Introduzione

L’incessante battaglia teorica alla quale il nostro partito non è mai venuto meno in tutto l’arco della sua esistenza consiste anche nell’esporre con la massima chiarez- za il fine che la storia ci impone – e cioè la vittoria su scala mondiale del comu- nismo, attraverso la distruzione violenta della società borghese e del suo dominio sui mezzi e sulle forme di produzione e di circolazione delle merci. È lo sviluppo stesso dell’economia e della società borghese a imporre che questo processo vio- lento si attui su scala internazionale, come già chiaramente espresso dalla nascita del programma del comunismo scientifico (Manifesto del partito comunista, 1848) e della prima organizzazione mondiale del proletariato (Associazione Internazio- nale degli operai, o I Internazionale, 1864). Dopo tale atto violento, è indispensa- bile che venga esercitato un controllo rigoroso su tutte le forme sociali – di forza, di ideologia, di economia – entro le quali per un numero sufficiente di anni, o di generazioni, dovranno svilupparsi i nuovi rapporti tra le classi, fino alla loro scom- parsa. Questo periodo fu chiamato col nome (che noi rivendichiamo con orgoglio, come elemento qualificante della nostra azione) di dittatura del proletariato. Du- rante questa fase cruciale, le misure di carattere economico dovranno giungere alla drastica riduzione della giornata di lavoro ed alla fine della condizione per la quale il lavoro umano è determinato dalla necessità (ciò che oggi significa “necessità di campare”, di lavorare sotto le condizioni dettate dal Capitale) – cioè alla fine della società divisa in classi. Solo allora “ha inizio lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a se stesso [...] il vero regno della libertà”1.

Noi riconosciamo la società comunista da questi presupposti: da essi, infatti, consegue la scomparsa dell’economia di mercato in tutte le sue forme (denaro, valore di scambio delle merci, banche, rendite, profitto, salario): un’economia che mantenga nel proprio tessuto anche una sola (se mai fosse possibile, e non lo è) di queste categorie, non può essere comunista, perché tradisce, nella sua struttura, un rapporto di dominio di classe basato sullo sfruttamento della forza-lavoro per la produzione di plusvalore. Al contrario, è un’economia (e dunque una società) pienamente capitalistica – anche da un punto di vista sovrastrutturale, ideologico. Contro il comunismo, si erge un nemico che non è solo armato fino ai denti di mezzi di polizia e di controllo militare. Vi è, assieme e accanto a ciò, un potente apparato ideologico che, mentre disorienta le masse proletarie e cerca di impe- dirne la riorganizzazione politica, costituisce non da oggi il più sicuro sistema di protezione dell’apparato borghese. Celando agli occhi delle masse sfruttate i veri termini del conflitto sociale, questa idra a molte teste (le teste del riformismo, dell’opportunismo, del pacifismo sociale, dell’immediatismo, del sindacalismo, ecc.) si è storicamente proposta come l’alternativa dialettica al fascismo (alla vio- lenza esplicita della dittatura borghese), ma sempre con la stessa identica funzio- ne. Essa ha preso il nome di democrazia (l’inganno secondo il quale gli sfruttati possono realizzare i propri “diritti” nella fabbrica, negli organismi amministrativi, nello Stato) nei paesi a più antico sviluppo capitalistico, e di stalinismo in quelli variamente legati alla pratica economica, sociale e politica realizzata brutalmente a partire dalla metà degli anni Venti dello scorso secolo in Russia: di qui, questo nemico di classe del comunismo si è inoculato come dottrina di controllo sociale in tutti quei partiti comunisti europei che, benché formatisi nel primo dopoguerra sull’onda del vittorioso Ottobre rosso, vergognosamente passarono, nel breve vol- gere di un decennio, armi e bagagli al fianco delle borghesie imperialiste.

È precisamente di questo secondo aspetto, che per comodità definiamo “stalinismo”, che ci dobbiamo occupare. E ciò non solo per l’indubbio interesse che questo argomento deve avere nella formazione e preparazione dei militanti rivo- luzionari, ma anche e soprattutto perché esso, nelle multiformi varianti storiche che lo animano, si ripresenterà necessariamente in modo virulento non appena la tensione rivoluzionaria internazionale riprenderà a crescere – cosa che i nostri studi sul corso del capitalismo mostrano non solo ineluttabile, ma non lontana. Rinunciare quindi fin d’ora ad aggiornarne un bilancio, sulla falsariga di quanto il nostro partito non ha mai cessato di fare negli ultimi ottanta anni in tutti i campi della lotta contro prassi e ideologie nemiche, sarebbe condannare l’organizzazione rivoluzionaria, e con essa – nuovamente – l’intero proletariato, a un nuovo, cata- strofico fallimento. La critica che abbiamo rivolto, fin dal suo nascere, allo “sta- linismo” si sviluppa dunque sul piano della storia e della politica, certamente non su quello degli individui o dei “capi”. Essa si deve basare sul rapporto di forza tra classi sociali e non può cedere di fronte alle tentazioni ideologiche democratiche, di cui sono andati sempre infetti i portavoce occidentali della piccola borghesia “di sinistra”, che menano scandalo per le “libertà violate” nella Russia stalinista, ma tacciono sugli orrori dell’intero sviluppo della storia del capitalismo.

Andrà dunque ben precisato, e lo ribadiremo spesso nel corso della presente tratta- zione, che noi usiamo il termine “stalinismo” ben consapevoli della sua inefficacia e ambiguità nel descrivere fenomeni radicati nella storia della lotta di classe e non frutto dell’agire di individui, come potrebbe far intendere il termine: ma la lingua è strettamente legata al modo di produzione, ne è diretta emanazione ideologica, e di essa siamo obbligati a servirci, pur con tutte le sue limitazioni. Sia ben chiaro dunque che, come Marx ebbe a dichiarare “Io non sono marxista” (intendendo dire che la scienza della rivoluzione non è prodotto del pensiero e dell’azione di un sin- golo), così non fu prodotto del pensiero e dell’azione di un singolo la prassi della controrivoluzione: tanto meno fu manifestazione di questa o quella “brama di po- tere” o “follia cieca”, o della “rivoluzione che divora i suoi figli” – tutte miserevoli amenità con cui l’ideologia borghese si diverte a dare una spiegazione di fatti che non può e non potrà mai comprendere. In quanto materialisti, noi respingiamo la concezione borghese dell’individuo come “facitore di storia”2.

Pertanto noi rifiutiamo sia l’ipocrita approccio borghese che vede nel fenomeno storico detto “stalinismo” unicamente forme di violenza e prevaricazione (dimen- ticandosi che, finché questa violenza e prevaricazione era diretta contro la vecchia guardia bolscevica, nessun ideologo borghese ha mai fiatato o, quando essa fu rivolta contro uno dei due schieramenti imperialistici in guerra, essa era bene ac- cetta e celebrata), sia la reazione piccolo-borghese (anarchica, democratica, spon- taneista) che identifica “stalinismo” e “comunismo”, portando un ulteriore attacco ai concetti-chiave del comunismo: il partito, la violenza rivoluzionaria, il terrore, la dittatura del proletariato diretta dal partito... Oggi, proprio l’ipocrisia e l’impo- tenza teorica della borghesia (in quanto classe da tempo superflua) la condannano alla ripetizione vuota e ossessiva dell’equazione “comunismo=stalinismo”: così facendo, i suoi portavoce non fanno altro che dichiarare di essere davvero... gli ultimi stalinisti circolanti. Anche in ciò, nell’aver cioè offerto nuove occasioni di falsificazione e mistificazione ai nemici storici del comunismo, lo “stalinismo” ha svolto opera profondamente controrivoluzionaria.

