(Da Die Kommunistische Internazionale, nn. 7-8, novembre 1919)

 

 

Un caso fortunato e la proverbiale amabilità di J. Longuet mi hanno messo sotto gli occhi il resoconto stenografico del discorso tenuto dall'onorevole deputato socialista il 18 settembre scorso alla Camera francese, sotto il titolo Contro la pace imperialistica. Per la rivoluzione russa. La sua lettura mi ha immerso per mezz'ora nel clima del parlamentarismo di quest'epoca di putrefazione della repubblica borghese, e mi ha ricordato il salutare disprezzo con cui Carlo Marx parlava dell'atmosfera viziata del parlamento.

Per conquistarsi di colpo gli avversari, J. Longuet comincia col ricordare ai colleghi la misura e la cortesia da cui non si è mai discostato in seno all'esimia assemblea. Egli si associa senza riserve alle «considerazioni, tanto giuste, qui svolte dal collega Viviani con la sua mirabile eloquenza». Ma ecco che, nel momento in cui Longuet vorrebbe adoperare il bisturi della sua critica, i cinici schiamazzatori dell'imperialismo gli tappano la bocca, gridando: «Alsazia Lorena!» Oh, la cortesia è la virtù cardinale di J. Longuet, ed essa gli consiglia di cercare, prima di tutto un terreno d'intesa col nemico. L'Alsazia Lorena! Non ha appena detto, Longuet, che vede nel trattato di pace tutta una serie di paragrafi felicemente concepiti? «Si è alluso all'Alsazia Lorena. Su questo punto, siamo tutti d'accordo»; e, per il momento, Longuet nasconde il suo bisturi critico, che del resto assomiglia piuttosto a una limetta per unghie, nel taschino del panciotto.

Nella sua analisi del trattato di pace, Longuet parte dal concetto di Nazione come lo ha definito niente po' po' di meno che Renan, questo reazionario gesuita senza dio. Da Renan, che deve assicurargli un terreno d'intesa col parlamento nazionalista, egli passa al principio della libertà dei popoli di disporre di se stessi, «proclamato dalla rivoluzione russa e adottato dal presidente Wilson». È appunto «questo principio sì, o signori, questo nobile, questo generoso principio di Renan, Lenin e Wilson», che Longuet vorrebbe vedere inscritto nel trattato di Versailles. Il guaio è che, «in un certo numero di casi (proprio così: un certo numero di casi!), il principio dell'autodeterminazione dei popoli rimane inadempiuto», cosa di cui Longuet si mostra addolorato.

Voci interrompono il cortese oratore: lo si qualifica di avvocato della Germania! J. Longuet si difende energicamente dall'accusa di sostenere la causa della Germania, ove un popolo è calpestato ed oppresso, contro la Francia, nella persona dei carnefici che la governano: «I miei amici in Germania – esclama – erano coloro che insorgevano contro il Kaiser, che subivano anni ed anni di prigione, e alcuni dei quali hanno dato la vita per la causa che noi difendiamo». Di quale "causa" esattamente si tratta? La causa «della riparazione del diritto violato nel 1871», o quella della distruzione dell'ordine borghese? Longuet si dimentica di precisarlo. I cadaveri di Liebknecht e di Rosa Luxemburg gli servono di scudo contro gli attacchi degli imperialisti francesi. Da vivi, gli eroi del comunismo tedesco coprivano di disprezzo i Longuet, questi azionisti del blocco imperialista ad una delle cui ali stava lo zar: da morti, si prestano egregiamente a far colpo sugli operai francesi con la finzione di una supposta amicizia, e a gettare il loro martirio ai cani rabbiosi dell'imperialismo francese come un osso graziosamente offerto.

Finita questo elegante operazione, J Longuet parla dell'«eloquente discorso del nostro amico Vandervelde». Faccio il conto: tre righe appena separano l'evocazione del martirio di Liebknecht e Rosa Luxemburg dall'accenno al "nostro amico Vandervelde". Là dove la vita ha scavato un abisso, là dove fra Liebknecht e Vandervelde non c'è che il disprezzo del rivoluzionario per il rinnegato, l'amicizia del cortese Longuet abbraccia in un solo amplesso l'eroe e il traditore. Ma non basta. Volendo legalizzare la sua stima (nel senso parlamentare del termine) per Liebknecht, Longuet si rifà alla testimonianza del regio ministro Vandervelde, il quale ha riconosciuto (e chi meglio di lui potrebbe saperlo?) che due uomini hanno salvato l'onore del socialismo tedesco: Liebknecht e Bernstein. Ma Liebknecht considerava Bernstein un miserabile lacchè del capitalismo. Ma Bernstein considerava Liebknecht un pazzo e un delinquente. Che importa? Sul palcoscenico del parlamentarismo agonizzante, in quest'atmosfera artificiale di menzogna e convenzione, il cortese Longuet accomuna senza sforzo Liebknecht, Vandervelde e Bernstein, come, poco prima, aveva accomunato Renan, Lenin e Wilson.

