borghesia intellettuale, incapace di comprendere il suo valore e la sua funzione storici, la quale domani passerà al partito socialde­mocratico, al suo partito stori­co, secondo l'esperienza della rivoluzione mondiale; i grandi in­dustriali ed i grandi agrari, gli ufficiali.

Di contro v'era un programma più antico, che ha un conte­nuto scientifi­co e molti anni di penetrazione sociale; che ha origine dalla interpretazione scientifica del processo storico ed il cui svolgimento trova ogni giorno più le sue ragioni logiche che ne fanno antivedere lo sbocco inevitabile.

La guerra non sorprese i marxisti, i quali - nei testi classici dei Maestri - l'avevano preveduta. La guerra non poteva modi­ficare le grandi linee politi­che della organizzazione e della eco­nomia attuali: accelerò il processo di maturazione del regime borghese. Il marxismo ancora una volta ebbe ra­gione dell'espe­rimento storico. La guerra fu un episodio della crisi capitali­stica giunta ai supremi aspetti imperialistici. Fu detto che il combat­tente di guerra fosse un infortunato; e - sebbene tale attributo fatalistico abbia sapore umoristico - pur esso dice l'assenza reale d'ogni volontà a combattere nel soldato che fu condotto alle battaglie.

Ciò non escluse la sentimentalità e l'onestà di qualche misti­co o di qual­che idealista illuso; ma sarebbe stolto giudicare un grande fatto storico dall'animo di alcuni attori oscuri. E - salvo rare eccezioni ancor oggi fugate - l'artificiosa propaganda di sopravvalutazione del combattente nei confronti degli altri lavo­ratori rimasti nel paese durante gli anni di guerra, urtò contro l'anima stessa dei combattenti, i quali si sentirono eguali a co­lo­ro che ave­vano avuto la fortuna di conservare intatti le ener­gie e lo spirito per la guer­ra di classe, per la guerra veramente sentita, e che oggi, finalmente, chiari­fica il campo di battaglia in due ordini di trincee opposte dopo che la demo­crazia corrut­trice è fallita nelle medesime premesse ideologiche che l'ave­vano giustificata alla borghesia più intelligente e scaltrita.

Dal primo aspetto del fascismo si staccò il ramo dannunziano che, nelle sue ragioni programmatiche, affermò e sostenne con­cezioni rivoluzionarie le quali portarono ad aperte rivolte di re­golari contro il governo centrale, e poi contro lo Stato ed il re­gime. I legionari dannunziani vollero portare fino alle logiche conseguenze le premesse del primo fascismo. Può darsi ch'essi ab­biano ancora a riapparire sulla scena politica italiana.[1]

Ma l'aspetto nuovo del fascismo, quello che più interessa la vita odierna del paese, è quello sorto dall'adattamento dell'ideo­logismo alla difesa degli interessi materiali della classe borghese.

Certo, in tal modo, il fascismo ha più sinceramente mostrati gli scopi veri della sua esistenza. Questa verità di­spiace a molti gre­gari dei fasci. Essi amerebbero essere considerati come gli asser­tori e i sostenitori di alcuni principii ideali: salvare la patria dal disor­dine, impedire il fallimento dello Stato, ecc.; ma l'opera ch'essi svolgono, anche se diretta a questi fini che non possono essere i nostri (anche noi siamo un partito di ordine e di disci­plina sociale, ma dopo l'abbattimento violento del regime bor­ghese) mostra in luce meridiana i rapporti esistenti fra la grande borghesia industriale e terriera ed i fasci. Se è naturale che la banca e la grossa industria alimentino la stampa, è più naturale ch'esse as­soldino veri e propri battaglioni inquadrati in guardie bianche.