 

Alcune false soluzioni

Lo stalinismo rappresenta, senza peraltro esaurirne le caratteristiche, ciò che abbia- mo chiamato la “terza ondata dell’opportunismo”, dopo la “prima”, dominata dal riformismo socialdemocratico che permea i partiti socialisti europei all’indomani della sconfitta della Comune di Parigi, e dopo la “seconda” che – come corollario e conseguenza della prima – porta alla generale, vergognosa adesione socialista (con pochissime eccezioni) alla Prima guerra mondiale e al pieno appoggio alle borghesie nazionali in lotta tra loro, spezzando così qualsiasi forma di legame internazionalista proletario.

 

Gli orrori della guerra, la miseria che ne seguì, il successo della Rivoluzione russa, fecero sperare per alcuni anni che si potesse giungere alla costituzione di quell’or- ganismo politico internazionale in grado di mettersi alla guida delle lotte per la con- quista del potere. Gli insuccessi che ne seguirono (in Ungheria nel 1919, in Italia nel 1919-20, in Germania nel 1918-19, nel 1921 e infine nel 1923), per gravi che fossero, non avrebbero dovuto comportare l’abbandono dei principi teorici che si erano mes- si a punto nei primi due Congressi dell’Internazionale comunista a Mosca (1919 e 1920). Tutti i partiti avrebbero certamente subito, da quelle sconfitte, un contraccolpo sul piano dell’azione e su quello della tattica su scala generale, ma in nessun modo si doveva rinunciare a difendere quei principi, salvati i quali la ripresa – che si sapeva certa con l’apparire delle nuove crisi economiche e sociali che già si presentavano nel vicino orizzonte – sarebbe stata resa più facile e più rapida. Questa era la no- stra ferma posizione, la posizione della Sinistra comunista, vigorosamente difesa nei Congressi e sulla stampa in Italia, e in una dura battaglia in campo internazionale, tra il 1924 e il 1926 a Mosca. L’abdicazione a quei principi e a quelle posizioni ha significato invece l’apertura di un tremendo ciclo di sofferenze per il proletariato internazionale, che è dovuto passare prima attraverso gli orrori del secondo macello mondiale, poi attraverso la sferza della ricostruzione capitalistica del secondo dopo- guerra e, infine, attraverso l’approfondirsi della nuova crisi economica e sociale en- tro cui sta avvitandosi oggi il modo di produzione capitalistico, senza poter contare sulla propria organizzazione mondiale di combattimento.

Ciò che si definisce “stalinismo” si stava enucleando in Russia proprio in quegli anni.

Gli storici borghesi vedono in quel periodo l’inizio di una dittatura personale, fon- data sull’inganno e sulla furbizia di un uomo – Stalin appunto – che “seppe prendere il potere” approfittando delle difficoltà del partito e della “mancanza di democrazia” interna, ciò che rendeva dunque possibile una “svolta autoritaria”. Lo stesso Trotsky, nella biografia dedicata a Stalin, non individua sempre in modo lucido il processo degenerativo in atto nel partito come una conseguenza della crisi internazionale del movimento comunista, e preferisce attribuirla, da profondo conoscitore della storia del partito bolscevico, a fattori soprattutto interni: “I tre anni di guerra civile avevano impresso sul sistema sovietico un marchio indelebile, a causa dell’abitudine presa da molti suoi membri di comandare ottenendo una sottomissione incondizionata […] Il partito era diventato una massa plastica, pronta a subire ogni pressione; era fatto di giovani capaci solo di dir di sì ai politici di mestiere che li governavano. Ciò va ricordato perché è necessario a spiegarci come la macchina burocratica del partito e del governo potè vincere il ‘trotzkismo’ o, in altre parole, il bolscevismo dei tempi di Lenin”3. Questa “degenerazione burocratica” della rivoluzione sarebbe dovuta essere ostacolata, nel pensiero del grande rivoluzionario, da banali misure di democrazia in- terna nel partito, nella convinzione che il processo fosse legato a un processo politico interno al partito più che a una trasformazione in atto nei rapporti di classe in Russia e in quelli internazionali.

 

La Rivoluzione russa

La questione va analizzata ricordando che la Rivoluzione russa non fu una rivoluzione comunista in senso stretto. Lo fu, naturalmente, sul piano politico, in quanto il par- tito bolscevico che prese il potere era un partito marxista e teoricamente maturo: un processo di maturazione iniziato negli anni Ottanta del XIX secolo nella lotta contro lo zarismo e a stretto contatto con il socialismo europeo, e terminato poi, attraverso una serie di crisi organizzative e di battaglie teoriche, con il ritorno di Lenin in Russia e la presentazione delle “Tesi di Aprile”. Ma la Rivoluzione russa non poteva certo essere una rivoluzione comunista “completa” sul piano economico e sociale, a causa dell’enorme arretratezza dell’impero zarista: da questo punto di vista, la Rivoluzione russa doveva accollarsi tutti i compiti di una rivoluzione borghese. I proprietari fondia- ri dovevano essere espropriati, il feudalesimo eliminato, la grande industria moderna doveva cominciare a svilupparsi in modo massiccio: queste misure economiche non avevano nulla di socialista, ma implicavano, sotto la direzione del partito bolscevico, un’alleanza stretta tra il proletariato industriale concentrato in alcune città e le grandi masse di contadini poveri che erano prive della terra e che solo eventi storici di enorme portata avrebbero potuto spingere alla rivolta. Un tale evento, capace di catalizzare l’energia delle masse contadine, fu lo scatenarsi della guerra mondiale.

Dopo la presa del potere da parte del partito bolscevico, i principali problemi sul tap- peto erano:

  1. sul piano militare, mantenere il potere contro la reazione interna e contro gli eser- citi occidentali schierati alle frontiere e pronti ad entrare in azione (di ciò si occupò Trotzky, con l’organizzazione dell’Armata rossa);
  2. sul piano economico, attuare alcune immediate misure per riprendere la produzio- ne nelle fabbriche e garantire in qualche modo la circolazione delle merci (di ciò si occupò Lenin, varando una politica economica che doveva garantire la libera circolazione di merci e rinsaldare l’alleanza con i contadini poveri mediante la nazionalizzazione della terra);
  3. sul piano politico, stringere i tempi per saldare i legami con le masse operaie europee, soprattutto tedesche, per assicurarsi qualche anno di resistenza contro una ondata con- trorivoluzionaria interna – tanto nella società quanto nell’economia – che non poteva tardare a manifestarsi (e di ciò si sarebbe dovuta occupare una rinata Internazionale).

In conclusione, si può dire che al termine del primo triennio dalla Rivoluzione di Ot- tobre, nessun marxista degno di tal nome si poneva il problema di “costruire il socia- lismo”. L’unica urgente questione all’interno, relativa ai compiti del partito in quella fase storica, era posta dai fatti storici: combattere per non perdere il potere conquistato.

 

La ricostruzione internazionale

Un compito enorme attendeva invece il partito bolscevico all’esterno: riorganizzare le fila del proletariato europeo decimate dalla guerra e sconvolte dal tradimento della socialdemocrazia internazionale, schieratasi con la classe borghese a difesa dei sacri confini delle patrie.

 

Moti contro la guerra, casi di disfattismo rivoluzionario sui vari fronti, tentativi di contrastare l’alleanza tra le federazioni socialiste interventiste della II Internazionale e le grandi borghesie europee non erano certo mancati in tutti i paesi d’Europa, e si poteva concretamente immaginare una poderosa ripresa del movimento rivoluzio- nario nell’immediato dopoguerra: purtroppo, un tale movimento non può nascere solo per stanchezza, fame ed esasperazione, ma necessita della difesa della linea continua di classe, che il tradimento del 1914 aveva spezzato quasi ovunque.