I tirapiedi dell'imperialismo in parlamento, tuttavia, non hanno alcuna fretta di seguire Longuet sul terreno comune che egli con la sua eloquenza concima: no, essi non cederanno un pollice delle loro posizioni! Qualunque sia il giudizio di Vandervelde su Liebknecht e Bernstein, i socialisti belgi hanno pur votato per il trattato di Versailles. «Dica, signor Longuet: i socialisti belgi hanno, sì o no, votato il trattato di pace? (Benissimo! Benissimo!)». Ora, lo stesso J. Longuet, per rabberciare in qualche modo, sia pure in ritardo, la propria nomea socialista, si dispone a votare contro il trattato di cui ha preparato l'avvento con tutto il suo contegno passato. Evita quindi, semplicemente, di rispondere. Sì o no? I suoi "amici" hanno, sì o no, votato per lo sconcio, infame trattato di Versailles, intriso di crudeltà, ingordigia e bassezza? J. Longuet tace. I fatti non rilevati dalla tribuna parlamentare sono, in pratica, inesistenti: nulla obbliga J. Longuet a ricordare le turpi azioni del "suo eloquente amico Vandervelde", quando ha la possibilità di citarne i fioriti, stilizzati discorsi...

E poi... Vandervelde! Il Belgio! La violazione della neutralità! «Su questo punto, siamo tutti d'accordo»; tutti denunciamo questo attentato all'indipendenza del piccolo paese! È vero che anche i tedeschi hanno protestato, un po' in ritardo. Che farci? Così va la storia. «La coscienza del popolo oppresso e ingannato si ridesta solo lentamente, per gradi – spiega malinconicamente Longuet – Non è avvenuto lo stesso da noi, quarantasette anni fa, dopo la caduta dell'Impero?» E, nello stesso istante in cui i tirapiedi del capitalismo aguzzano le orecchie in attesa che Longuet dica, chissà mai: il nostro popolo non sopporta ancor oggi i vostro gioco? Non è ingannato, calpestato, avvilito, da voi? Non è trasformato nel boia delle nazioni? Si è mai vista un'epoca in cui un popolo, per volontà e tirannide dei suoi governanti, abbia sostenuto una parte indegna, più criminale, più assassina, di quella oggi recitata dal popolo francese asservito? – in questo preciso istante, il cortese Longuet scarica quarantasette anni dalle spalle del popolo francese per mettere a nudo la banda di violentatori criminali che inganna e calpesta il popolo non nel vittorioso governo di Clémenceau, ma in quello di Napoleone III da tempo abbattuto e ormai di gran lunga superato nelle sue turpitudini!

Ma ecco il cortese parlamentare riprendere in mano il suo bisturi innocuo. «Voi sostenete Noske e i suoi 1.200.000 soldati, che possono formare domani, contro di noi, i quadri di un esercito poderoso». Straordinaria accusa! Perché mai questi rappresentanti della Borsa non dovrebbero sostenere Noske? Il vincolo di un odio comune contro il proletariato rivoluzionario li unisce! Ma questa, che è la sola, la vera questione, per J. Longuet non esiste. Egli vorrebbe intimorire i suoi colleghi con lo spettro dell'esercito di Noske in marcia "contro di noi". Contro chi? Noske ammazza Rosa Luxemburg, Liebknecht e gli Spartachisti. "Contro di noi" forse contro i comunisti francesi? No, contro la Terza Repubblica, contro l'anonima statale Clémenceau-Barthou-Briand-Longuet.

Di nuovo l'Alsazia Lorena. Di nuovo «su questo siamo tutti d'accordo». Certo, è spiacevole che non si sia tenuto un plebiscito, tanto più che "noi" non avevamo nulla da temerne. Del resto, le prossime elezioni ne terranno il posto. Nel frattempo, il signor Millerand eseguirà in Alsazia-Lorena il patriottico lavoro di epurazione e educazione necessario affinché il futuro plebiscito possa definitivamente conciliare la delicata coscienza giuridica di J. Longuet con le dure realtà della politica Foch-Clémenceau. Longuet implora una cosa sola: che questo lavoro di epurazione sia eseguito con misura, onde «non mettere a repentaglio le simpatie profonde dell'Alsazia e della Lorena per la Francia». Umanizzate un tantino Millerand, e tutto andrà per il meglio in questo migliore dei mondi possibili...

