DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

La prima guerra libica 2011

Per entrare in tema, andiamo a rileggerci quanto scrivevamo, a proposito della “prima guerra libica”, su queste stesse pagine: “I grossi interessi economici in gioco, legati al petrolio, hanno concesso all’immensa massa di salariati, di lavoratori immigrati […] sparsi nelle città, negli oleodotti, nelle raffinerie, solo il tempo di fuggire e di attraversare i confini egiziani, tunisini, sudanesi, centroafricani. Le masse proletarie che avevano acceso la miccia nel corso delle primavere arabe, attaccate dalla polizia, controllate dall’esercito in Egitto e dalle organizzazioni politico-sindacali in Tunisia, sono state disperse da un’aggressione militare” (Il programma comunista, n.5/2011). Quanti i morti, ci chiedevamo allora: 20 mila, 50 mila? Quanti sprofondati nelle sabbie? Quante migliaia i migranti affogati nelle acque del Mediterraneo? Quanti i profughi?

Gli interventi militari, inaugurati allora dalla Francia con attacchi aerei e seguiti dal lancio di missili Tomahawk da navi statunitensi e britanniche su obiettivi strategici, con la presenza di blocchi navali e di interdizione al volo in varie zone e con la partecipazione compatta degli Stati aderenti alla Nato, si interruppero poi nell’ottobre 2011, con l’uccisione di Gheddafi. L’articolo poi così continuava: “Al centro dell’uragano, milioni di metri cubi di petrolio giornalieri, migliaia e migliaia di chilometri di oleodotti, di gasdotti, di centinaia di impianti di liquefazione gas, di raffinerie, di petroliere, di terminali per l’esportazione, di multinazionali, centinaia di migliaia di lavoratori internazionali, di braccia umane in fuga. In nome del petrolio e della divisione delle commesse, il mostro della guerra ha distrutto quel paese che i dépliants turistici presentavano come uno dei paesi più ricchi dell’Africa, con il più alto reddito pro capite, con la più numerosa e ricca classe media”.

In quel 2011, la fuga dai siti italiani – impianti (Finmeccanica), oleodotti (Greenstream-Eni), banche (Unicredit) – lasciava presagire tutti i segni dell’imminente catastrofe. Dopo mesi di pesanti bombardamenti, tutto è tornato come prima: i lavoratori (quelli rimasti vivi!) sono tornati ai loro posti di lavoro, alla loro “sana e santa”, tradizionale schiavitù salariale; e la comunità dei pescecani francesi e italiani ha continuato ad accreditarsi in Europa come la sola forza capace di gestire gli affari economici dell’intera Libia. Tre mesi di micidiali attacchi della Nato, a partecipazione diretta francese, inglese, italiana e a regia americana, lasciavano intendere, che la partita fosse chiusa. Non ci sbagliavamo quando dicevamo, anticipando gli eventi, che la macchina della guerra si sarebbe rimessa a girare. Quel che ha dato uno straordinario rilievo alla “prima guerra” è stato il contesto in cui si è svolta: le lotte proletarie sviluppatesi dal Maghreb al Medio Oriente e finite purtroppo in una desolante spianata di corpi nel corso delle cosiddette “primavere arabe”. I brani che riportiamo di seguito, sempre tratti da quell’articolo, permetteranno di dare un senso all’intera trama degli avvenimenti e alla funzione avuta dalla violenza imperialista.

 