Nondimeno, la pressione storica produsse una serie di vaste agitazioni. In Germania, il movimento spartachista condusse, purtroppo tardivamente (29 dicembre 1918), alla costituzione del Partito comunista (KPD) – un ritardo che fu pagato a carissi- mo prezzo con la decapitazione dei suoi migliori teorici e condottieri (Luxemburg, Liebknecht) e con la sconfitta del movimento dei consigli. In Italia, il “biennio ros- so” naufragò nell’orgia demoparlamentare e cadde presto preda di quello sperimen- talismo volontarista che condurrà alla folle idea (Gramsci) che, attraverso i consigli di fabbrica, si potesse pervenire al controllo della produzione in senso socialista senza la preventiva conquista del potere politico e militare. Inoltre, i brevi successi ottenuti in Baviera e in Ungheria verranno stroncati, quasi sul nascere, dalla violenta reazione borghese, mentre le grandi organizzazioni proletarie di paesi come Francia e Inghilterra resteranno preda, nonostante isolati tentativi, dell’illusione della “vitto- ria” e della “pace” democratica.

Sull’onda del trionfo dell’ottobre 1917, a partire dall’anno successivo iniziano a for- marsi ovunque partiti comunisti che aderiranno prontamente all’Internazionale. Nel 1918, si organizzano i partiti ungherese e polacco; nel 1919, seguono quelli bulgaro e jugoslavo; nel 1920 i partiti tedesco, francese e turco; nel 1921, l’italiano, l’ingle- se, il romeno e lo spagnolo; ancora nel 1922, quello giapponese. È una lunga ondata di entusiasmo che percorre le file del proletariato mondiale, ma è anche il frutto di molta improvvisazione e volontarismo, oltre che di tentazione di scendere a qualsia- si forma di compromesso con la socialdemocrazia piccolo borghese, pur di cercare di giungere a quello sbocco rivoluzionario che pareva allora a tutti inevitabile.

Sei giorni dopo la presentazione delle sue “Tesi di Aprile”, volte a dare un deciso colpo di timone alla politica interna del partito, Lenin scrisse l’articolo “I compiti del proletariato nella nostra rivoluzione”4: si tratta di un’analisi della situazione in- ternazionale, e costituisce il primo mattone nel processo di formazione della Terza internazionale. “Al proletariato russo è stato dato molto […] ma da chi molto ha ri- cevuto, molto si chiede”, scrive Lenin, mostrando ancora una volta lo stretto legame che univa Russia ed Europa e incalzando continuamente le sinistre dei vari paesi. “Bisogna rompere senza indugio con la Seconda Internazionale […] Spetta proprio a noi, e proprio in questo momento, di fondare una nuova internazionale rivoluzio- naria […] il nostro partito non deve ‘aspettare’, ma fondare subito la Terza interna- zionale”. Meglio restare soli come Liebknecht (“perché questo significa restare con il proletariato rivoluzionario”) che fondersi con i partiti di centro e di destra.

Poi, procede a fare una sorta di appello delle forze che, in tutta Europa, sono rimaste fedeli al marxismo nonostante tutto, enucleando quella che considera “l’Internaziona- le degli internazionalisti di fatto”. E afferma: “Questi socialisti sono ancora pochi. Ma non si tratta di essere in molti, bensí di esprimere fedelmente le idee e la politica del proletariato realmente rivoluzionario. L’essenziale non è di proclamare l’internazio- nalismo, ma di saper essere, anche nei momenti più difficili, internazionalisti di fatto”. Questo appello così appassionato da parte di colui che, tra i pochissimi marxisti vi- venti, aveva saputo raccogliere le bandiere della lotta rivoluzionaria gettate nel fango da chi ne aveva tradito e rinnegato la tradizione, non può farci perdere di vista il fatto che la fretta con la quale si cercò di creare un reale movimento internazionale, nel fuoco delle lotte, prima ancora che i punti programmatici fondamentali fossero formulati e spiegati nei dettagli, doveva costituire la causa prima della sua non lon- tana rovina. Poche voci (prima fra queste, quella della Sinistra comunista “italiana”) ammoniranno dei pericoli cui va incontro un’organizzazione che nasca solo sull’onda dell’entusiasmo. “I mesi e gli anni avvenire dimostreranno agli stessi bolscevichi […] che nulla avrebbe mai potuto compiere il miracolo di allineare, per esempio, gli IWW americani, gli shop stewards britannici o, sul piano politico, i sindacalisti francesi […] sulle posizioni classiche ed invarianti del marxismo”5. Al II Congresso dell’Interna- zionale comunista (1920), il rappresentante della Sinistra farà inserire, nelle “Tesi sul- le condizioni di ammissione all’Internazionale comunista”, un punto molto restrittivo: “Gli iscritti al partito che respingono per principio le condizioni e le tesi formulate dall’Internazionale Comunista devono essere espulsi” (Tesi 21)6. Non bastò, perché i vasti movimenti che scuotevano allora l’Europa trascinavano verso il comunismo schiere di indecisi: nessuno di questi risponderà all’appello quando, pochi anni più tardi, il vento cambierà direzione.

 

Primi sbandamenti internazionali

Dunque, sotto l’incalzare del movimento rivoluzionario in Russia prima, e poi in Europa, si giunse con queste forze alla costituzione dell’Internazionale comunista o Terza internazionale, nel 1919.

Come nacque frettolosamente la Terza internazionale, altrettanto frettolosamente si formarono i partiti comunisti. Esaurita la spinta rivoluzionaria entro il 1921 in Europa, l’Internazionale pensò di poter mantenere le posizioni precedenti mediante espedienti tattici che consentissero di superare la fase sfavorevole nei singoli paesi. Il primo di tali espedienti fu una sterzata verso i partiti socialisti, da cui tutti i neo- nati partiti comunisti si erano appena separati. La politica dell’Internazionale mirò a riguadagnare le masse proletarie attraverso fusioni di partiti o di gruppi di partiti (fronte unico politico) e a partecipare a tutte le occasioni con le quali si potesse sviluppare una politica comune con partiti socialdemocratici (quello che allora si chiamava noyautage). Su questo punto la Sinistra comunista “italiana” si oppose anche a Lenin, rilevando come si preferisse orientarsi verso la destra per ragioni molto dubbie, di “conquista delle masse”, guadagnando qualche voto parlamentare grazie alla fusione con elementi non rivoluzionari e perdendo certamente seguito nei proletari più avanzati, saldi su posizioni di sinistra. In seguito, “ripetutamente [Lenin] scrisse di aver errato al III Congresso [dell’Internazionale], nel picchiare più sulla sinistra che sulla destra, pericolo ancora per lui presente. […] Risulta da testimonianza indiscutibile che non fosse favorevole alla fusione col partito massi- malista preconizzata dal IV Congresso”7.

Sullo stesso filone tattico, fu preparato in modo sciagurato un tentativo rivoluzio- nario in Germania nel 1923, agitando tra le masse la parola del “governo operaio”. Era chiaro che tale formula, che sostituiva quella storica di dittatura del proletaria- to, voleva significare avanzare la possibilità di “potere nelle fabbriche” o di solu- zioni pacifiche, democratiche, elettorali, e che l’abbandono della nostra posizione classica era una conseguenza logica dell’unione con la sinistra socialdemocratica. Di cedimento in cedimento, si giunse a nuove forme di organizzazione (la cosid- detta “bolscevizzazione”) che, importando la formula russa del sistema di cellule di partito legate al posto di lavoro, eliminava quella consolidata dell’organizzazione per sezioni territoriali. Infine, si avanzarono nuove formulazioni tattiche in base alle quali, non presentandosi più attuale la conquista del potere, si dovevano fa- vorire governi “di sinistra” nei diversi paesi, ritenendo che in un regime di libertà democratica un “governo amico” potesse essere la condizione favorevole a una ripresa rivoluzionaria. Al contrario, la tesi marxista era (è e sarà) che la ripresa può aversi o non aversi indipendentemente da questo o quel regime borghese, perché la vera e unica condizione per essa è che il partito comunista mantenga costante e intatta la propria indipendenza politica e organizzativa di fronte a tutti gli altri, si rifacciano più o meno esplicitamente al movimento operaio.