Tale fenomeno non è originato da "residui" di mentalità o di volontari­smo bellico, come alcuni socialdemocratici (Giolitti, Turati, ecc.) affermano sovente. È l'acutizzarsi della lotta di classe che provoca necessariamente il bisogno della difesa arma­ta delle classi stesse. Quei socialisti i quali ammet­tono la violen­za come mezzo "finale" per l'abbattimento del regime - che de­ve, cioè, essere usata solo nel momento decisivo del duello fra le classi, della guerra civile - dovrebbero convincersi, se fossero più accorti e meglio capaci di sentire le situazioni storiche, che il "momento finale", "l'ultimo cozzo", il "momento decisivo" lo stiamo attraversando; e storicamente "il momento" non è una piccola frazione di minuto, ma ha la durata di qualche mese o di qualche anno.

Di fronte, dunque, all'armamento della guardia bianca ed alla sua attività, è vero delitto verso il proletariato invitarlo a non rispondere al nemico con le armi che questi sceglie, o richiamarlo alla forza dell'organiz­zazione. La violenza - se non vogliamo girovagare nei campi del sofisma, della filo­sofia, della pura filologia - è forza dinamica. La violenza dei bimbi e degli inabili può suscitare riso e compassione; ma la violenza dei forti serve a scardinare le cento porte che prece­dono il simbolico arco, elevato ad onore della vittoria proletaria.

Tanto più risibile è l'"in alto le mani" di Filippo Turati che ha sapore brigantesco pur nell'intenzione francescana di colui che lo profferse, perché denota la più profonda incomprensione del fenomeno rivoluzionario che si svolge sotto i nostri occhi. Se esso provocasse, come pare, un decreto reale ordinante il ritiro dei permessi d'arme e sanzionante pene severissime per i posses­sori di armi, il proletariato dovrebbe ancora una volta ringra­ziare i suoi ciechi pastori per il sacrificio del proprio corpo cui sarebbero sottoposti dalla naturale applicazione del decreto stes­so: esso, cioè, servirebbe a smo­bilitare la classe lavoratrice e metterla, inerme, contro l'armatissima classe dominante che ha il suo esercito mercenario ed il corpo dei franchi tiratori.

Noi non siamo affatto meravigliati del nascere e dell'affer­marsi di code­sta salda organizzazione controrivoluzionaria: di­ciamo, anzi, che essa si svilupperà e si rafforzerà sempre più, e si armerà e si inquadrerà con sempre maggiore perfezione. In tal modo la classe borghese si difende: armando i suoi giovani figli, assoldando i suoi sostenitori ai quali, oltre il soldo largisce ra­zioni abbondanti di idealismo patriottico per eterizzarli nel combattimento antiproletario. Sarebbe stolto pensare che i si­gnori Ansaldo, Pirelli, Perrone e compagnia muovessero di per­sona alla battaglia. Gli stati maggiori non devono scendere nella trincea.

Ma dinanzi al grande interrogativo che è l'esercito per­manente, ed alla dubbia fedeltà che può ancora destare la regia guardia, eroica contro le folle inermi, ma chissà quanto eroica contro le mi­tragliatrici delle guardie rosse, è urgente e utile per la classe borghese ir­reggimentare l'elemento intellettuale piccolo borghese ancora aggrappato alle tradizioni, gli ufficiali, la parte incosciente del proletariato agrario e dei piccoli proprietari e armarli, e gettarli risolutamente contro le masse operaie comu­niste.

Oggi, dunque, il programma dei fasci è divenuto precipua­mente un pro­gramma di politica interna. Esso raccoglie non soltanto le vecchie adesioni ma le nuovissime di quanti alla guerra non parteciparono.

Un organo fascista ammoniva perfino D'Annunzio, tempo addietro, a non mettersi in conflitto con le truppe regolari nei giorni che precedettero la liquidazione militare del problema fiumano, e ciò per non creare nuovi mo­tivi di sedizioni nell'esercito, e perché premeva al fascismo che D'Annunzio ve­nisse in Italia a mettersi a capo dei fasci per la importante bat­taglia contro il bolscevismo. A questa necessità ogni altra dove­va essere subordinata. Al­cuni esponenti del movimento dannun­ziano confessarono il proprio "schifo" per l'opera dei fascisti italiani. Dissero che le intenzioni dei legionari erano ben più alte ed ideali che non fossero quelle diuturnamente affermate dai fa­scisti nell'interno d'Italia.

