DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Trent’anni fa, trattando dei sommovimenti che colpivano l’ampia area dal Libano fino al Golfo Persico, scrivevamo sulle pagine di questo giornale che la prospettiva di una “nazione araba”, spesso avanzata da tante parti, si risolveva in verità in un pulviscolo di entità statali, divise da insanabili antagonismi d’interessi, sui quali giocavano per giunta i più vasti interessi e antagonismi delle contese inter-imperialistiche mondiali; e che il solo terreno possibile d’intesa tra queste entità statali era costituito dal sacro orrore per la plebaglia dei diseredati, dei senza-terra, dei senza-riserve, perché la disseminazione di questi ultimi in tutto il Medio Oriente racchiudeva minacce di tensioni ed esplosioni sociali – minacce rese ancor più tangibili quando le braccia vaganti sono armate. Un inganno, dunque, la “nazione araba”, uno specchietto per allodole l’autodeterminazione del popolo palestinese, una tragica menzogna i “diritti dei popoli” dopo quelli della “persona umana”. Ricordavamo quindi la domanda di Trotsky: “Perché dovremmo credere che un problema infinitamente più importante come quello della lotta fra noi che non possediamo nulla e coloro che, proclamandosi nostri fratelli, possiedono tutto e guai a chi glielo tocca, possa essere risolto secondo le forme e i riti della democrazia?”
Così continuava poi quel nostro articolo: “E’ l’era delle grandi guerre di classe per la distruzione di ogni Stato borghese, quella di cui annunciano l’alba nel Medioriente coloro che erano stati i portavoce d’interessi, diritti e ideologie nazionali. Salutiamone l’avvento! Ma la svolta nel Medioriente non finisce qui. Dissolto come neve al sole il mito del panarabismo, sta per dissolversi come neve al sole il mito del panislamismo. La guerra tra Iran e Iraq sta causando infinitamente più morti e distruzioni della fulminea invasione israeliana del Libano [...] ed è una guerra che attinge il lubrificante ideologico indispensabile a ogni carneficina, oltre che nel nazionalismo, in una fede religiosa tuttavia comune ai due belligeranti e soprattutto in una delle parti spinta agli estremi dal fanatismo. E quale lezione non potranno non trarne le masse impoverite, bombardate, disperse, maciullate sui fronti di quest’ennesimo conflitto interstatale negli ultimi tempi felici, se non che ideologie nazionali e ideologie religiose sono parte integrante del sistema che poggia sullo sfruttamento e lo perpetua e che, se era una menzogna l’unità e la fratellanza fra arabi, il panarabismo, lo è altrettanto l’unità e la fratellanza fra credenti nella stessa divinità e osservanti delle stesse leggi divine, il panislamismo? Così per vie accidentate e sanguinose i fatti materiali della storia del capitalismo preparano il terreno, sgombrandolo delle scorie d’ideologie democratiche, nazionalistiche, perfino religiose, sotto il cui ammasso stentano ancora a farsi luce le forze della sua distruzione: forze di classe, forze proletarie” [1].

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Questo scrivevamo trent’anni fa. Nel frattempo, le “vie accidentate e sanguinose” del passato hanno preparato il terreno del presente, sgombrandolo di un ammasso gigantesco di vecchie ideologie. Ma le forze di classe hanno solo potuto seminare: non potevano ancora raccogliere i frutti. In Tunisia e in Egitto, la “festa” con cui è stata accolta la “caduta dei tiranni” dopo le rivolte che per mesi hanno riempito le strade e le piazze ha solo chiuso una prima fase. In un’area ai limiti del deserto, senza una grande storia di lotta di classe alle spalle, di certo non poteva passare il treno della rivoluzione. Eppure, la lotta cova sotto la cenere e spinge verso un risultato più grande: un risultato che non potrà tuttavia ottenere sul piano locale, ma solo su un terreno molto più vasto, internazionale, che coinvolga le metropoli imperialiste. E questa prospettiva è annunciata anche dall’esodo di migliaia di nuovi immigrati che si precipitano sulle coste dell’Europa.