La guerra in Libia e la rivolta sociale nordafricana

Sempre in quel 2011, mentre scoppiavano le rivolte proletarie dall’Egitto alla Tunisia e dilagava il conflitto in Libia scrivevamo, a proposito della guerra: “Quel che si voleva era, fin dall’inizio, spezzare il collegamento orizzontale, anche solo potenziale, fra proletariato tunisino ed egiziano, ma soprattutto tra proletariato maghrebino e mediorientale. Quel che si voleva era mantenere frantumato il grande movimento di lotta delle masse proletarie, che minacciava [e minaccia ancora!] di estendersi. Quel che si voleva era dare un’ulteriore dimostrazione della forza micidiale della ‘democrazia imperialista’. Le contraddizioni sociali, suscitate dalla crisi di sovrapproduzione, hanno raggiunto un primo limite di rottura, e tuttavia ci vuole ben altro perché le masse in rivolta si trasformino in rivoluzionarie. Solo lo sviluppo della lotta di classe a partire dalle metropoli imperialiste risveglierebbe il proletariato dal lungo sonno – solo l’aperto disfattismo nei confronti della propria borghesia estenderebbe l’incendio di classe. […] Solo la guerra poteva spezzare l’unità proletaria costituitasi spontaneamente nel corso della rivolta: l’imperativo politico, per fermare la rivolta sociale nordafricana, era mettere il Consiglio Supremo militare egiziano e il Fronte di Unità Nazionale tunisino sotto protezione dei bombardamenti nella vicina Libia. Scalzare il colonnello era solo un aspetto secondario”.

Quanto alle primavere arabe: “Mentre ancora bruciavano i commissariati e i palazzi del potere e prima che si scatenassero i bombardamenti, la massa dei senza riserve era costretta a vagare dopo che le era stata sottratta di mano l’azione di lotta dal basso da entrambi i fronti nazionalisti, quello partigiano e quello lealista. L’ammassarsi di migliaia di proletari (egiziani, cinesi, filippini, subsahariani, bangladesi, vietnamiti, siriani, giordani, ecc.) alla frontiera con la Tunisia e di altre migliaia a Bengasi e al confine con l’Egitto, in attesa di essere imbarcati, attestava la presenza di questo massiccio fronte proletario, disperso dalla guerra, che, identificato come mercenario dall’uno o dall’altro, veniva falcidiato senza pietà. […] L’intervento militare internazionale può spiegarsi in relazione al potenziale di forza espresso nei primi mesi delle rivolte nord-africane dal proletariato, cresciuto numericamente oltremisura in tanti anni e non controllato da organizzazioni sindacali padronali efficienti, da ammortizzatori economici e da illusioni democratiche – un potenziale di forza proletaria integrata sull’intera area mediterranea, scossa dalla profonda crisi economica. Quell’uragano, che nessun panarabismo, nessuna alleanza fra stati, nessuna lingua comune, nessuna ideologia religiosa poteva suscitare, si è abbattuto sul territorio nordafricano e mediorientale, sospinto dalla maturità del capitalismo e del suo proletariato”.

Quanto alla “deriva” dei migranti: “Se si rompe l’argine libico, decine di migliaia di clandestini, che da mesi sono tenuti ‘prigionieri’ in Libia come carne da lavoro, rinchiusi in centri di accoglienza [sic!], causeranno un esodo biblico. Sotto l’incalzare della guerra, l’orda proletaria, senza ordine, senza legge, senza un controllo statale e privato, è diventata la metafora dell’estrema paura. La deriva dei migranti in decine di migliaia ha dilagato come un’immensa frana nelle più diverse direzioni. In Grecia, in Spagna, in Italia, lungo i confini si grida all’emergenza sociale. Il collettore di forza-lavoro Gheddafi, dunque, ha minacciato, spinto dalla strizza maledetta di essere fatto fuori dalla canaglia pezzente, di aprire i cancelli delle galere. Inconsciamente, ha afferrato, in un lampo di follia o di genio, il fatto materiale che la direzione storica dei proletari, gli espropriatori degli espropriatori, è verso e contro la ‘civiltà’ borghese. Temendo come fosse peste la libertà rivoluzionaria dei proletari […] ha chiesto che gli fossero concessi 7 miliardi di dollari per sistemare la faccenda. Forse che il diritto d’asilo, il diritto d’accoglienza nel suo deserto, non costano?”.

