DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Dopo Ben Ali in Tunisia e Mubarak in Egitto, l’altro burattino nordafricano, Gheddafi, esce di scena, con sulla testa una taglia da un milione e mezzo di dollari. In cinque mesi, i micidiali bombardamenti aerei della Nato, a partecipazione diretta francese, inglese e italiana, e regia americana, sembrano aver chiuso la partita. I grossi interessi economici in gioco legati al petrolio hanno concesso all’immensa massa di salariati, di lavoratori immigrati (tra 1,5 e 2 milioni, clandestini a parte) sparsi nelle città, negli oleodotti, nelle raffinerie, solo il tempo di fuggire e di attraversare i confini egiziani, tunisini, sudanesi, centroafricani. Le masse proletarie che, dopo aver acceso la miccia, sono state attaccate dalla polizia e controllate dall’esercito in Egitto e dalle organizzazioni politico-sindacali in Tunisia, in Libia sono state disperse da un’aggressione militare. Il tempo di riconoscere il fantomatico Consiglio Nazionale Transitorio a Bengasi e d’inventarsi un’armata Brancaleone, di mettere insieme un “comitato d’affari” internazionale con l’avallo dell’ONU, e poi l’ennesimo bagno di sangue (20.000 morti? 50.000?). Esemplare la partecipazione del piccolo Qatar, la petrol-monarchia distante migliaia di chilometri, che è intervenuta con i suoi bombardieri e la sua televisione Al Jazeera a dare manforte ai “ribelli” – quello stesso Qatar che ha represso nel sangue gli insorti del Bahrein con l’aiuto dei carri armati della democratica Arabia saudita.

L’impresa finanziaria a nome Gheddafi è stata dunque seppellita sotto il peso della rendita finanziaria e petrolifera benedetta dal Capitale, nella cosiddetta  “Repubblica delle masse popolari” o “Jamāhīriyya. Avendo a suo dire “creato con le sue mani” questa specie di Stato borghese e questa nazione fittizia e dopo essere salito alle vette dell’alta finanza mondiale, nei primi mesi dall’aggressione il rais non riusciva ad ammettere di poter essere liquidato dai suoi fratelli in affari. In particolare, la fuga degli imprenditori italiani – siti industriali (Finmeccanica), oleodotti (Greenstream-Eni), banche (Unicredit), Borse – è stata il segno dell’imminente catastrofe. Quali ragioni, se non gli stessi affari economici e la destabilizzazione di un’intera area, hanno spinto la comunità dei pescecani ad assediare le città libiche? Vano dunque il tentativo di Gheddafi di convincere i suoi amici (i Berlusconi, i Sarkosy, i Cameron, di cui si conoscono le repressioni nella Genova del G8, nella Parigi delle banlieues, nella Londra dei riots) della propria fede democratica, addossando la colpa di tutto a… un intervento di Al Qaeda.

Sorpresa dagli eventi di lotta operaia in Egitto e Tunisia (innescati dall’estrema polarizzazione di miseria e ricchezza), la Santa Alleanza Nato ha rimediato, intrecciando la presa tentacolare in maniera così complessa da rendere irriconoscibili gli avvenimenti. L’embargo sulle armi e il blocco dei capitali all’estero a tempo di record sono apparsi al colonnello come qualcosa d’incomprensibile: non stava forse lottando per impedire che una valanga umana di barbari invadesse le metropoli europee, già superaffollate di migranti? non stava forse proteggendo il capitale internazionale dall’ingerenza del fondamentalismo islamico nell’area? Tragicommedia! Davvero Gheddafi pensava di poter rimanere al centro della scena in eterno solo perché la natura ha messo tanto petrolio in terra di Libia? Non c’è alcun dubbio che i paesi d’Europa e d’America, “amanti della pace”, non abbiano trovato niente di meglio che approfittare della situazione di sommovimento generale per lanciare al mondo un’altra “lezione di democrazia”.

