L’ondata di rivolta che ha investito la sponda sud del Mediterraneo, giungendo fino alla Giordania, allo Yemen e al Bahrein, è esplosa improvvisamente, ma non è venuta dal nulla: si è preparata a lungo, nei mesi e negli anni precedenti. E’ importante dunque riordinare i fatti per capire come all’origine di tutto ci sia l’insofferenza per una situazione economica e sociale che si è abbattuta (e perdura) sui proletari e sulle masse proletarizzate: miseria, disperazione, difficoltà a sopravvivere… Insomma, fame nuda e cruda, ma non certo di libertà e democrazia. Lo facciamo attingendo dalla nostra stessa stampa degli anni scorsi, che ha dedicato numerosi articoli alla situazione proletaria in quei paesi (*).

Lo tsunami si sfoga in Tunisia…

Gli avvenimenti in Tunisia cominciano a subire una forte accelerazione tra il 7 e l’8 aprile del 2008, quando, durante le dimostrazioni contro l’aumento dei prezzi dei generi alimentari e la disoccupazione, all’attacco delle forze antisommossa si risponde con fermezza e decisione (**). Vere e proprie battaglie si svolgono nel bacino di Gafsa, presso Redeyef (dove si estraggono i fosfati di cui la Tunisia è il quarto produttore mondiale): gli scontri portano a 44 arresti (fra cui alcuni sindacalisti) per “disordini” e “distruzione di beni”. L’agitazione era partita a gennaio, scatenata dal bisogno di lavoro, e aveva prodotto manifestazioni e corposi cortei di disoccupati che, aggregando sempre più lavoratori, avevano trasformato la protesta in una lotta generale contro il carovita.

Carovita che, da quel momento, non si è certo fermato, anche per l’impennata mondiale dei prezzi dei prodotti agricoli, e che si è accompagnato a una disoccupazione irrefrenabile (a due cifre) e a un’inflazione galoppante (ulteriore aumento dei generi di prima necessità dal 10 al 20%: che vuol dire per il salario medio una perdita del potere d’acquisto dal 60 al 90%!). Una situazione che non poteva non portare agli avvenimenti di questi ultimi mesi: e infatti, a fine dicembre 2010, dopo l’atroce suicidio di un giovane, dopo scontri di particolare durezza e l’ennesima vessazione poliziesca, cresce la protesta.

Le masse spinte dalla disperazione, da condizioni di vita penose, dall’aumento dei prezzi dei generi alimentari, si riversano nelle strade, si scontrano con le forze dell’ordine e l’esercito che sparano (un centinaio di morti!): esplode irrefrenabile la rivolta.

Ogni centro abitato e la stessa Tunisi (significativamente a partire dai quartieri proletari) sono percorsi da manifestazioni e bloccati dagli scioperi. Gli scontri sono violentissimi. La rabbia e il coraggio permettono l’attacco ai commissariati e ai palazzi del potere, la paura coltivata da decenni dal regime si dilegua grazie alla forza della massa. La caduta del governo e la fuga di Ben Alì scoperchiano la crisi del regime che serpeggiava tra corruzione, clientelismo e oppressione poliziesca.

Solo allora le anime belle delle democrazie imperialiste si sono accorte della dittatura del partito “socialista e nazionale” (!) degli “Eredi di Bourghiba”.

A questo punto della lotta, gli interessi delle classi si mescolano e la gioia con cui si accoglie la caduta del tiranno fa passare in secondo piano le cause economiche e sociali: in assenza di una organizzazione proletaria indipendente, la crisi del regime può solo essere cavalcata dalle mezze classi e indirizzata verso la conservazione delle strutture e l’ammodernamento delle sovrastrutture del sistema borghese. Da qui, la “lealtà” dell’esercito alle (promesse) riforme e l’esaltazione per le (promesse) libere elezioni… e i barconi che trasportano quei proletari che comunque continuano a scappare dalla miseria e dalla disoccupazione.
 