Per concludere, scrivevamo, a proposito di guerra e rivoluzione: “Le macchine statali dei mostri capitalisti lavorano solo in senso controrivoluzionario. Hanno le artiglierie puntate solo contro il futuro, contro la Dittatura del Proletariato. La propaganda antiproletaria che impazza inventando massicce cifre di clandestini, che un tempo, a ogni meridiano e parallelo, imperversava contro zingari, neri, disoccupati, poveri, ebrei, laceri e affamati, disperati, vecchi, malati, è il frutto di un sistema economico che va in cancrena. Allora, predicarono la guerra, “igiene del mondo”: ed è lo stesso intervento chirurgico che apparecchiano adesso! Masse di senza riserve spinte dalla mancanza di denaro inseguono la possibilità di vendere la propria forza-lavoro. Ogni giorno, attraversano confini, spazi immensi, mari, alla ricerca di terre capitalistiche al cui ingresso sia scritto: Qui, lavoro salariato! E non trovano nulla, soprattutto in tempo di crisi – trovano solo altri lavoratori in marcia, come se un’immensa carestia si fosse abbattuta sull’intera umanità, concorrenti che si dilaniano davanti all’ingresso delle fabbriche. E questa concorrenza ritarda la loro organizzazione e la consapevolezza che la sola via d’uscita da questo orrore passa attraverso la rivoluzione e la dittatura del proletariato”.

***

Hanno avuto, dunque, un chiaro fondamento di classe le rivolte proletariepartite dalle fabbriche tessili egiziane, dalle miniere tunisine e dalle “lotte per il pane” nel cuore dell’Egitto. L’ideologia piccolo-borghese, assestatasi nelle piazze egiziane e tunisine, fece allora implodere su se stesso il movimento di lotta. Represso duramente, inchiodato nella maggioranza interclassista e infine smontato dalle elezioni vinte dai Fratelli musulmani (transizione “democraticamente necessaria”, prima di imporre sul proletariato il sigillo finale del silenzio), quel movimento si concluse con la dittatura militare di al-Sisi in Egitto e con un compromesso fra le classi borghesi in Tunisia. La tremenda saldatura reazionaria della guerra in territorio libico, imposta dalle grandi potenze, si trasferì intanto nelle città siriane, da Damasco ad Aleppo, mentre nel corso di vari anni lo “Stato islamico” si espandeva nel nord siriano e iracheno. Contemporaneamente, a sud, nello Yemen, i bombardamenti sauditi devastavano le città e massacravano la popolazione civile.

E, tuttavia, gli effetti delle cosiddette “primavere arabe” del 2011 non hanno cessato di farsi sentire: in Algeria, milioni di proletari si sono riversati nelle strade costringendo l’ultraottantenne Bouteflika a togliersi di mezzo, com’è avvenuto per il Presidente al-Bashir in Sudan dopo trent’anni di dittatura. Le lotte che hanno messo in crisi i regimi dittatoriali nordafricani non sono state, dunque, spazzate via del tutto. L’opportunismo pacifista ha continuato a immaginare “proteste non violente e sufficientemente numerose”, la possibilità di governi non dittatoriali che “ascoltino le persone”. Il processo che ha infiammato il Nordafrica non si è fermato: l’incendio potrebbe ancora estendersi, l’esperienza di lotta non manca certo al proletariato algerino e sudanese. Quel che manca ancora è il disfattismo rivoluzionarioche impegni il proletariato delle metropoli imperialiste in una lotta generale ad oltranza contro la borghesia. Qui, nelle metropoli imperialiste, domina ancora il corporativismo piccolo-borghese, che cede tutt’al più al “fascino delle barricate”, come si è visto nei “sabati comandati” dei gilet gialli e dei giovani delle banlieues in Francia. Sospinto dalla maturità del capitalismo e del suo proletariato, il potenziale di forza, che ha tentato di integrarsi nell’intero Nord Africa, ha ceduto rovinosamente nel 2011, ma potrebbe riaccendersi ancora. Ma per riorganizzarsi e ritrovare nella lotta la spinta necessaria per dilagare ancora, occorre sottrarsi ai fronti piccolo-borghesi e nazionalisti, siano essi di natura laica o religiosa.

 

La seconda guerra libica

A tre anni dal 2011 e dopo lo svolgimento delle elezioni legislative in Libia, i personaggi di allora, Khalifa Haftar e Fayez Sarraj, sono ritornati alla ribalta. Da quando, dal maggio all’agosto 2014, il generale Haftar ha lanciato l’operazione “Dignità” per liberare Bengasi dai jiadistisi, creando di fatto una prima rottura nei confronti dell’autorità di Tripoli, si sono riproposti gli scontri tra le diverse fazioni libiche, tra cui anche quelle islamiche. L’intesa per un “Governo di accordo nazionale” non si è consolidata più neppure quando Sarraj è stato riconosciuto premier dalla “comunità internazionale”.