L’intera Africa è un barcone che fa acqua da tutte le parti scivolando verso nord. Le strade delle città costiere si riempiono di poliziotti con i fucili spianati nei punti chiave, con il compito di fermare la marea di fuggiaschi secondo gli accordi imposti dalla forza e dal denaro dei vecchi colonizzatori. Chi rimetterà ordine nelle fabbriche, nelle miniere, nelle amministrazioni, nelle industrie, nell’agricoltura di questi paesi? Chi sarà il curatore fallimentare e quali banche straniere si addosseranno il compito di mettere in circolazione la massa di credito necessaria per riprendere l’attività? E soprattutto: chi dovrà ancora pagare il conto?

E’ solo l’inizio, dunque. In Egitto, dopo le grandi manifestazioni a Suez, a Mahalla, al Cairo, il proletariato è ancora “sequestrato” dalle forze interne della piccola borghesia, dalle sue illusioni democratiche, e, all’esterno, dai carri armati dell’esercito, che detta le condizioni di resa, di ritorno al lavoro, di pace sociale. Dall’interno e dall’esterno, è stato dunque bloccato il cammino che, per istinto, portava lontano da piazza Tahrir, verso l’assalto dei palazzi del potere. Nel corso della sollevazione – non nella sua fase iniziale, pienamente proletaria, ma in seguito, nella forma spuria in cui si è svolta – si sono mescolate classi e sottoclassi. Tutto è rimasto in sospensione, per la mancanza di autentici obiettivi indipendenti che indirizzassero il proletariato, dopo la rivolta iniziale. La democrazia, la dignità, il diritto invocati non hanno nulla da offrire, non solo alle plebi affamate ma nemmeno a quella stessa piccola borghesia che tanto li invoca. Senza la forza organizzata della classe proletaria, senza il suo intervento dispotico e la sua dittatura, diretti e organizzati entrambi dal partito rivoluzionario, nulla può mutare. Quello che ne è seguito è stato solo un cambio di governo: la gestione transitoria potrà venir fuori dalle nomine locali alle prossime elezioni o, molto più probabilmente, dalla “raccomandazione” dei “Grandi elettori” stranieri.

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Che la democrazia, nella sua versione laica o islamica, possa riportare la pace è solo un’illusione. La piccola borghesia che ha cavalcato la lotta del proletariato e di ampi strati di declassati, precari, disoccupati e sottoproletari, non può ottenere la transizione rapida e indolore che vorrebbe. E una transizione che si mostri debole, che non sappia esprimere tutta la propria forza, rimetterebbe a nudo gli aspetti più direttamente sociali e di classe della situazione generale. Occorrono dunque eserciti, occorre dare continuità al comando dello Stato sulla società.

La borghesia in quanto classe sa che avviare un tale processo senza la forza dello Stato sarebbe un suicidio. In questi mesi, tutte le preoccupazioni relative agli strumenti di gestione del potere e dell’ordine sociale sono al centro della discussione politica. L’obiettivo è rimettere in piedi fabbriche, uffici, cantieri, far sparire ogni traccia di quel che è accaduto, rimettendo i salariati al lavoro. La promessa della democrazia e l’operazione politica del consenso (la libertà di stampa, la costituzionalità del nuovo regime, la liberazione dei prigionieri politici) servono solo a dare lustro alla facciata per mascherare il disordine. Le forze politiche che hanno preso in mano il compito di gestire la transizione devono dunque rimettere in piedi lo Stato: il che significa attaccare ogni ulteriore pretesa o richiesta della classe operaia e saziare nello stesso tempo gli appetiti della piccola borghesia, e soprattutto correre incontro rapidamente alle aspettative dei settori della grande borghesia industriale, commerciale e finanziaria che, non avendo alcuna indipendenza né economica né politica rispetto alle gole profonde delle metropoli capitaliste, sono in stato di prostrazione.