Il capitale francese si è impadronito del bacino carbonifero della Saar. Non si tratta, qui, di «riparazioni di diritti violati», e nessun cronista zelante ha trovato sul posto delle «simpatie profonde». Qui non v'è che un atto di banditismo aperto, chiaro come la luce del sole. Longuet ne è addolorato. Longuet ne è afflitto. Considerazioni umanitarie a parte, «il carbone della Saar non è, dicono gli esperti, della qualità migliore». Non si poteva, chiede Longuet, ottenere dalla Germania crocifissa il carbone a "noi" necessario prendendolo nel bacino della Ruhr? Avremmo un carbone di qualità di gran lunga superiore, e ci risparmieremmo le difficoltà parlamentari in tema di autodecisione dei popoli. Non c'è che dire: al signor deputato, il senso pratico non manca.

Certo, Longuet è internazionalista. Lo riconosce egli stesso, e chi meglio di lui potrebbe saperlo? Ma che cos'è l'internazionalismo? «Noi non l'abbiamo mai concepito nel senso della menomazione delle patrie, e la nostra è così bella, che non abbiamo bisogno di contrastare gli interessi di nessun'altra nazione». (Coro degli amici: Benissimo! Benissimo!). L'internazionalismo di Longuet impedisce affatto a questa bella patria, di cui Foche e Clémenceau dispongono a piacere, di utilizzare l'alta qualità del carbone della Ruhr. Basta che lo si faccia nel rispetto della tornite forme parlamentari, che, come si vede, tutti i nostri amici approvano.

J. Longuet passa quindi all'Inghilterra. Se, nel giudizio sulla politica del suo paese, si era fatto scudo di Renan, in compagnia altrettanto rispettabile ora scende nell'arena della politica britannica. Non potendo fare a meno di parlare dell'Irlanda, «mi si conceda di ricordare i grandi uomini di Stato inglesi, Gladstone, e Campbell-Bannerman»: se l'Inghilterra avesse concesso la libertà all'Irlanda, la federazione fra i due paesi sarebbe un fatto bell'è compiuto.

Avendo così assicurato il bene dell'Irlanda coi metodi del grande statista Gladstone, J. Longuet inciampa in nuove difficoltà: anche la Francia ha più di una Irlanda. Longuet cita la Tunisia «Permettetemi, signori, di ricordarvi che questo paese ha sostenuto per la Francia, durante la guerra, i più nobili e gravi sacrifici. Dei 55.000 combattenti che Tunisi ha dato alla Francia, circa 45.000 sono rimasti uccisi o feriti: lo dicono le cifra ufficiali. E noi abbiamo ragione di affermare che questa nazione ha conquistato con i suoi sacrifici il diritto a un po' più di giustizia e a un po' più di libertà». (Coro degli amici: Benissimo! Benissimo!). Poveri, infelici arabi tunisini gettati dalla borghesia francese nel crogiolo ardente della guerra, triste carne da cannone che si è immolata sui campi di battaglia della Somme e della Marne, senza sapere per chi e per cosa, come i cavalli in arrivo dalla Spagna e i buoi in arrivo dall'America! Questa disgustosa vergogna sul cupo teatro della guerra è presentata dal J. Longuet come un nobile, alto sacrificio che, prima o poi, la libertà dovrà coronare. Dopo le chiacchiere insulse sull'internazionalismo e sull'autodecisione dei popoli, il diritto degli arabi tunisini ad uno straccetto di libertà diventa una specie di mancia, che la Borsa, generosa perché ben pasciuta, cedendo alle sollecitazioni di uno dei suoi sensali in parlamento getta ai propri schiavi! No, non c'è limiti allo sfacelo del parlamentarismo!

Ma veniamo alla Russia. Col tatto che lo distingue J. Longuet rivolge, a guisa di introduzione, un inchino profondo a Clémenceau: «Non abbiamo qui unanimemente applaudito il signor Clémenceau quando, dall'alto di questa tribuna, ci ha letto il paragrafo che annulla l'indecorosa pace di Brest-Litovsk?» All'evocazione della pace di Brest-Litovsk, J. Longuet dà in escandescenze: «La pace di Brest-Litovsk – esclama – è un monumento alla crudeltà e dell'impudenza del militarismo prussiano». Longuet sprizza fulmini e tuoni. È chiaro: le folgori parlamentari contro il trattato di Brest-Litovsk, che la rivoluzione si è da tempo messa sotto i piedi, compongono per le delicate operazioni critiche dell'onorevole deputato sulla pace di Versailles uno sfondo dei più felici.