Non passano quattro anni che ricomincia la giostra micidiale della nuova guerra libica. Tra i 6,375 milioni di abitanti della Libia (dati del 2017), sparsi nelle città della costa e nelle oasi del deserto, si destano, dovute alla guerra, nuove e più acute contraddizioni sociali. Fanno da innesco gli affari sul petrolio, attorno a cui ruotano sempre i contrasti franco-italiani, gli artigli imperialisti, la massiccia presenza dei rifugiati, dei migranti e dei senza riserve. Oggi, maggio 2019, il petrolio e la spartizione delle commesse sono ancora al centro della dinamica della guerra. Il processo, guidato dai principali macellai d’Europa (non ultima l’Italia), sta dilagando da est e da sud: la schizofrenia interventista, con l’invio di armi sul mercato nero ai due contendenti, continua e prevede, mentre Haftar attacca Tripoli, la probabile divisione della Cirenaica dalla Tripolitania, oppure la riunificazione del territorio libico.

Il gioco delle alleanze imperialiste che maschera gli avvenimenti, è definito dalla pressione militare che si impone e si sviluppa rapidamente di volta in volta sul fronte di guerra. Anno dopo anno, si tracciano gli “accordi”, il cui carattere è quello di alleanze di guerra, appoggi militari, vendite di armi e sostegno finanziario senza limiti. L’accordo firmato dai due leader e sostenuto dall’Onu, a Skhirat in Marocco (dicembre 2015), si caratterizza da subito per la sua instabilità: l’insediamento di al-Sarraj, in assenza dell’investitura dei deputati del fronte opposto, non permette a nessuna delle due marionette di esercitare appieno le loro prerogative politiche. Il cosiddetto accordo finisce così in un vicolo cieco e porta buona parte della popolazione della Tripolitania (così ci raccontano!!) da una parte a squalificare l’autorità di Sarraj e dall’altra rafforzare l’attività militare di Haftar, che si estende già a Bengasi e a Derna e più innanzi nella regione meridionale del Fezzan.

Il punto di svolta (settembre 2016) si ha quando le forze armate di Haftar occupano la mezzaluna petrolifera e i porti sul golfo della Sirte da cui viene esportato il greggio libico. A questo punto, l’uomo forte della Cirenaica viene “riabilitato” dalle cancellerie europee, per integrarlo negli equilibri politici futuri. Due altri incontri tra le parti, sotto la protezione della Francia, avvengono a La Celle-Saint-Cloud (luglio 2017) e a Parigi (maggio 2018), ma il tentativo di mediare nella prospettiva di una “doppia elezione”, legislativa e presidenziale, fallisce. Un altro incontro a Palermo (dicembre 2018) con il patrocinio dell’Italia viene snobbato da Haftar e si conclude con un nulla di fatto. All’inizio di febbraio 2019, le forze di Haftar si impadroniscono di due impianti petroliferi strategici non lontani da Sebha. La strategia di Haftar è quella di negoziare sul piano politico e muovere le proprie pedine sul fronte militare. Davanti alla minaccia che incombe su Tripoli, un ulteriore vertice si tiene ad Abu Dhabi negli Emirati Arabi alla fine del mese (febbraio 2019): l’accordo verbale prevede che al-Sarraj conservi la guida del governo (Consiglio presidenziale) e Haftar mantenga il Comando dell’Esercito Riunificato. La stupidità e la necessità vanno a braccetto: la soluzione dell’“accordo” non è altro che… la spinta ulteriore alla guerra!