In realtà, il Capitale, impersonale e internazionale, non fugge: ha mobilitato tutti i suoi apparati politici, militari e finanziari per il passaggio di mano. Al centro dell’uragano, milioni di metri cubi di petrolio giornalieri, migliaia e migliaia di chilometri di oleodotti, centinaia di raffinerie, di petroliere, di terminali, di multinazionali, centinaia di migliaia di lavoratori internazionali, di braccia umane in fuga. In nome del petrolio e della divisione delle commesse, il mostro della guerra sta distruggendo quel paese che i dépliants turistici presentavano come uno dei paesi più ricchi dell’Africa, con il più alto reddito pro capite, con la più numerosa e ricca classe media. Ristabilita la buona novella democratica, tutto ritornerà come prima, i lavoratori torneranno presto ai loro posti di lavoro, alla loro “sana e santa” tradizionale schiavitù salariale.

Il processo, guidato dai macellai d’Europa (non ultima l’Italia), è smottato così in ogni direzione. Fin dall’inizio, la schizofrenia interventista ha presentato il conto e gli obiettivi: la probabile divisione della Cirenaica dalla Tripolitania, il sostegno alla guerra civile con l’invio di armi sul mercato nero, l’assoggettamento delle masse dei lavoratori alla causa nazionale, la protezione degli oleodotti, l’istituzione delle sanzioni da parte delle alte sedi internazionali e la messa in piedi di tribunali militari, l’imposizione della no-fly zone, la mobilitazione di navi e portaerei per il pronto intervento a terra e, soprattutto, le infinite bufale giornalistiche e il sensazionalismo delle più disparate corrispondenze televisive sugli avvenimenti. Tutte le tessere del puzzle troveranno, non c’è dubbio, la loro giusta collocazione alla conclusione del conflitto: ogni proposta di ridisegno della mappa economica sarà esaminata e valutata in funzione della partecipazione al massacro.

Chi pagherà le spese? Il proletariato, ovviamente, che sarà costretto a chinare ancor più la schiena per il bene della nuova patria democratica ritrovata, sempre che il tutto non si trasformi in un caos somalo, irakeno, afgano, balcanico (straordinari prodotti dell’interventismo umanitario e democratico!) e sommerga ogni cosa e tutti, nel pieno della crisi di sovrapproduzione mondiale che prelude al prossimo conflitto mondiale.

Quel che si voleva era, fin dall’inizio, spezzare il collegamento orizzontale, anche solo potenziale, fra proletariato tunisino ed egiziano, ma soprattutto tra proletariato maghrebino e mediorientale. Quel che si voleva era mantenere frantumato il grande movimento di lotta delle masse proletarie, che minacciava (e minaccia ancora) di estendersi. Quel che si voleva era dare un’ulteriore dimostrazione della forza micidiale della “democrazia imperialista”. Le contraddizioni sociali, suscitate dalla crisi di sovrapproduzione, hanno raggiunto un primo limite di rottura, e tuttavia ci vuole ben altro perché le masse in rivolta si trasformino in rivoluzionarie. Solo lo sviluppo della lotta di classe a partire dalle metropoli imperialiste risveglierebbe il proletariato dal lungo sonno solo l’aperto disfattismo nei confronti della propria borghesia estenderebbe l’incendio di classe.

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E’ certo che la Libia alla fine diverrà un territorio di caccia: la Conferenza Internazionale di Parigi del 1° settembre ne ha delineato i contorni. Francia e Gran Bretagna guideranno l’arraffa-arraffa, con la Germania che rientra nei giochi e la Russia che riconosce il CNT, e i miliardi congelati che cominceranno a scorrere: i vecchi capitali si batteranno per non essere cacciati fuori e i nuovi cercheranno il loro spazio vitale. Le imprese capitalistiche, la cui produzione è oggi bloccata, saranno costrette a richiamare all’ordine le forze militari, in quanto il crollo dei profitti si dimostrerebbe alla lunga insopportabile. E soprattutto s’imporrà con la forza che la concentrazione spontanea dei proletari, espressa dalla lotta nei centri urbani, rifluisca entro nelle galere aziendali. Una destrutturazione sociale e politica dello Stato libico è, di fatto, avvenuta e ci vorrà del tempo perché l’intelaiatura economica e politica venga rimessa in sesto. Ma gli avvoltoi sono di già all’opera. Solo la guerra poteva spezzare l’unità proletaria costituitasi spontaneamente nel corso della rivolta: l’imperativo politico, per fermare la rivolta sociale nordafricana, era mettere il Consiglio Supremo militare egiziano e il Fronte di unità nazionale tunisino sotto protezione dei bombardamenti nella vicina Libia. Scalzare il colonnello era solo un aspetto secondario: “Che intanto faccia Gheddafi il lavoro sporco”, sembrava di sentir dire nelle cancellerie occidentali, “la funzione di liberatori non ce la leva nessuno!” L’ordine del giorno era “fermare e incanalare la marea dei barbari”.