 

La svolta: Germania 1923

Nella storia del movimento rivoluzionario, la Germania del 1923 rappresenta l’ultima occasione, eccezionalmente favorevole, per la conquista del potere. La sconfitta, subita praticamente senza combattere, creò nelle masse quello stato di sfiducia negli organi direttivi che segnerà il crollo dell’organizzazione tedesca e inaugurerà una fase di aperti contrasti nell’Internazionale e all’interno del partito russo, spianando infine la strada allo stalinismo. Con essa si apre, di fatto, la tre- menda ondata controrivoluzionaria che si è abbattuta sul proletariato fino ad oggi. La spettacolare caduta del marco (nell’aprile 1922, si cambiava un dollaro contro 1000 marchi; nel settembre, contro 60 milioni), l’esplosione sociale nelle zone oc- cupate dalla Francia dopo il trattato di Versailles, i grandi scioperi spontanei, l’ab- bandono dei sindacati accusati, a buon diritto, di essersi venduti al padrone, sono elementi di una crisi economica e sociale profonda, che richiese un intervento non solo del partito tedesco, ma degli organi centrali dell’Internazionale. Indecisi su tutto, dal significato da attribuire alla situazione (rivoluzionaria o no?) al senso da dare alla formula del “governo operaio” (dittatura o elezioni?) e alla tattica da seguire (accordo con i partiti di centro o azione autonoma?), i massimi dirigenti giunsero alla conclusione che si doveva cercare un’alleanza con la piccola borghe- sia per sconfiggere il fascismo (Radek), che comunque bisognava essere pronti ad agire perché i tempi erano maturi (Brandler) e che anzi si poteva immaginare che la scadenza si ponesse entro poche settimane (Zinoviev). Al momento decisivo, naturalmente, andò in frantumi l’alleanza con i socialdemocratici, che sparirono dalla scena lasciando solo nella lotta il partito comunista. Valutando negativamen- te questa ritirata, che avrebbe fatto perdere l’appoggio delle masse (?), si diede semplicemente il segnale di ritirarsi senza sparare un colpo.

L’esito disastroso dell’Ottobre tedesco scatenò nell’Internazionale la “caccia al colpevole”, inaugurando quello che, di lì a pochi anni, doveva diventare un me- todo: quello dell’autocritica forzata, delle confessioni e delle delazioni. La que- stione tedesca, che occupò naturalmente larga parte del V Congresso dell’Interna- zionale, tenutosi qualche mese dopo il fallimento, vide la formazione del sistema delle frazioni e delle relative alleanze. Contro Trotzky, che alla fine del 1923 era intervenuto con tutto il peso della propria autorità sulle gravi questioni politiche ed economiche sorte nel partito russo, si scatenò una campagna denigratoria che troverà eco in tutta la stampa comunista internazionale ed avrà in Stalin, alcuni anni più tardi, il suo esecutore testamentario. Ad essa, Trotzky rispose nelle mira- bili pagine delle Lezioni d’Ottobre e del Corso Nuovo, trovando pieno appoggio solo nella Sinistra comunista “italiana”. È maturato il tempo, ormai, in cui la “que- stione tedesca” si trasforma, ripiegando inesorabilmente nella questione russa.

 

La questione russa

La sconfitta della Rivoluzione tedesca, aprendo una gravissima crisi internazionale, con- dannò all’isolamento la giovane repubblica dei Soviet. Questa condizione, già presa in esame dai bolscevichi come la peggiore possibile, avrebbe significato l’impossibilità per la Russia di far fronte a lungo all’accerchiamento (non solo degli eserciti, ma anche e soprattutto delle merci e dei capitali occidentali). Per Lenin, si poteva resistere forse vent’anni; per Trotzky, cinquanta; per nessuno si sarebbe potuto “costruire socialismo” da soli, tanto più in un paese arretrato e disastrato dalla guerra mondiale e poi da quella civile. Il destino della Russia sovietica era legato quindi, da tutti e concordemente, all’esito della rivoluzione nell’Europa più progredita. Come abbiamo visto, il ritardo nella formazione delle avanguardie rivoluzionarie, le loro conseguenti gravi esitazioni teoriche (e quindi tattiche), la forte presa che ancora esercitava l’ideologia piccolo- borghese opportunista su ampi settori del proletariato, il seguito che potevano vantare i sindacati gialli, sempre pronti a vendere le lotte in cambio di qualche concessione, l’eterno inganno democratico, l’incomprensione della natura e delle funzioni del fa- scismo e quindi il ricorso a metodi di lotta scorretti, tutto ciò contribuì a spezzare i legami tra Europa e Russia sovietica.

In Russia, erano intanto emerse alcune gravissime crisi sul piano politico come su quello economico. A partire dal varo della NEP, che era una evidente quanto obbli- gata “via al capitalismo” e una concessione pericolosa agli elementi borghesi pie- namente e liberamente operanti soprattutto nel campo della piccola produzione e dello scambio, il partito si interrogò sul modo con cui si potesse far fronte ai mutati e sfavorevoli rapporti con le classi medie, senza rinunciare al programma comunista. Dopo la sconfitta della Rivoluzione tedesca e allontanandosi la possibilità di saldare la Rivoluzione russa con quella europea, Trotsky individuò (nelle vigorose pagine del Corso Nuovo, del 1924, e in una serie di articoli scritti tra il 1923 e il 1925) il problema centrale della politica economica del partito nella necessità impellente di mantenere un equilibrio tra industria e agricoltura, tra città e campagna. Era proprio dall’assenza di tale equilibrio che traeva linfa vitale la borghesia intermediatrice, mercantile e piccolo-industriale. Il pericolo andava limitato e circoscritto per mezzo della riorganizzazione della grande industria statale, in modo elastico e senza il ricorso a una pianificazione forzata. L’analisi era certamente corretta, ma alla lunga destinata a soccombere: si poteva sconfiggere gradualmente la pressione economica e di classe della piccola borghesia (mercantile, urbana e rurale) favorendo lo svilup- po e la crescita del grande capitale nazionale, ma questo alla fine avrebbe imposto i propri diritti assumendo ben altra veste che quella di un impossibile “socialismo economico”.

Sulle discussioni che si svilupparono in quegli anni nella Russia sovietica a proposito dei pericoli incombenti e che riflettevano le nuove forme della lotta di classe nel partito, la Sinistra comunista “italiana” si espresse con lucidità fin dal 1926, nelle sue “Tesi di Lione”. In esse, la Sinistra denunciava il “piano antirivoluzionario che conta sui fattori interni dei contadini ricchi e della nuova borghesia e piccola borghesia, e sui fattori esterni delle potenze imperialistiche”. E così continuava: “Sia che questo piano prenda la forma di un’aggressione interna ed esterna, sia di un progressivo sabotaggio ed influenzamento della vita sociale e statale russa, per costringerla ad una involuzione progressiva e ad una deproletarizzazione dei suoi caratteri”, invo- cando quindi la necessità della “stretta collaborazione e del contributo di tutti i partiti dell’Internazionale” per restituire alla Russia ciò che, negli anni precedenti, la Russia aveva dato all’Europa in termini di energia rivoluzionaria8.