Il 4 aprile 2019 la Libia sprofonda di nuovo nel conflitto. La frattura tra la Bengasi di Haftar (base dell’Esercito nazionale libico) e la Tripoli di Sarraj (base del governo sostenuto dall’Onu) non poteva non estendersi ai combattimenti alla periferia sud-occidentale della città, verso l’aeroporto internazionale a nord e la capitale (la cui popolazione ammonta a un milione e 158 mila abitanti). “Tripoli, bel suol d’amore!”, si cantava nel 1911 nella “guerra di Libia”, più di cent’anni fa, prima che scoppiasse il primo macello mondiale. E’ venuto il tempo, è chiaro, che i mercenari libici delle diverse sponde, al soldo di generali e marescialli al servizio dell’imperialismo, si preparino allo scontro militare! I pick-up Toyota, gli autocarri, le mitragliere, i lanciarazzi di Haftar avanzano in direzione di Tripoli, lungo le autostrade ai margini del deserto libico, e nello stesso tempo i miliziani di al-Sarraj, provenienti da Misurata (schierata con Tripoli), gli si oppongono con un’altrettanta lunga colonna di centinaia di mezzi militari. Il paesaggio è lo stesso di sempre: a est, ai confini con l’Egitto, un reticolo di pipeline, di impianti, di pozzi petroliferi, di oleodotti e gasdotti, a ovest, nell’area di Tripoli, gli stessi impianti, le stesse linee di petrolio.

Intanto, lasciano gli impianti, in fuga, i dipendenti del gruppo Eni, fatti evacuare rapidamente, ma anche i militari americani, i marines: le porte della guerra sono spalancate. Non ci sono problemi di sorta, comunque, per gli approvvigionamenti energetici dell’Italia dalla Libia, che, dopo la scoperta dei giacimenti di Zohr in Egitto, non detiene più il primato di principale produttore del Nord Africa. Un istogramma mostra la produzione di petrolio in Libia (in milioni di barili al giorno: mbg) dal 2000 al 2018 (18 anni): in media, 1,2 mbg, con un massimo di 1,81mbg nel periodo prebellico, che sprofonda nei successivi anni, dopo l’attacco militare del 2011, al suo minimo di 0,39 mbg (fonte FMI).

L’esercito di Haftar ammonterebbe, annota La Repubblica dell’8 aprile, a 25 mila uomini, 1 carro armato, 27 bombardieri, 7 elicotteri da combattimento e 14 elicotteri da trasporto: quanto siano veri questi dati è difficile dire, ma c’è da dubitarne. Intanto, si allunga la massa delle vittime, dei feriti e dei rifugiati civili. Di fatto, raccontano le associazioni mediche, si contano in un solo mese di bombardamenti su Tripoli già 392 morti, 2000 feriti tra cui 90 bambini e 100 donne, oltre a 45 mila sfollati. Più di un migliaio tra questi si trovano proprio nelle aree di combattimento, dove vengono costretti a collaborare con le milizie nel carico e scarico di armamenti e munizioni sui camion o a partecipare alle azioni di guerra, divenendo così, senza alcuna preparazione, veri scudi umani. Dalle cronache di Internazionale (12-18 aprile), sappiamo che i migranti si contano a migliaia e che rimangono intrappolati nei centri di detenzione, controllati per impedire la “migrazione illegale”: centri in cui spesso non si trova da mangiare, e acqua ed elettricità non arrivano. I tentativi di fuggire si fanno più pressanti, i magazzini sono vuoti e la maggior parte delle guardie stesse abbandona le strutture, dove sono racchiusi circa 6 mila migranti e più di 600 bambini, lascito della “prima guerra”, da cui i carcerieri dell’uno e dell’altro fronte traggono miliardi per tenerli imprigionati. Tra questi, i migranti partiti un tempo dalla Somalia, dall’Eritrea e dal Sudan: oltre un migliaio d’essi sono quelli rimandati in Libia, intercettati o soccorsi in mare. Le milizie di questi stessi centri si trasformano in trafficanti di esseri umani che s’infiltrano spesso tra le file dei migranti per rapirli e chiederne il riscatto. Raccontano (ma sembra una favola!) che i morti e i dispersi nella traversata del Mediterraneo ammonterebbero a… 352 e che, un anno fa, sarebbero arrivati in Europa 141.472 migranti.

C’è… speranza, tuttavia, sullo sviluppo della guerra: i fornitori non mancano, un immenso arsenale di armi e armamenti è pronto, non dimenticando che le tribù sono costituite da truppe mercenarie che si vendono e comprano a generali e trafficanti. Tutto questo, mentre si organizzano gli immancabili “accordi di pace”, considerando che i principali leader parteciperanno ai “giochi di guerra” in attesa che le grandi potenze diano il via alla devastazione.

 

Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista)

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