Mentre ancora bruciavano i commissariati e i palazzi del potere e prima che si scatenassero i bombardamenti, la massa dei senza riserve era costretta a vagare dopo che le era stata sottratta di mano l’azione di lotta dal basso da entrambi i fronti nazionalisti, quello partigiano e quello lealista. L’ammassarsi di migliaia di proletari (egiziani, cinesi, filippini, subsahariani, bangladesi, vietnamiti, siriani, giordani, ecc.) alla frontiera con la Tunisia e di altre migliaia a Bengasi e al confine con l’Egitto, in attesa di essere imbarcati, attestava la presenza di questo massiccio fronte proletario, disperso dalla guerra, che, identificato come mercenario dall’uno o dall’altro, veniva falcidiato senza pietà. C’era da stupirsi che la piccola borghesia guerrafondaia, si fosse arruolata in questo “esercito” dimezzato a far la fila dietro gli aiuti militari paracadutati dal cielo? Il movimento proletario in Africa non ha esperienza sufficiente per vedere in questi governi badogliani la quintessenza del nazionalismo, suo nemico giurato: purtroppo, dovrà impararne a proprie spese il peso e il programma.

Disgregatisi l’esercito e le forze dell’ordine, enormi crepe si sono aperte nella debole struttura politica dello Stato libico. Il cosiddetto Governo Nazionale Transitorio, non avendo la determinazione di un’autorità statale, è divenuto appena una caricatura. I gruppi militari, infatti, hanno potuto improvvisare azioni militari di supporto, non trattandosi di professionisti delle guerre tecnologiche, ma al più di semplici “collezionisti” di armi accumulate nei depositi (un vero è proprio bazar, e non solo di origine italica), in cambio di petrolio, di gas e d’immigrati. Il governo fantoccio, dunque, che rappresenta un settore della piccola borghesia, riceverà in eredità dagli Alleati qualcosa che va di là della sua portata, un immenso debito che il proletariato dovrà pagare a suon di frustate.

L’intervento militare internazionale può spiegarsi in relazione al potenziale di forza espresso nei primi mesi delle rivolte nord-africane dal proletariato, cresciuto numericamente oltremisura in tanti anni e non controllato da organizzazioni sindacali padronali efficienti, da ammortizzatori economici e da illusioni democratiche – un potenziale di forza proletaria integrata sull’intera area mediterranea, scossa dalla profonda crisi economica. Quell’uragano, che nessun panarabismo, nessuna alleanza fra stati, nessuna lingua comune, nessuna ideologia religiosa poteva suscitare, si è abbattuto sul territorio nordafricano e mediorientale, sospinto dalla maturità del capitalismo e del suo proletariato.

Il fondatore della moderna Libia, della “Repubblica delle masse popolari”, “il nazionalizzatore, il petroliere, l’architetto delle trasformazioni idrauliche”, che aveva osato sfidare un tempo anche l’America e la Gran Bretagna, poi accolto in pompa magna nel consesso delle nazioni, che altro poteva fare? Oltre a difendere il petrolio libico e i suoi terminali (petrolio che non è stato mai suo, ma del Capitale impersonale) con tutto il suo arsenale bellico, oltre a minacciare un esodo proletario, non poteva fare altro. Ha cercato di resistere ai bombardamenti, ha lanciato minacce, ha scalciato come poteva, sposando anche la causa complottista accreditata universamente dai Bush e soci – quella della terribile presenza del fondamentalismo islamico infiltratasi nelle file degli insorti.  