 

Il III Congresso del PC d’Italia, che si tenne per l’appunto a Lione, tra il 20 e il 26 gennaio 1926, rappresenta uno dei momenti più alti e drammatici della storia del movimento operaio internazionale. Lo scontro tra la Sinistra e il Centro del partito riassume tutto il processo involutivo che aveva colpito la Russia sovietica e l’Inter- nazionale e che di qui si era riverberato sulla situazione italiana. Da anni, ormai, la direzione centrale del partito adottava, nei confronti della critica di sinistra, la poli- tica delle sanzioni disciplinari, delle manovre di corridoio, delle minacce, secondo una prassi che di lì a poco si sarebbe fatta insopportabile. Le reazioni della Sinistra certo non si basavano su invocazioni a una illusoria “democrazia interna”: “La soluzione come non sta in una esasperazione a vuoto dell’autoritarismo gerarchico […] così non sta in una applicazione sistematica dei princìpi della democrazia formale […]. I partiti comunisti devono realizzare un centralismo organico che, col massimo compatibile di consultazione della base, assicuri la spontanea eliminazione di ogni aggruppamento tendente a differenziarsi. Questo non si ottiene con prescrizioni ge- rarchiche formali e meccaniche ma […] colla giusta politica rivoluzionaria”9. Dopo aver rilevato i gravi cedimenti di natura tattica e organizzativa, veniva affrontata la questione dei rapporti partito-classe e azione economica. In questo campo, l’anno prima (1925), il V Congresso dell’Internazionale aveva imposto la fusione dell’In- ternazionale sindacale rossa con l’odiata Internazionale sindacale di Amsterdam, che veniva da sempre “considerata e trattata non come un organismo delle masse prole- tarie ma come un organo politico controrivoluzionario della Società delle Nazioni. Ad un certo punto per considerazioni certo importanti, ma limitate soprattutto ad un progetto di utilizzazione del movimento sindacale inglese di sinistra, si è preconiz- zata la rinuncia alla Internazionale sindacale rossa e l’Unità sindacale internazionale con Amsterdam”10. Il risultato (prevedibile) era stato quello di disorientare ulterior- mente le masse proletarie, e gli effetti si sarebbero fatti sentire presto e in maniera catastrofica.

 

Inghilterra 1926

Dopo il fallimento degli accordi commerciali con l’Inghilterra nell’estate 1924, la Russia rivolse con maggiore attenzione lo sguardo alla formazione (aprile 1925) di un Comitato congiunto anglo-russo, creato allo scopo di promuovere l’unità del movi- mento sindacale internazionale, sulla base delle recenti direttive dell’Internazionale. Dopo alcuni anni nei quali si era ritenuto che la situazione sociale fosse ovunque favorevole allo scoppio rivoluzionario (si era anche varata, da parte dell’Esecutivo dell’Internazionale, la teoria dell’offensiva)11, con la sconfitta del moto rivoluzionario in Germania, era subentrata l’idea che il capitalismo stesse avviandosi a una fase di stabilizzazione economica e sociale. Per questa ragione, doveva essere potenziata al massimo la politica del fronte unico, non trascurando alcuna occasione per riguada- gnare il favore delle masse. In Inghilterra, le condizioni per una tale politica erano non solo favorevoli, ma, di fatto, già realizzate da tempo. Il Partito comunista inglese era sempre stato su posizioni di destra: unico in Europa, esso era nato non da una o più scissioni con i riformisti, ma da una serie di fusioni con elementi per lo più provenien- ti dal laburismo; al suo congresso nel 1924, si dichiarava che “il Partito comunista non attacca il Partito laburista. Il Partito comunista si sforza in ogni momento di fare del Partito laburista un utile organo dei lavoratori nella lotta contro il capitalismo […]

 

Il Partito comunista considera proprio dovere entrare nelle file del Partito laburista al fine di rafforzare gli elementi militanti e combattenti”12.

D’altra parte, l’Inghilterra poteva vantare una tradizione nel campo delle lotte economiche quale nessun altro paese in Europa aveva. Un certo modo di intendere il marxismo era vissuto, in molti distretti dell’isola a livello di base operaia, non come teoria ma come pratica attuale per l’organizzazione di circoli, di biblioteche, di lotte e di solidarietà di classe. Gruppi proletari molto combattivi, come gli shop stewards e gli anarco-sindacalisti, contribuivano a tenere alta la tensione sociale, sia pure in modo confuso e politicamente dubbio.

La pressione sindacale, e in particolare quella esercitata dal sindacato dei mina- tori, aveva ottenuto alcuni successi sul piano salariale13. Tuttavia, la proclama- zione dello sciopero generale il 3 maggio 1926 non cambiò molto le prospettive politiche del partito inglese, che avanzò le proprie “rivendicazioni”: nazionaliz- zazione delle miniere, controllo operaio, governo laburista. Nessun riferimento a una lotta esplicitamente rivolta alla presa del potere, nessuna indicazione di lotta autonoma, ma, al contrario, completa subordinazione al Partito laburista. Dal canto suo, l’Internazionale, due giorni dopo l’inizio dello sciopero (che, sarà bene ricordarlo, vide impegnati nella lotta cinque milioni di lavoratori esasperati e in qualche caso ben organizzati in autonomi comitati di lotta), sosteneva nei suoi appelli che si doveva “opporre il fronte unico della classe operaia […] Tutte le sezioni dell’Internazionale comunista proporranno ai socialdemocratici la crea- zione immediata di comitati d’azione unitari per sostenere la lotta dei lavoratori inglesi”14, dimostrando una volta di più che a nulla erano valse le lezioni dell’Un- gheria e della Germania, dove la ricerca dell’unità a tutti i costi con i partiti nemici aveva portato, inevitabilmente, alla catastrofe. Lo sciopero fu revocato dalle Trade Unions nove giorni dopo il suo inizio, senza che fosse ottenuto alcun accordo, benché avesse coinvolto, a seguito dei minatori, praticamente tutte le categorie di lavoratori, e proprio nel momento in cui nuovi, consistenti contingenti di operai stavano per entrare in lotta. Solo i minatori, che avevano rappresentato la punta di diamante del movimento, proseguirono lo sciopero ancora per qualche settimana, finendo poi per cedere le armi. Il grandioso sciopero inglese del 1926 che, secondo Trotzky, stava per iniziare “il passaggio del movimento delle masse ad una fase apertamente rivoluzionaria”15, terminava con una sconfitta gravissima per l’intero movimento europeo. Si chiudeva così un formidabile ciclo di lotte apertosi subito dopo la fine della guerra.

Il Comitato anglo-russo, creato per saldare l’azione dei sindacati di Russia e di Inghil- terra, non svolse altra azione se non quella di vincolarsi il più strettamente possibile al carrozzone delle Trade Unions, dichiaratamente sostenitrici dell’Internazionale sin- dacale gialla di Amsterdam, uno dei pilastri della borghesia “progressista” europea.

L’aver mantenuto un atteggiamento di aperta collaborazione con il Consiglio Gene- rale delle Trade Unions durante lo sciopero, proprio mentre queste si apprestavano apertamente a farlo fallire con l’intervento (anche poliziesco) dello Stato, servendosi proprio del Comitato come copertura del tradimento presso le masse operaie insorte, rappresenta il primo risultato di rilevanza mondiale della politica del compromesso col nemico che fu lo stalinismo. Difendendo a spada tratta la sua politica di difesa de- gli interessi russi e di alleanza con partiti nemici, Stalin illustrava la tattica del fronte unico, poche settimane dopo la fine dello sciopero, nel seguente modo: “Se i sindacati reazionari inglesi sono pronti a formare con i sindacati rivoluzionari del nostro pae- se una coalizione contro gli imperialismi contro-rivoluzionari del loro paese, perché non si dovrebbe approvare questo blocco?”, alla quale domanda Trotzky rispondeva: “Se dei ‘sindacati reazionari’ fossero capaci di lottare contro i loro imperialisti, non sarebbero reazionari”16.

Si concludevano così le lotte in Europa, e si aprivano invece i decenni di ripiegamento e di controrivoluzione. La politica delle “alleanze” col nemico si estendeva a tutto il pianeta, e si concretizzava in modo criminale nella questione cinese.