…ma ha origine in Egitto

In Egitto, dal dicembre 2006 e fino alla fine di settembre 2007, le lotte, perfino con scioperi illegali, si sono susseguite senza soluzione di continuità nei cementifici, nei trasporti urbani, nelle ferrovie, negli allevamenti, nelle miniere, nel tessile, nella sanità, e soprattutto a Mahalla, a nord del Cairo, nella fabbrica della Misr Spinning and Weawing Company, una delle più grandi industrie tessili dell’Egitto. Sono state le operaie a iniziare per prime le proteste e a spingere gli altri operai a uno sciopero ad oltranza per il pagamento degli arretrati promessi e del premio di produzione, bloccando la produzione e occupando lo spiazzo antistante la fabbrica. Sono seguiti i lunghi giorni dell’occupazione della fabbrica, occupazione che non si è fatta intimidire né dal taglio di acqua ed elettricità, né dall’incombente presenza della polizia, né dalla possibilità di cedere ai privati la proprietà (che è pubblica). Al contrario, ha attirato migliaia di altri lavoratori, che l’hanno fisicamente sostenuta. Nonostante scontri, feriti, arresti, l’occupazione (che ha intimidito tutta l’imprenditoria, che per un anno intero si è trovata in affanno per il blocco della produzione) si è conclusa solo dopo aver ottenuto un aumento dei salari e del premio di produzione.

Sull’onda di questo successo (e per difenderlo), si sono sviluppati comitati di lotta esterni e antagonisti al sindacato ufficiale che, spinto dalla paura che questa lotta vittoriosa potesse estendere le rivendicazioni a tutti i lavoratori d’Egitto, aveva tentato di imporre il proprio controllo sulla fabbrica.

La vitalità del movimento è riassunta dalle sue stesse parole: “La lotta ha sbaragliato i sindacati ufficiali e ha visto la nascita dei comitati di lotta di base: e ridarà sicuramente forza al movimento operaio egiziano, schiacciato sotto la continua crescita dei prezzi dei generi alimentari, in un mare di folle immiserite e proletarizzate, ridotte alla fame. Si teme che il governo possa annunciare presto l’aumento del prezzo del pane e di altri generi di largo consumo, mentre i dati ufficiali parlano di una crescita straordinaria del Pil egiziano del 7%”.

Gli eventi hanno impartito una profonda lezione. Uno dei leader della lotta dei tessili, arrestato nel corso degli scontri, aveva affermato che “occorre liberarsi del sindacato ufficiale che protegge gli interessi dei padroni e non dei lavoratori, i sindacalisti devono essere eletti da chi lavora e non dallo Stato”. Puntuali sono arrivati contro i lavoratori combattivi prima le azioni di disturbo con la collaborazione attiva del sindacato di stato, poi i licenziamenti. “Per la difesa delle condizioni di vita la lotta non può che riprendere. Non resta che tornare in strada a manifestare”, confermano gli operai, che si preparano per metà dicembre a uno sciopero ad oltranza a un anno dalle prime sollevazioni. Ma la situazione è priva di prospettive concrete, non si potrà resistere a lungo, le organizzazioni sindacali statali si stanno già preparando a controllare e sabotare qualsiasi forma di lotta. L’operaio aggiungeva: “l’unico sostegno concreto è quello dei lavoratori del vicino polo industriale di Kafr Dawar. L’annuncio della privatizzazione si fa sempre più concreto, gli avvoltoi finanziari europei fanno già la spola dentro i reparti e preannunciano i licenziamenti: non c’è scampo”.

Tutto ciò confermava che la situazione sociale era arrivata ad un punto critico per le industrie di stato. Era chiaro ai ventisettemila tessili di Gazl Mahalla, il fiore all’occhiello del tempo di Nasser: i macchinari che sfornano abiti che i lavoratori non potranno mai comprare. La politica liberista egiziana, in piena sintonia con il FMI e la Banca Mondiale, conferma che (come in ogni altro paese capitalista) la crescita del Pil si ottiene solo con il peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro di tutti i proletari. La polarizzazione della ricchezza fa aumentare la povertà (1$ al giorno) dal 16 al 19% e la miseria ( 3 o 4$ al giorno) dal 30 al 40%. L’inflazione (ufficiale 12%, reale 25%) divora qualunque aumento di salario e abbassa le già ridotte condizioni di esistenza. La politica delle privatizzazioni e del taglio dei rami secchi, poi, nel giro di quasi quattro anni ha portato alla perdita di 650 000 posti di lavoro spingendo alle stelle la disoccupazione.

Si arriva così ai primi mesi del 2008. La crisi mondiale investe l’Egitto con particolare violenza con l’impennata dei prezzi dei cereali. Lunghe file per il pane, incidenti, proteste scoppiate in tutto il paese hanno riproposto quella rivolta del pane che trent’anni prima, nel 1977, aveva attraversato tutto l’Egitto (***).