Dov’è finito l’alto reddito pro-capite della Libia, che le era riconosciuto dal mondo intero come esempio di eccellenza, dopo quello israeliano? Mentre i suoi compari hanno il tempo, in questo frangente, di accreditare la grande favola democratica della liberazione dai dittatori, a godimento dell’enorme massa piccolo-borghese che se ne sta a bocca aperta ad aspettare che i fichi le cadano in bocca, il colonnello si è trovato nell’occhio del ciclone senza poter più girare la barra del timone: avrebbe anche lui esaltato il grande valore della democrazia americana e della globalizzazione, avrebbe volentieri bruciato il suo “librettino verde” per presa visione della realtà, se gli avessero dato il tempo. Democraticamente, avrebbe dovuto come i manager americani lasciare il posto in silenzio e accontentarsi di una sostanziosa buonuscita, invece di attaccarsi alla sella e alla divisa di colonnello. Ma ci si meraviglia che il Capitale, avanzando anonimo, travolga individui e Stati? Ci si meraviglia che da tempo abbia travolto ogni finzione proprietaria?

 “Se si rompe l’argine libico, decine di migliaia di clandestini, che da mesi sono tenuti ‘prigionieri’ in Libia come carne da lavoro, rinchiusi in centri di accoglienza [sic!], causeranno un esodo biblico”. Sotto l’incalzare della guerra, l’orda proletaria, senza ordine, senza legge, senza un controllo statale e privato, è diventata la metafora dell’estrema paura. La deriva dei migranti in decine di migliaia ha dilagato come un’immensa frana nelle più diverse direzioni. In Grecia, in Spagna, in Italia, lungo i confini si grida all’emergenza sociale.

Il collettore di forza-lavoro Gheddafi, dunque, ha minacciato, spinto dalla strizza maledetta di essere fatto fuori dalla canaglia pezzente, di aprire i cancelli delle galere. Inconsciamente, ha afferrato, in un lampo di follia o di genio, il fatto materiale che la direzione storica dei proletari, gli espropriatori degli espropriatori, è verso e contro la “civiltà” borghese. Temendo come fosse peste la libertà rivoluzionaria dei proletari, venendo in Italia con il suo codazzo di finanziatori e di... amazzoni, ha chiesto che gli fossero concessi 7 miliardi di dollari per sistemare la faccenda. Forse che il diritto d’asilo, il diritto d’accoglienza nel suo deserto, non costano? Non sono stati firmati degli Accordi di cooperazione contro l’immigrazione illegale?

Le macchine statali dei mostri capitalisti lavorano solo in senso controrivoluzionario. Hanno le artiglierie puntate solo contro il futuro, contro la Dittatura del Proletariato. La propaganda antiproletaria che impazza inventando massicce cifre di clandestini, che un tempo, a ogni meridiano e parallelo, imperversava contro zingari, neri, disoccupati, poveri, ebrei, laceri e affamati, disperati, vecchi, malati, è il frutto di un sistema economico che va in cancrena. Allora, predicarono la guerra, “igiene del mondo”: ed è lo stesso intervento chirurgico che apparecchiano adesso!

Masse di senza riserve spinte dalla mancanza di denaro inseguono la possibilità di vendere la propria forza-lavoro. Ogni giorno, attraversano confini, spazi immensi, mari, alla ricerca di terre capitalistiche al cui ingresso sia scritto: Qui, lavoro salariato! E non trovano nulla, soprattutto in tempo di crisi – trovano solo altri lavoratori in marcia, come se un’immensa carestia si fosse abbattuta sull’intera umanità, concorrenti che si dilaniano davanti all’ingresso delle fabbriche. E questa concorrenza ritarda la loro organizzazione e la consapevolezza che la sola via d’uscita da questo orrore passa attraverso la rivoluzione e la dittatura del proletariato.

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°05 - 2011)

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