 

Cina 1926-27

La serie di rivolte di matrice contadina anti-imperiale che agitarono le acque del Cele- ste Impero nel XIX secolo proseguirono fino al nascere del XX. La rivolta dei Boxers (1899-1901) era animata da una forte componente xenofoba e popolare, causata da anni di soprusi da parte delle potenze occidentali. Nel frattempo, l’occupazione stra- niera favoriva la nascita delle prime strutture industriali e la concentrazione di masse proletarie nelle città costiere. Vero è che la borghesia cinese più rapace non si trovava alla direzione delle fabbriche (per lo più controllate da personale occidentale), ma piut- tosto nei centri di commercio, dove raccoglieva i frutti della depredazione congiunta con gli imperialisti europei, giapponesi e americani. Quando nel 1911 iniziarono nuovi movimenti sociali, questi mancavano di un vero fondo popolare, perché la borghesia, per bocca di Sun-Yat-Sen, aveva ormai cercato le vie del proprio sviluppo grazie a un’alleanza con le potenze straniere. Queste avrebbero fornito i capitali, la Cina forza- lavoro. Si vede chiaramente come questo “programma” abbia poi avuto successo – un successo garantito dagli ottanta anni di “comunismo” in salsa... cinese.

Per realizzare uno dei punti fondamentali del suo programma del 1923, quello dell’in- dipendenza nazionale, Sun-Yat-Sen si rivolse alla Russia e al Partito comunista cine- se. In Russia, esso avrebbe trovato fin dal 1924 orecchie molto sensibili nel nascente stalinismo; in Cina, si giungerà, l’anno successivo, all’alleanza tra il PCC e l’organo politico della borghesia (Kuomintang), in stretta aderenza con l’applicazione stalinia- na del concetto di “fronte unico”. È chiaro che la borghesia cinese aveva la primaria necessità di costruire qualcosa che funzionasse come stato unitario: aveva bisogno di un mercato interno, di un sistema protettivo contro l’invasione delle merci straniere e di un apparato repressivo che la difendesse da disordini sociali. Ciò che non era stato possibile all’impero alla metà del XIX secolo (“in otto anni le balle di cotoniere della borghesia britannica [hanno] portato l’impero più antico e solido del mondo alla vigilia di un sovvertimento sociale”, aveva scritto Marx nel 1850)17 doveva esserlo alla bor- ghesia. Ma a quali condizioni dal momento che altrettanto necessario all’imperialismo occidentale era mantenere la sua morsa sulla Cina?

Già durante le discussioni sulle “Tesi sulla questione nazionale e coloniale”, al II Con- gresso dell’Internazionale (1920)18, la borghesia cinese era stata bollata come partico- larmente vigliacca, pronta a tradire i suoi propri interessi in quanto classe nazionale, per accordarsi con il o con i paesi imperialisti più voraci. Si metteva perciò in guardia il proletariato e lo si esortava a organizzarsi in modo autonomo, per essere in grado di portare a termine la lotta contro il movimento borghese e democratico. “Portare a ter- mine”: cioè condurre senza pietà la lotta contro quei partiti che a esso si richiamavano, allo scopo non di realizzare i fini politici di quel movimento (l’assemblea costituente, la democrazia istituzionale, le libere elezioni), ma appunto di spazzarli via nel momen- to in cui fosse stato possibile prendere autonomamente e da soli il potere, per esercitare la propria dittatura di classe. I compiti principali che la storia metteva sul tappeto per la Cina erano l’indipendenza nazionale e la riforma agraria. Senza la prima, la Cina si sarebbe avviata ad essere un bottino inesauribile per l’imperialismo. Senza la seconda, nessuno sviluppo industriale avrebbe potuto aver luogo.

In quale modo si sarebbero fronteggiate le classi sociali davanti a questi problemi di enorme importanza? La casta imperiale avrebbe fatto fronte con il proprio apparato burocratico, con i feudatari e il clero per difendere privilegi millenari. La borghesia repubblicana avrebbe cercato di attuare una politica di compromesso a un tempo con i rivoluzionari e con la monarchia. La borghesia democratica rivoluzionaria, il cui esponente era Sun-Yat-Sen, avrebbe lottato per distruggere ogni traccia di feudalesi- mo adottando energiche misure nel campo agrario, fino alla nazionalizzazione delle terre. Ciò avrebbe significato non già “socialismo”, ma eliminazione della rendita as- soluta, lasciando in piedi la rendita differenziale19. Dunque, massima libertà di scambio commerciale delle terre, massimo adattamento allo sviluppo del capitalismo agrario. A fronte di tutto ciò, il proletariato già concentrato nelle concessioni straniere in alcune grandi città, doveva mantenere intatta la propria indipendenza di fronte alla borghesia democratica rivoluzionaria. Il suo compito sarebbe stato quello di prendere in mano i destini della rivoluzione democratica per spingerla fino alla dittatura esercitata, con l’appoggio delle masse contadine, contro tutte le altre classi sociali.

Al riguardo, le “Tesi sulla questione nazionale e coloniale” non potevano essere più chiare: la Tesi 6 delle “Tesi complementari”, rilevata l’oppressione nella quale è tenu- ta la stragrande maggioranza della popolazione, afferma che da ciò consegue che “il primo passo della rivoluzione deve consistere nell’eliminarla. Sostenere la lotta per il rovesciamento del dominio straniero sulle colonie non vuole perciò dire sottoscrivere le aspirazioni nazionali della borghesia indigena; significa invece spianare al proletariato delle colonie la via alla sua emancipazione”. La Tesi 8, prendendo in esame la questione agraria e dopo avere correttamente ricordato come le aspirazioni contadine non pos- sano essere che piccolo-borghesi e riformistiche, conclude: “Ma da ciò non consegue che la direzione, nelle colonie, debba trovarsi nelle mani dei democratici borghesi. Al contrario, i partiti proletari devono svolgere un’intensa propaganda delle idee comuniste e, appena ciò sia possibile, creare consigli di operai e contadini [che opereranno] per provocare il crollo definitivo del regime capitalistico in tutto il mondo”20. I cedimenti dell’Internazionale negli anni seguenti, con l’imporre alle proprie sezioni il patteggia- mento con partiti riformisti (purché, per carità!, “socialisti” od “operai”), impedirono di far chiarezza a partiti comunisti che già vacillavano dal momento della propria forma- zione. Abbiamo visto come questa politica abbia condotto alle pesanti sconfitte in Ger- mania nell’ottobre 1923 e in Inghilterra nel 1926. Resta da vedere come l’applicazione di quelle direttive abbia determinato una catastrofe gigantesca in tutto il movimento anticoloniale.

Già a partire dal 1924, il PCC fu indirizzato a stringere una alleanza con il Kuomintang (KMT), cioè il partito democratico borghese. Le ragioni che condussero a questo passo stavano, secondo l’Internazionale, in considerazioni puramente tattiche: il KMT non era un partito politico, ma l’espressione di un blocco di quattro classi; il PCC era nu- mericamente debole e avrebbe potuto avere maggior peso politico nell’alleanza; infine, la tattica delle alleanze era, come si è visto per l’Europa, ormai ampiamente praticata dall’Internazionale. Nella sua poderosa analisi dei fatti cinesi, Trotzky dimostrerà come tutto ciò non avesse nulla a che vedere con la tattica, ma che si trattava di una questione di principio21.

Il drammatico ripiegamento dell’Internazionale rappresentò l’impossibilità di collegare le rivolte dei paesi coloniali con il movimento proletario mondiale, condannando la Cina alla catastrofe. Invece di lanciare la parola d’ordine: “Tutto il potere ai Soviet!”, fu ordinato ai membri del partito di aderire al blocco delle quattro classi – cosa che il KMT accettò volentieri, naturalmente pretendendo che l’adesione avvenisse non come partito, ma individualmente. Annullato l’enorme potenziale rivoluzionario interno, ogni collegamento internazionale fu infine spezzato con la politica simmetrica che ave- va portato al fallimento lo sciopero inglese nello stesso periodo.