Migliaia di dimostranti bloccano strade e città, ci sono scontri con la polizia e resse per l’acquisto a prezzo calmierato del pane, che rappresenta l’alimento principale dei poveri (i cui sussidi arriveranno a 2,67 miliardi di dollari). Per sopravvivere, la maggior parte dei proletari si affida alla distribuzione calmierata da parte del governo: una pagnotta a prezzo calmierato costa 5 piastre, mentre il prezzo di mercato sale fino a 50. Ogni giorno, nella sola città del Cairo, 100.000 pagnotte a prezzo economico vengono distribuite tramite 6 grossi panifici: ma poiché, per via della borsa nera, la farina a prezzo calmierato va a finire in mano a privati, le file per il pane diventano sempre più lunghe e si affollano di disperati. Nel solo mese di marzo, muoiono più di quindici persone coinvolte negli scontri scoppiati in tutto l’Egitto intorno alla distribuzione del pane: in seguito a ciò, il governo affida all’esercito il compito di distribuirlo. La crisi è determinata dall'aumento vertiginoso negli ultimi due anni del prezzo internazionale del grano e dall’aumento della popolazione, passata dai 22 milioni del 1952 ai 76 milioni di oggi. La decisione del blocco dell'export di riso per sei mesi, nel tentativo di tamponare l'emergenza alimentare, e le misure di contingentamento, produzione e distribuzione di farina e pane nelle mani dell'esercito, non hanno ottenuto effetti positivi. Le spiegazioni che si tenta di far passare per dirottare responsabilità dicono che la farina calmierata viene rubata dai fornai che ne vendono un notevole quantitativo sul mercato nero (cosa che accade da decenni), ma soprattutto parlano della crescita del numero dei poveri sotto il peso dell’alta inflazione, da cui sarebbe colpita anche la piccola e la media borghesia.

Ma non solo. Numerose famiglie contadine sfrattate dall’esercito occupano le terre per impedire il ritorno dei proprietari terrieri che pensavano di aver buttato fuori una generazione fa. In solidarietà, i lavoratori replicano con una massiccia serie di scioperi che hanno influito su ogni strato della società. L’entusiasmo dei contadini poveri e degli operai tessili si è poi rivelato contagioso: a gennaio 2008, 10.000 dipendenti statali hanno organizzato un sit-in e uno sciopero, che è risultato, si dice, uno dei meglio coordinati dei tempi moderni: sono state accolte tutte le loro richieste, oltre a un bonus equivalente al salario di tre mesi. Questo movimento di protesta ha cominciato a coordinarsi con gli operai di Mahalla. E’ a questo punto che, di fronte al pericolo incombente che la lotta potesse uscire dal suo ambito salariale e di rivolta disorganizzata, lo Stato ha cominciato ad approntare le soluzioni politiche alternative di emergenza: gli “ammortizzatori politici” forniti dalla cosiddetta Opposizione, subito venuta in soccorso.

Il 6 aprile 2008, giorno della “disobbedienza civile”, l’Opposizione è riuscita a incanalare le lotte operaie nella rivendicazione di “più democrazia”. In poco tempo, ha preso la testa del movimento, che si era nel frattempo allargato e cercava una via d’uscita dopo due anni di lotta all’ultimo respiro. La difesa economica, non riuscendo a diventare un attacco generale al sistema di produzione, è stata deviata  in una “lotta politica con respiro nazionale”, e l’economicismo ha preso il sopravvento: in gioco ci sarebbe ora il “futuro dell'intero paese”... D’altra parte, afferma il “movimento”, la borghesia egiziana vanta una “crescita” del 7,1%, anche se vanificata dall'impennata dei prezzi al consumo e dal graduale disimpegno dello Stato dall'assistenza alle fasce più deboli; quindi, occorre un cambiamento democratico…

 L’Opposizione democratica (la piccola borghesia) mette in guardia e alimenta la paura, basata sulla possibilità che il governo annunci la fine del controllo sul prezzo del pane e di altri generi di largo consumo, prospettiva che fa tremare una buona fetta della popolazione egiziana. La fame aumenta, ma il regime nega le proprie responsabilità e sbatte in faccia a critici e dissidenti risultati economici “di tutto rispetto”. L’Opposizione democratica incalza a sua volta affermando che è stato ridicolo proporre di separare la distribuzione dalla produzione: il problema, dice, non è quello delle infinite e sovraffollate file per il pane, ma è piuttosto l’“inadeguatezza” della gestione quotidiana della produzione per un numero così elevato di persone, per non parlare delle “cattive abitudini di consumo degli egiziani” che influenzano la produzione del pane. In queste condizioni, afferma, non si tratta di destituire il governo, ma di “abbandonare il metodo di gestione adottato dai ministeri della Solidarietà Sociale, del Commercio Interno e della Pianificazione, che hanno riportato un completo insuccesso nel fornire semplicemente un’adeguata razione di pane”. E’ necessario dunque, non l’estensione della lotta, ma il controllo della stessa; soprattutto, occorre imbavagliare ogni movimento di lotta di classe.