J. Longuet si dichiara per la pace con la Russia dei Soviet. Inutile dirlo, in modo non compromettente, dio guardi! Longuet conosce alla perfezione la giusta via che condurrà alla pace: lo stessa che prese Wilson, quando inviò nella Russia sovietica il suo plenipotenziario Bullitt. Il senso e il fine della missione Bullitt sono ormai sufficientemente noti. Le sue condizioni rappresentavano una copia aggravata delle clausole di Von Kühlmann e Czernin a Brest-Litovsk: smembramento della Russia da un lato, sua spoliazione economica dall'altro. Ma... cerchiamo per le nostre variazioni oratorie qualcosa di diverso, Wilson (e chi non lo sa?) è fautore dell'autodecisione dei popoli, mentre Bullitt... «Considero il signor Bullitt come uno degli uomini più onesti, più leali, meglio intenzionati, che abbia mai conosciuti». Che piacere, imparare dal signor Longuet che alla Borsa americana l'integrità è pur sempre quotata, e che in seno al parlamento francese esistono deputati in grado di valutare al giusto prezzo la virtù americana!

Resa così giustizia alla benevolenza dei signori Clémenceau e Bullitt verso la Russia, Longuet non lesina i suoi elogi alla Repubblica dei Soviet. «Nessuno crederà – dice – che il regime sovietico si sia potuto mantenere per due anni, se non avesse dalla sua le più larghe masse del popolo russo. Senza di ciò, non avrebbe potuto allestire un esercito di 1.200.00 uomini, che è guidato dai migliori ufficiali della vecchia Russia e combatte con l'entusiasmo dei volontari del 1793». Eccoci al punto culminate del discorso del signor Longuet. Ricordando gli eserciti della Convenzione, egli si immerge nella tradizione nazionale, dissimula tutti gli antagonismi di classe, si unisce in eroici ricordi a Clémenceau, e, nello stesso tempo, crea una formula storica per l'adozione indiretta della Repubblica dei Soviet e dell'esercito sovietico da parte dell'Europa.

Questo è Longuet. Questo è il socialismo ufficiale francese. Questo è, nella sua espressione particolarmente "democratica", il parlamentarismo della Terza Repubblica. Routine e fraseologia, astuzia e vuotaggine, menzogne dolciastre, giri e rigiri di un avvocatucolo che, in tutta serietà, scambia la sua miserabile tribuna per l'arena immensa della storia!

Nell'ora in cui la lotta fra le classi divampa in tutta la sua asprezza, nell'ora in cui le idee storiche appaiono armate fino ai denti e, nella loro contesa, è il ferro che decide, quale umiliazione, quale offesa per la nostra epoca, i "socialisti" alla Longuet! L'abbiamo visto: si inchina a destra, fa una riverenza a sinistra, eleva preci al grande Gladstone che tradì l'Irlanda, si genuflette a sua nonno Carlo Marx che odiava e disprezzava l'ipocrita Gladstone, e tesse le odi del beniamino dello zar, Viviani, primo presidente del consiglio della guerra imperialistica. Accomuna Renan e la rivoluzione russa, Wilson e Lenin, Vandervelde e Liebknecht; poggia i "diritti dei popoli" sul piedistallo del carbone della Ruhr e delle ossa degli Arabi tunisini; e compiute queste mirabolanti imprese, di fronte alle quali inghiottire della stoppa ardente è un gioco da bambini, rieccolo davanti a noi, cortese incarnazione del socialismo ufficiale, mirabile coronamento del parlamentarismo francese.

È tempo di finirla con questo lungo malinteso. I problemi e i compiti che la classe operaia francese deve risolvere sono troppo grandi, e posti con troppa crudezza, perché si possa sopportare oltre la convivenza dell'ignobile longuettismo con la grande realtà della lotta proletaria per la conquista del potere. Più di qualunque altra cosa, abbiamo bisogno di chiarezza e verità. Ogni operaio deve sapere esattamente chi è l'amico e chi il nemico, chi il compagno d'armi fidato e chi il vile traditore. Liebknecht e Rosa Luxemburg sono nostri: Longuet e Vandervelde devono essere gettati con la borghesia, senza pietà, nello stesso immondezzaio, da cui cercano invano di sgattaiolare per la via socialista. Il nostro tempo esige idee chiare e parole franche, preludio a gesti franchi ed atti chiari.

Via da noi i logori scenari del parlamentarismo, i suoi chiaroscuri, le sue illusioni ottiche. Il proletariato di Francia ha bisogno dell'aria schietta e pura della sua strada, di un'idea precisa in testa, di una ferma volontà in cuore, di un buon fucile in mano. L'igiene politica chiede con urgenza che si faccia piazza pulita del longuettismo. E se il discorso del signor Longuet ha destato in me un sentimento per il quale il troppo cortese linguaggio parlamentare non trova un'espressione adatta, al temine di questa lettera io penso con gioia al magnifico lavoro di pulizia che l'ardente proletariato di Francia eseguirà nel lurido e cadente edificio della Repubblica borghese, quando si appresterà ad assolvere il suo ultimo compito storico.

 

 

 

Trotzki

 

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