Il gruppo che dettò la politica dell’Internazionale in quegli anni faceva capo a Stalin, ma i suoi teorici erano quei bolscevichi, anche della vecchia guardia, che, da lì a una decina d’anni, sarebbero stati fucilati come “traditori”. In realtà, a essere tradito fu il programma rivoluzionario attuato da Lenin in Russia come “rivoluzione doppia”, che doveva essere applicato allo stesso modo in Cina. Come già la borghesia russa, anche quella cinese non avrebbe saputo portare a termine la propria rivoluzione: per essa, il nemico da abbattere (come presto si sarebbe visto a Shangai e a Canton, con il massacro di migliaia di comunisti) era il proletariato rivoluzionario, e così ci vollero decenni per- ché timide forme di capitalismo potessero davvero svilupparsi nelle campagne cinesi. La politica dell’Internazionale fu tesa a dimostrare che in Cina le “condizioni” erano diverse da quelle russe sotto lo zar: le differenze sarebbero consistite in una maggiore arretratezza delle masse contadine e nel fatto che, al contrario della Russia, la Cina era un paese occupato da forze imperialiste. Di conseguenza, si sarebbe assistito a una “rivoluzione per tappe” – esattamente come avevano sostenuto, contro Lenin, i men- scevichi: la teorizzazione era che, a causa del giogo imperialista, la borghesia cinese “doveva” essere più rivoluzionaria che quella della Russia zarista, e per questa ragione avrebbe costituito per il movimento operaio un punto di appoggio favorevole. Questa folle tesi, spiegherà Trotzky, non riusciva a vedere che, proprio a causa dei rapporti d’affari stabiliti per decenni con le potenze imperialiste, la borghesia cinese era legata a queste mani e piedi e avrebbe sicuramente giocato un ruolo controrivoluzionario quando la storia avesse imposto la mobilitazione di tutte le classi sociali. Come nella Russia zarista, così in Cina il proletariato e le classi a esso alleate su un piano rivolu- zionario dovevano darsi una politica di assoluta autonomia e una ferrea organizzazione di partito, in grado di guidarle attraverso le complesse vicende della “rivoluzione dop- pia”. Dovevano cioè realizzare obiettivi dai contenuti economici e sociali democratici, quindi non comunisti, ma perfettamente comunisti nei contenuti politici, con la rea- lizzazione di una dittatura di classe proletaria. La rivoluzione internazionale avrebbe sciolto, così in Russia come in Cina, tutti gli altri complessi aspetti legati a un oggettivo ritardo storico. L’epilogo della scellerata politica imposta dall’Internazionale staliniz- zata è stato esposto molte volte sulle nostre pagine22. Al PCC fu imposto l’accordo con Chang Kai-shek e, conseguentemente, il partito dovette consegnare le armi al KMT. Solo a questo punto, furono aperte le porte delle città in sciopero (Shangai, Canton) e la controrivoluzione borghese scatenò tutto il proprio furore contro le masse di proletari, operai, piccoli artigiani, che per giorni e mesi avevano saputo resistere, attendendo dall’Internazionale un ordine di attacco che non sarebbe mai arrivato. Il macello che seguì ricorda, ma in grande, quello della Comune parigina. Solo che, là, l’eroica e spontanea lotta del proletariato si scontrò con la propria immaturità e contro le inde- cisioni di quello che fu l’esordio sulla scena mondiale del proletariato rivoluzionario come forza autonoma: la sua sconfitta fornì al partito rivoluzionario indicazioni sicure e permanenti sul piano della teoria e della strategia rivoluzionarie e, in questo senso, si trasformò in gigantesca vittoria. Invece, qui, in Cina, si soccombette nonostante le chiare, precise indicazioni che i dieci anni precedenti avevano additato ai comunisti, in una quasi ininterrotta serie di moti rivoluzionari riusciti o sconfitti: si soccombette davanti alla maschera ghignante dell’imperialismo, camuffato sotto le sembianze della controrivoluzione staliniana trionfante. Gli esiti di questa sconfitta li scontiamo dura- mente ancor oggi, a distanza di quasi cent’anni.


La battaglia della Sinistra: fascismo e antifascismo

Abbiamo visto lo sviluppo internazionale delle lotte proletarie e le esitazioni prima, le sbandate poi dell’organo (la Terza internazionale) che avrebbe dovuto guidarle. Dobbiamo ora rivolgere l’attenzione alle lotte che queste esitazioni e queste sbandate generarono all’interno delle sezioni nazionali dell’Internazionale. Ci occuperemo so- prattutto dei risvolti e delle conseguenze che tali lotte produssero nel PCd’I, che negli anni cruciali 1921-1926 fu teatro di una battaglia teorica i cui esiti favorirono infine la liquidazione dei presupposti su cui si erano costruite le basi per il rovesciamento mon- diale del capitalismo. Naturalmente, tutto ciò è stato moltissime volte ricordato nella nostra stampa, me è sempre bene ribadirlo, per i lettori e i più giovani che male o poco ci conoscono23. Come per la rivoluzione non è sufficiente – e gli avvenimenti di tutto il recente passato e del presente sono lì a dimostrarlo – uno stato di crisi generale e di miseria delle masse proletarie, ma è indispensabile la presenza di una organizzazione salda e compatta (il partito) che, a stretto contatto con queste, ne indirizzi le lotte, esi- tanti e facilmente preda di ideologie nemiche, nella direzione giusta, rivoluzionaria; così per la controrivoluzione è indispensabile l’eliminazione fisica di quel partito, me- diante l’uso della galera e dell’esecuzione sommaria. Ciò è generalmente preceduto da un periodo, più o meno breve, in cui l’ideologia nemica si inocula nelle fila delle organizzazioni rivoluzionarie allo scopo di staccare le masse dal partito e nel tentativo di rendere così impossibile, in quest’ultimo, quella fermezza nella strategia e nella tattica che, sole, possono condurre alla vittoria. Questa è l’operazione alla quale sono incaricati i servitori dello Stato borghese, si chiamino riformisti, socialdemocratici, social-cristiani, pacifisti sociali, antiviolenti a senso unico. Nell’Italia dell’immedia- to dopoguerra, a fronte della marea montante rivoluzionaria, questi germi distruttori riuscirono a vincolare a sé larghe masse proletarie, che non videro, nel riformismo turatiano o nel massimalismo di Serrati, l’anticipazione della sicura sconfitta, nel mo- mento in cui la borghesia iniziava la propria controffensiva armata.


La nascita del Partito nazionale fascista, all’inizio del novembre 1921, fu accolta dal proletariato romano con un grande sciopero generale di quasi una settimana e dal Partito comunista con una serie di articoli che ne mettevano in luce, con assoluto ri- gore marxista, da una parte l’assoluta povertà programmatica e la confusa ideologia, dall’altra la sua capacità organizzativa e militare. L’analisi tendeva a dimostrare come la guerra mondiale prima, le grandi lotte operaie poi, avessero fatto giustizia della dot- trina liberale dello Stato borghese, secondo la quale lo Stato è “di tutti” e garantisce a tutti “uguaglianza di diritti”: il nemico dello Stato liberale era considerato perciò un criminale violatore del contratto sociale. Per astratta che fosse, questa ideologia era gridata ai quattro venti dai suoi cultori, anche se poi non c’era esitazione a sparare sugli oppositori. Ma con la nuova fase aperta dalla nascita dell’imperialismo capitali- stico, apparivano in luce meridiana gli interessi del capitalismo nazionale, cui tutte le classi devono essere assoggettate. Lo Stato borghese era lo strumento già pronto che sarebbe servito per intervenire a livello di organizzazione politica, economica, milita- re, nel modo più violento e repressivo possibile. La trasformazione dello Stato liberale in Stato fascista non era dunque una “rivoluzione”, e neppure una “reazione”. Non era una rivoluzione, perché non modificava né la struttura economica né quella del potere di classe, che sarebbero rimasti interamente dominati dalla dittatura del capitale sul lavoro salariato e della borghesia sul proletariato. Non era una reazione, perché non era in alcun modo l’espressione di una classe pre-borghese.