E’ questa la catena di eventi che ha permesso di nascondere le lotte operaie e gli scioperi ad oltranza che per tutto gennaio e febbraio 2011 non hanno smesso di crescere (il lamento imprenditoriale e statale per la chiusura  delle fabbriche, per il blocco della produzione, per la perdita gigantesca degli affari nel turismo di massa in scioperi mai dichiarati ne è una testimonianza) e la loro influenza sugli avvenimenti e sulla protesta. L’esaltazione della democrazia, della “dignità di un popolo contro i dittatori”, della sobrietà, dell’equilibrio, sono stati i tratti distintivi che i media hanno continuato a trasmettere nella rete mondiale delle comunicazioni di massa. E così, la massa come dato indistinto, il popolo come entità che annulla le classi, la sorpresa della spontaneità, la gioiosa macchina del numero, hanno fatto vibrare di soddisfazione i giovani nati vecchi della piccola borghesia internazionale.

La caparbietà, la resistenza, la determinazione con cui le masse in rivolta hanno respinto gli attacchi della polizia prima e dei pretoriani di Mubarak poi, sono presto dimenticate, accantonate, come pure le centinaia di vittime e le migliaia di feriti.

Su tutto vigila l’esercito, che certo non simbolicamente ha circondato la piazza della rivolta, con le armi che, “proteggendo”, in realtà minacciano, mentre i generali garantiscono per prima cosa l’“immediato ritorno al lavoro”.

Sono stati così oscurati gli anni di lotta che dal 2006 al 2010 hanno scosso ogni settore dell’industria e dell’agricoltura, ogni settore dei servizi e del pubblico impiego.“La massa in rivolta” ha fatto sparire ogni presenza di classe del proletariato, confuso nell’intruglio forzato di commercianti, impiegati, imprenditori, piccola borghesia, e si sono dimenticate le lotte che hanno acceso la miccia della rivolta. La realtà proletaria non è però sparita: è vero, per il momento i suoi interessi immediati e storici sono stati sommersi nella melma interclassista e democratica, ma le cause economiche sono state solo congelate…

Qui come in Tunisia, nel Maghreb come in Europa, dalla Russia al Giappone senza escludere Africa e Americhe, la crisi procede inesorabile.


Note

1. I riferimenti alle lotte e i brani riportati nel testo sono tratti dai seguenti articoli: “Egitto: dopo un anno di lotte, i lavoratori tessili hanno vinto”, Il programma comunista, n. 5/2007; “Egitto: continua la lotta dei tessili di Mahalla”, Il programma comunista, n. 6/2007; “Uno spettro s’aggira per il mondo”, Il programma comunista, n.4/2008.

2. Non va dimenticato che già nel 1978 c’era stata una grande ondata di scioperi operai, guidati dall’UGTT (Unione generale dei lavoratori tunisini, il più antico sindacato africano), con scontri con la polizia e decine di morti. Nel 1984, poi, a seguito dell’aumento del prezzo del pane (+115) e della soppressione dei sussidi statali ai generi alimentari, si ebbe una vera sollevazione, duramente repressa (più di cento morti), dopo la quale presidente Bourghiba fu obbligato a revocare gli aumenti. Altri scioperi si ebbero poi l’anno successivo. La realtà sociale tunisina non ha smesso cioè di essere in ebollizione, ben prima del gennaio 2011. Sulla situazione generale del Mediterraneo in quegli anni, che nell’intreccio di interessi economici prefigura gli sviluppi successivi, si vedano anche gli articoli “Affari nazionali e interessi proletari fanno a pugni”, n.6/1985, e “Esplodono i nodi irrisolti dell’area mediterranea”, n.1/1986 de Il programma comunista.

3. Sulle rivolte del 1977, si vedano l’articolo “Egitto. Risposta proletaria alla ‘normalizzazione’ imperialistica del Medio Oriente”, nel n.3/1977, e la serie di articoli “Egitto. Le lotte delle masse operaie e contadine alla luce dello sviluppo capitalistico”, nei nn.7-8-9/1977 de Il programma comunista.

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°02 - 2011)

 

 

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