La stessa assenza del fattore religioso nella dinamica sociale e politica dimostra la profondità della crisi: è risultato chiaro che la condizione di miseria non può essere mitigata e contenuta solo dagli istituti caritatevoli di controllo. Lo Stato democratico che si vorrà costituire, sempre che si riesca a mettere su l’illusione di un carrozzone più o meno riformista, non può che fondarsi sulla classe media dei servizi, delle banche, del turismo, delle rendite legate alle poche materie prime in Tunisia e alle industrie in Egitto – insomma, su quel ceto medio cresciuto all’ombra del vecchio regime e dello sviluppo capitalistico alimentato pesantemente dall’esterno nell’ultimo decennio.
La “modernità” – come ha abbondantemente imparato la borghesia di qualunque parte del mondo – è il potere di classe gestito all’occidentale, molto più resistente, molto più elastico, capace di incanalare la lotta di difesa immediata del proletariato in un economicismo senza speranza e di rintuzzare la rivolta spontanea di ceti resi del tutto marginali e in caduta libera per effetto della crisi. La piccola borghesia colta, rientrata dall’estero, ha sempre cercato di negare con sdegno l’ovvia constatazione che la rivolta è stata suscitata dalla fame e dalla miseria, ha sempre cercato di far dimenticare la lotta durissima condotta dai lavoratori, ricacciandola in secondo piano, mescolandola e annegandola all’interno di una generica “volontà popolare”. Al posto della realtà tangibile della rabbia e della disperazione, sono state messe le parole vuote di “libertà”, “dignità del popolo”, “nazione”. L’accattonaggio, la povertà, la disoccupazione giovanile, la polarizzazione estrema tra ricchezza e povertà? Tutto esagerato ad arte! Invece, sarebbero stati la corruzione, il malaffare di pochi a produrre il disastro: ma adesso… Adesso, la giustizia e la democrazia faranno pulizia e daranno soddisfazione, gridano i progressisti e dietro di loro gli illusi. E, se i proletari gli daranno retta, se non comprenderanno che la soluzione del rivolgimento sociale è soltanto nelle loro mani e che la democrazia che si vuol istituire è il miglior involucro, la ricetta universale, dell’affarismo e della corruzione, cadranno dalla padella nella brace.
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La “questione operaia” è emersa con forza, in Tunisia, quando le necessità impellenti di sopravvivenza hanno cominciato a esprimersi in forma organizzata nelle manifestazioni in difesa delle condizioni di vita e di lavoro nelle miniere e nei cantieri; e, in Egitto, quando, negli ultimi quattro anni (anni di crisi sempre più profonda), lotte straordinarie hanno dilagato senza soluzione di continuità. La sconcia presenza dell’opportunismo sindacale e politico tunisino, che ha maturato tutta la sua dotazione di nazionalismo in difesa dello sviluppo capitalistico, e del sindacato di Stato egiziano, che ha tentato di stroncare con la forza tutti gli scioperi e le manifestazioni di classe, troverà, non c’è alcun dubbio, il suo posto e il suo ruolo nei governi di unità nazionale. E si tradurrà in una più dura repressione, non appena il proletariato pretenderà il conto dei suoi morti lasciati nelle strade.

Sotto i chiari di luna di una crisi che continua a macinare le sue vittime e che si allarga anche in Siria e nello Yemen, il pranzo di gala della “festa della liberazione” deve fare i conti con questa fame e con questa miseria. La miccia lunga, preparata da anni e accesa alla fine di dicembre, ha fatto scoppiare il barile di polvere mostrando i suoi effetti dirompenti: masse di uomini e donne si sono precipitate nelle strade, hanno preso coraggio, esprimendo liberamente la rabbia troppo a lungo contenuta, si sono scontrati con la polizia e gli sgherri mandati a saggiare la consistenza della resistenza e dell’organizzazione spontanea. Purtroppo, spinti dalla disperazione e dall’idiozia piccolo-borghese, nel corso della lotta hanno accarezzato e corteggiato la morte seduta sui carri armati, vagheggiando una “fratellanza” con una forza nemica: quell’Esercito nazionale, gloria dell’Egitto, costituito da una massa di centinaia di migliaia di uomini armati, che difende le condizioni per cui ricchezza e povertà si trovano ai lati opposti della scala sociale, cioè la proprietà dei mezzi di produzione, dei prodotti, delle condizioni di lavoro – la proprietà privata.