Su questa base, la posizione teorica del PCd’I era nettamente scolpita: l’opposizione rivoluzionaria a qualsiasi forma di Stato borghese – liberale, democratico o fascista – non poteva portare a nessun tentennamento di fronte alle sirene socialdemocratiche, sempre pronte a venire a patti con il nemico (se possibile, anche col nemico fascista, almeno finché questo fosse d’accordo: e infatti i campioni del riformismo socialista – Bacci e Morgari in testa – correranno a sottoscrivere il “patto di pacificazione” assieme a Mussolini fin dall’agosto 1921, dopo mesi di violenze e massacri antioperai). Il bagno di sangue proletario in cui si era appena battezzata la neonata repubblica di Weimar in Germania – officianti i socialdemocratici tedeschi, ma benedetto da quelli di tutto il mondo borghese – non aveva bisogno di altre conferme: come in Italia il fascismo sarebbe fiorito dalle radici del liberalismo giolittiano, così in Germania la sua versione nazionalsocialista si sarebbe alimentata nella serie di governi di “larghe coalizioni”, cui vani “governi operai” non avrebbero saputo opporre che tutta la debolezza della propria confusione teorica, calata conseguentemente nella “pratica” e, come già s’è vi- sto, nella sconfitta. Essere contrari ad alleanze contro “nemici comuni” non era perciò un lusso teorico della Sinistra comunista. Era l’assoluta necessità di non abbandonare al nemico armi e bagagli in nome di una difesa di presunte libertà democratiche che, al contrario, andavano distrutte assieme a tutto il sistema economico e sociale entro cui germogliavano. Se questa politica avesse trovato in minoranza il partito, la sua posi- zione intransigente sarebbe tuttavia rimasta come unica via da percorrere, ben visibile a un proletariato che, sconfitto oggi, avrebbe fatto risentire la propria voce domani.

Ciò che ancora nel 1921 appariva come una formula corretta (fronte unico proletario), anche se da maneggiare con cautela, diventava un anno dopo argomento di battaglia aperta tra la Sinistra comunista e l’Internazionale: di fronte all’incalzare degli insuc- cessi (diceva quest’ultima, ben appoggiata dal partito tedesco), si doveva maneggiare la tattica in modo tale da salvare la forza di un’area di sinistra, cui tutti erano ben- venuti. Il fascismo non era l’espressione della controrivoluzione, ma l’espressione psicologica del malcontento della piccola borghesia stritolata dalla crisi economica generale. Era questa classe, dicevano i vertici dell’Internazionale, che doveva essere portata a un’alleanza col proletariato; e se l’espressione politica delle mezze-classi era rappresentata da partiti socialisti, con questi si sarebbe dovuti giungere a una unità di azione antifascista, con la formazione di “governi operai” formati da socialdemocra- tici, con l’appoggio esterno (qui, forse, i vertici dell’Internazionale avevano ancora un sussulto di vergogna!) dei comunisti.

Come si vede, dall’analisi errata dei rapporti tra le classi nel dato momento storico, del sorgere e del significato del fascismo, si giunge fatalmente a una catastrofica conclu- sione tattica, destinata a spingere l’intero movimento sul piano inclinato dell’interclas- sismo. La conclusione di questo processo la ritroveremo, una decina d’anni più tardi, inesorabilmente, nella costruzione dei “fronti popolari”: dalla lotta di classe alla lotta in difesa dello stato nazionale borghese, la quintessenza dello stalinismo vincitore.

 

Note:

1 - Marx, Il Capitale, Libro III, UTET 1987, p.1012.
2 - Al riguardo, si vedano i nostri testi “Il battilocchio nella storia”, “Superuomo, ammòsciati!” e “Plaidoyer pour Staline”. Essi si trovano in il programma comunista, rispettivamente nei 7/1953, 8/1953 e 14/1956.
3 - Trotzky, Stalin, Garzanti 1962, p. 420.
4 - Lenin, “I compiti del proletariato nella nostra rivoluzione”, in Opere complete, 24. Ed. Riuniti, Roma 1966, pp. 49-83.
5 - In Storia della sinistra comunista. 1919-1920, II, ed. il programma comunista, Milano 1972, p. 105.
6- In Storia della sinistra comunista. 1919-1920, vol. II, cit., 690.
7- Bordiga, “Il pericolo opportunista e l’Internazionale”, in l’Unità, 30/9/1925.
8 -“Tesi di Lione”, Parte II, Cap. 11: Questioni russe (1926), ora in In difesa della continuità del programma comunista, ed. il programma comunista, Milano 1989, p. 112.
9 - Ibid. p. 195.
10 - Ibid. p. 109.
11 - Sulla “teoria dell’offensiva”, torneremo in seguito (cfr. 22: “Tortuosi percorsi nella politica dell’Interna- zionale”), chiarendone significato e implicazioni
12 - in E. H. Carr, Il socialismo in un solo paese, Vol. II, Einaudi, pp. 120-121.
13 - Per una minuziosa ricostruzione delle lotte operaie in Inghilterra, in quel periodo, si veda “Lo sciopero ge- nerale inglese del 1926”, in il programma comunista, n. 3/2006.
14 - in E. H. Carr, Le origini della pianificazione sovietica, Vol.V, Einaudi, p. 7.
15 - Trotzky, La Terza Internazionale dopo Lenin, Ed. Schwarz 1957, p. 150.
16 -  Ibid., p. 154.
17 - Marx-Engels, India Cina Russia, Il Saggiatore 2008, p. 42.
18 - Le “Tesi” si possono leggere, con ampio commento, nel II volume della nostra Storia della sinistra comu- nista. 1919-1920, cit.
19 - Nella nostra dottrina, la “rendita differenziale” si forma non come conseguenza della proprietà privata della terra, ma per il fatto che il prezzo del prodotto agricolo è fissato sulla base delle condizioni di produzione sul terreno peggiore, quello a produttività più bassa. Questa “rendita differenziale” viene intascata dal proprietario del fondo; se il proprietario del fondo è lo Stato, questo si impadronisce per intero di questo tipo di rendita, che dunque è un prodotto tipico dell’economia capitalistica nella produzione agraria. La “rendita assoluta” è una conseguenza, invece, della proprietà della terra, del monopolio. Essa è un’eredità del passato, ed è mantenuta nelle campagne attuali per pure ragioni di privilegio di una classe, quella dei possessori delle La scomparsa di questa forma di rendita, assieme alla scomparsa della classe che se ne appropria, è perciò un processo che sto- ricamente sarebbe potuto e dovuto essere assolto dalla borghesia rivoluzionaria industriale, che si è ben guardata dal portarlo a termine per pure ragioni di alleanze di classe.
20 - Storia della sinistra comunista. 1919-1920, vol. II, cit., pp. 719 e 720.
21 - la raccolta di testi, con ampia introduzione, contenuta in Cina 1927, Iskra Edizioni, 1977.
22 - Per esempio, di recente, “Riprendendo la ‘questione cinese’”, in il programma comunista 2/2008.
23 - I lettori interessati potranno approfondire le questioni qui trattate in moltissimi testi del nostro partito: in particolare, Communisme et fascisme (Editions Programme Communiste, 1970); Storia della sinistra comunista, IV (Edizioni il programma comunista, 1977); “La Russia nella grande rivoluzione e nella società contem- poranea”, in Russia e rivoluzione nella teoria marxista (Edizioni il programma comunista, 1976); Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (Edizioni il programma comunista, 1976).
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