Intorno a metà settembre, mentre un po’ ovunque nel mondo arabo si levava un’ondata di manifestazioni a sfondo islamista (suscitata, così ci hanno raccontato gli “organi d’informazione”, da un oscuro filmetto satirico sul Profeta), un noto opinionista italiano confessava candidamente a una nota emittente radiofonica (citiamo a memoria): “Abbiamo sbagliato analisi. Quelle che abbiamo chiamato rivoluzioni non erano rivoluzioni, bensì rivolte originate da situazioni sociali e demografiche”. Un anno e mezzo fa o giù di lì, la colpevole ignoranza di una marmaglia di politici, giornalisti, esperti, commentatori (insomma, la feccia dell’ideologia dominante), ci stordiva le orecchie con inni alle “primavere arabe”, alle “rivoluzioni via twitter”, alla “democrazia finalmente trionfante”: oggi, se ne sta disorientata a chiedersi che cosa mai è accaduto, che cosa è andato storto. La madre degli imbecilli è sempre gravida.

Le nostre valutazioni sugli avvenimenti sviluppatisi nel Maghreb-Mashrek (con ampie ramificazioni altrove, in Africa e nel Medio Oriente) si sono dimostrate più che corrette. Fin dall'inizio, abbiamo individuato la fonte delle contraddizioni nelle lotte proletarie innestate dalla crisi, negli ampi movimenti di protesta per le condizioni di vita e di lavoro, che hanno interessato soprattutto Tunisia ed Egitto, dove da anni si poteva cogliere (come abbiamo fatto in ripetuti articoli) una diffusa turbolenza sociale – una massa di quasi 100 milioni di proletari che, in assenza drammatica di ogni guida politica rivoluzionaria, premeva con forza sui rapporti di produzione, cercando disperatamente la propria strada. A questi ampi movimenti, si sono presto sovrapposti, prendendone la testa e infine sviandoli lontano da quella che è la questione centrale (lo scontro fra classe e classe, la questione del potere), gli interessi di spessi strati borghesi e piccolo-borghesi da tempo interessati, di fronte all’incalzare della crisi, al passaggio da regimi rigidi e centralizzati, spesso gestiti dall’esercito, a forme più fluide e “libere” di gestione economica (qualcosa che, in piccolo, ricorda gli avvenimenti del 1989-90 nell’area dell’ex-URSS) – un cambio di regime, dunque, mirante sia a una riorganizzazione della vita socio-economica, sia all’apertura di una valvola di sfogo per un’energia proletaria che si stava gonfiando in maniera minacciosa.

Come abbiamo mostrato, tutta la fuffa piccolo-borghese, democratica, “progressista” (in realtà, profondamente conservatrice) è servita da copertura a questi cambi di regime, ovunque si sono verificati, e con le loro diverse modalità: ma questa fuffa rimane, non scompare – tutt’altro. Il nazionalismo, contenuto in Egitto dal regime di Mubarak, comincia a uscire allo scoperto con la crisi, e la democrazia (religiosa, laica o altro) si dimostra, come sempre, il veicolo e involucro migliore per lo sviluppo del nazionalismo e la preparazione alla guerra. In questo senso, l’islamismo in tutte le sue forme (ideologiche e materiali, laiche e fondamentaliste) e con le sue varie strutture organizzate (partiti, movimenti, reti assistenziali e finanziarie) interpreta la medesima funzione svolta, sull’arco ormai di un secolo e più, dalla socialdemocrazia occidentale: compattamento nazionale, affasciamento delle classi intorno a un’ideologia, redistribuzione (entro dati limiti) di una certa parte di profitti rastrellati grazie alla rendita petrolifera, adorazione dello Stato nazionale, repressione di qualunque moto antagonista. Così, quando la pura e semplice retorica democratica non è più stata sufficiente a coprire le piaghe di una crisi economica e sociale sempre più vasta e profonda, ecco saltar fuori, dal cappello dell’esperienza secolare di dominio della borghesia nelle sue più giovani espressioni nord-africane, il casus belli: il filmetto che insulta il profeta e infiamma le masse – a ulteriore dimostrazione di quanto la religione, l’ideologia, la sovrastruttura, servano al mantenimento dello status quo, alla salvaguardia della struttura economica e sociale del modo di produzione capitalistico.

Noi abbiamo denunciato gli “insorti” e i “liberatori”, tanto quanto abbiamo sempre denunciato i “dittatori” e i “colonnelli”; la ferocia dell'imperialismo euro-americano in Libia, tanto quanto la tragedia ancor più grande che si verificando in Siria; le ideologie fondamentaliste, tanto quanto quelle democratiche; la vuota retorica dei riscopritori fuori tempo massimo di un anti-imperialismo terzomondista e populista, tanto quanto la schifosa operazione anti-proletaria condotta da tutta la massa di portatori d’acqua dell’imperialismo internazionale, che inneggiavano alle “primavere arabe” senza capire (gli eterni “utili idioti”) o capendo fin troppo bene (i più smaliziati) ciò che stava realmente accadendo nel Maghreb-Mashrek. Intanto, il terreno continua e continuerà a scottare in tutto il Medioriente: gli “organi d’informazione” hanno praticamente taciuto sugli scontri che si sono verificati, quasi in contemporanea all’ondata islamista, fra i proletari palestinesi di Cisgiordania scesi in piazza per protestare contro l’aumento del costo della vita e la polizia dell’Autorità Nazionale Palestinese (cioè, del loro stato nazionale, per quanto embrionale esso possa essere): scontri che noi salutiamo con entusiasmo, nell’auspicio che siano un primo segnale di ripresa di una prospettiva di classe e non più nazionalista in tutta l’area – prospettiva cui noi comunisti abbiamo l’obbligo storico di lavorare.

A fronte di tutto ciò, infatti, il dramma (che si trascina da ottant’anni ormai) è l’assenza, come forza politica radicata, del partito comunista internazionale, tanto in quell’area nord-africana quanto nel cuore decisivo per ogni prospettiva rivoluzionaria rappresentato dall’area euro-americana, dalle cittadelle dell’imperialismo. Quest’assenza (l’abbiamo ribadito e dimostrato più volte) è dovuta a numerosi fattori, di cui il principale è l’effetto catastrofico, distruttivo, azzeratore, dello stalinismo in quanto teoria e pratica della controrivoluzione borghese nel XX secolo, che riassume e centuplica il ruolo congiunto di democrazia, socialdemocrazia e nazi-fascismo, nello svuotamento e stravolgimento dall’interno e nella repressione dall’esterno del movimento comunista mondiale.

L'urgenza di lavorare al rafforzamento e radicamento internazionale del partito rivoluzionario è dunque evidente a chiunque guardi agli avvenimenti del Nord Africa (fra grandi sussulti e lunghi periodi di stasi) non attraverso le lenti deformanti dei luoghi comuni piccolo-borghesi e della retorica democratica.

 

 

Partito Comunista Internazionale

(il programma comunista n°06 - 2012)

 

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