Gli uni e gli altri, se credono, si mettano d'ac­cordo. Può darsi che i primi, indispettiti dalla con­clusione, per essi affatto soddisfacente, della commedia fiumana intendano momentaneamente spo­stare l'obiettivo della loro azio­ne; e di ciò sarebbero conferma, oltreché molte notizie giunteci tacitamente, alcuni scritti di legionari nei quali si prevede che "il trionfo del regio governo è segnato di tale vergogna e di tanto delitto da autorizzare da parte nostra ogni più violenta vendetta". In tal caso non sappiamo fino a qual punto i fascisti potrebbero seguire i dannunziani nei disegni rivoluzionari, essi che si prefiggono di essere elemento... di ordine. Ma già ve­diamo i legionari far causa comune con i fascisti nelle varie im­prese contro il proletariato ed i suoi istituti, ciò che avvalora il nostro con­vincimento - basato su profonde ragioni di principio - che la lotta della clas­se dominante contro i lavoratori comu­nisti unisce tutte le ideologie e gli in­teressi borghesi per l'unica sola comune battaglia.

Il fascismo non è soltanto fenomeno italiano. Abbiamo detto che questa parola, la quale interpreta un concetto programma­tico, è stata creata da noi ed adottata dai componenti i fasci che la trovarono grezza ma buona; così come noi ci appropriammo della parola disfattismo coniata per noi e contro di noi e che trovammo eccellente per indicare il nostro punto di vista nel periodo bellico.

Ma il programma fascista accompagna la rivoluzione prole­taria ove questa abbia iniziato il suo periodo: è il programma d'azione della borghe­sia; è la difesa istintiva e assoldata della classe che sta per essere spodestata. Se la rivoluzione non trionfa per il proletariato, il programma che noi ita­liani chiamiamo fa­scista allarga il suo campo di sviluppo: diventa potere; guida, in secondo piano, il potere; esercita il terrore bianco, la vendetta con­tro i vinti. Forse la parola fascismo precede il suo mutarsi in guardia bianca: ma il programma che esso oggi assolve rimarrà identico, perché storicamen­te esso non può svolgere un pro­gramma diverso.

Possiamo inseguire il fascismo sul suo stesso terreno? Dob­biamo accet­tare battaglia contro il fascismo con le medesime armi che esso impugna?

Noi diciamo che ciò non solo è possibile ma è inevitabile.

Il problema che il fascismo ci impone è, invece, un altro. Quello di pre­parare le organizzazioni di combattimento.

È vero: oggi la lotta per il proletariato ed i fascisti è una lotta impari. Dinanzi alla violenza rivolta fino alle conseguenze estreme, la forza prolet­aria è una ben triste ironia.

Piuttosto concordiamo, fino a quando ciò sarà possibile ed in senso relati­vo, che il proletariato non debba farsi trascinare ad azioni sepa­rate nelle quali, senza una sua specifica organizzazione, sarà il solo ad essere colpito; ma approntare mezzi ed accettare una di­sciplina i quali, uniti alla forza che proviene dalla sua potenza sociale, eserciterà op­portunamente in un momento prossimo o lontano, contro il nemico destro ed attento. Economia di sforzi, dunque, ed organizzazione solida e disciplina di ferro.

Non con­sumare nelle piccole azioni separate le grandi riserve per la battaglia decisiva.

Organizzazione e disciplina.

Il Partito Comunista d'Italia è nato, oltreché per ragioni teo­riche, stori­che e tattiche, per la organizzazione e la disciplina delle masse lavoratrici comuniste per portarle al combattimento armato con tutte le probabilità di successo.

 

 

Note:


 

1. Vedi più avanti "Il movimento dannunziano".

 

 

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