Quest’esercito non poteva passare dalla parte degli insorti, come avviene nelle rivoluzioni e nelle insurrezioni: non c’era una rivoluzione e non era presente in concomitanza il partito rivoluzionario alla guida delle masse proletarie in rivolta ad annunciare la prospettiva di abbattimento dell’Ordine e della Legge borghesi. Il passaggio di poteri, gestito dal Consiglio supremo militare, coadiuvato da un governo fantoccio creato dallo stesso leader autolicenziatosi e poi esautorato come lo stesso Parlamento, ha dimostrato d’essere il normale ricambio da un “regime di emergenza sotto vigilanza” a un “regime in armi”, non necessariamente cruento per adesso, perché nessun pericolo rivoluzionario è mai stato all’ordine del giorno. L’intervento militare (la democrazia sub specie militari) nel caso in cui si sviluppassero processi rivoluzionari era assicurato comunque dai prestiti americani (20 miliardi in 20 anni): una polizza di assicurazione che, dal tempo della pace con Israele in avanti, è stata rinnovata dai regimi di Sadat e di Mubarak. Nessuno dei protagonisti legali o illegali della rivolta ha mai preteso altro, a parte l’illusione democratica e il risveglio dell’orgoglio nazionale – né i Fratelli mussulmani, né le organizzazioni politiche più o meno laiche, né i sindacati statalizzati, né i rappresentanti della pace e del progresso rientrati in patria per addormentare la rivolta spontanea.

D’altra parte, nessun esercito potrebbe assicurare la gestione economica della società: ma gli eserciti che gli Usa hanno diffuso nel mondo intero come colonie di affari, di contractors, di “aiuti umanitari”, di geni civili (infrastrutture, alberghi, terreni) possono farlo. Si tratta di un’economia che garantisce posti di lavoro e distribuzione di risorse alimentari, un settore che, insieme a quello della pubblica amministrazione e dei servizi, promuove redditi non indifferenti. La colonizzazione sociale imperialistica in stretta connessione con la gestione statale di molti settori dell’economia ha creato in ambito militare uno stato economico nello Stato politico. Quest’obesità ha impedito all’esercito di essere uno strumento immediato di repressione. E tuttavia la sua esistenza è fondata sulla repressione dei moti di classe e non passerà molto tempo perché entri in scena (le centinaia di arresti e di processi nel corso degli avvenimenti e subito dopo, nascosti volutamente dai media occidentali e locali, confermano tale funzione).

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L'imbarazzo manifesto (il silenzio sugli avvenimenti, la protezione fino all’ultimo dei vecchi regimi) da parte dei paesi centrali d'Europa, invischiati economicamente fino al collo, fra industrie e banche, non è stato altro che l’espressione della paura del contagio – e non solo dello sconvolgimento politico che si sarebbe potuto verificare nel Maghreb, ma, ancor peggio, del riaprirsi delle ferite mai sanate del Medioriente. Lo spettro che si aggirava sulle acque del Mediterraneo, improvvisamente, mentre si sprigionava l’incendio nei diversi paesi, si è così materializzato in un intervento militare in Libia: non tanto per bloccare in tempo la massa dei migranti che cercava scampo in ogni direzione, quanto per impedire che il fronte di classe potesse mai svilupparsi orizzontalmente, in tutta l’area – un’area già unita, verticalmente, dai grandi interessi economici che legano il Nordafrica alle potenze imperialiste.

L’analisi della realtà nordafricana richiede dunque un’unica lettura politica, quella di classe: e poiché non c’è nulla di arretrato capitalisticamente nell’area, l’apparato e lo sforzo politico della borghesia nazionale dovranno essere sostenuti dai tutori imperialisti – per liberarlo non tanto da sovrastrutture giuridiche e religiose, che hanno fatto il loro tempo, ma soprattutto dal possibile riemergere della questione di classe, nel caso in cui il proletariato osasse portarsi ancora nei prossimi anni all’altezza dei suoi bisogni politici e sociali. Nulla sappiamo per adesso delle avanguardie di classe del proletariato, sommerse dalla festa attaccaticcia. Le organizzazioni sindacali indipendenti, nate dalle lotte in Egitto e in Tunisia, sono state sicuramente schiacciate dal peso della massa e dall’inesperienza, e soprattutto dall’assenza del partito di classe: ma il loro seme darà altri frutti nei prossimi anni.

Un paese di 85 milioni di abitanti (statistiche ufficiali) come l’Egitto, con una massa enorme di proletari, legati alla catena industriale, richiede, in epoca non di guerra, che la macchina produttiva riprenda il suo ritmo produttivo, la produzione e riproduzione del profitto: e questo non è possibile in uno stato di emergenza continua. E’ proprio lo Stato democratico quello che può garantire uno sfruttamento adeguato della massa crescente dei senza riserve: l’esperienza dei colonizzatori di ieri e degli imperialisti di oggi lo conferma. La crescita della popolazione e la massiccia proletarizzazione, la dipendenza alimentare e l’industrializzazione sempre più dipendente e in affanno faranno saltare qualsiasi tentativo di fermare il processo in corso e i tentativi di stabilizzarlo. Nel corso degli anni, lo stato di vigilanza, la dittatura nascosta o velata, la repressione, mascherati sotto la forma della “protezione statale”, hanno alimentato la fame di democrazia e di diritti, soprattutto tra mezze classi sempre in cerca di protezione, di raccomandazioni e di partecipazione economica. Hanno inondato la rete di passaparola, di messaggini, d’immagini distorte, di ubriacature festaiole per bagnare le polveri preparate da lungo tempo.

Poteva la lotta seguire un corso diverso? Poteva porsi obiettivi di classe? Certamente no. Non esistevano, lo ripetiamo, le condizioni oggettive, proprio per il fatto che quelle soggettive, le avanguardie di lotta a cui il partito potesse dare respiro e programma, erano assenti. Non ci sono soggetti rivoluzionari sostitutivi del proletariato, né organizzazioni né forme di organizzazione alternative al partito di classe. Quella solitudine, che pesantemente avvertiamo in ogni lotta economica del proletariato nelle metropoli imperialiste, non poteva qui nel Maghreb trovare la soluzione. I paesi capitalisticamente meno avanzati non ci mostrano affatto la via maestra e il proletariato, anche nei suoi contenuti internazionalisti e internazionali, nella sua immediatezza economica, non può fare dei salti storici senza il partito. Un tempo, i paesi giunti sulla soglia del capitalismo ci hanno mostrato lotte di liberazione nazionale di tutto rispetto, anche in quest’area: ma oggi, chiusa l’epoca di quelle lotte, ci mostrano in brutta copia e in forma accelerata quello che è già successo nelle lotte economiche, nelle rivolte, nelle lotte di classe in Occidente. Affermare che, per il fatto stesso che davanti a noi si mostra solo l’orizzonte della rivoluzione “pura”, lo stato del sistema imperialista abbia annullato per incanto le diversità nazionali ponendo tutti i paesi sullo stesso piano significa non comprendere il materialismo dialettico. Il movimento di rivolta dimostra che solo quella poteva essere la dinamica: non una gigantesca manifestazione di classe, non una rivoluzione.

La stanchezza che ha interrotto la lotta del proletariato è determinata dalla sua stessa condizione di esistenza, dall’essere cioé senza riserve: non può che fermarsi quando il processo mostra di non avere vie di uscita, perché sopravvivere è il suo primo comandamento (che s’impone oltre le ideologie offensiviste), per riprendere in seguito a lottare sotto nuove condizioni. La durata, la resistenza straordinaria, sono state assicurate da un numero molto grande di proletari, dai giovani e dalle donne proletarie. Ma il numero non è sufficiente per durare nel tempo: occorre un’organizzazione di resistenza prima e di combattimento poi che dilaghi per le strade e attacchi il nemico nelle sue roccaforti, i palazzi del potere. Nemmeno questo basta, tuttavia: occorre un’organizzazione non contingente, non improvvisata (che è invece il segno tipico delle rivolte), che si sia messa alla prova in tempi lunghi, stabile, coesa, intransigente. Il risultato della lotta può essere l’organizzazione, e l’organizzazione diviene il vero strumento di lotta: da qui può scaturire una scintilla di coscienza di classe, che spinga per superare i limiti della lotta in corso. A quel punto, si rende evidente la necessità di un’avanguardia capace di dirigere le masse, guidata da una strategia politica non locale ma internazionale: il partito, lo Stato maggiore della classe, che coordina le indicazioni tattiche verso un’unica strategia – quella della presa del potere.



[1] “Dal Libano al Golfo Persico si annuncia una storica svolta: dalle lotte per obiettivi borghesi democratici alla lotta di classe proletaria”, Il programma comunista, n°15/1982.

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°03 - 2011)

 

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