Abbiamo scarne notizie degli scioperi che, dall’inizio dell’anno, hanno interessato tutti i settori produttivi – industriali, agricoli e dei servizi. Le azioni si sono manifestate a ondate successive: prima, i lavoratori delle fabbriche di cemento, poi quelli degli allevamenti, nel contempo i minatori e i lavoratori dei servizi, dei trasporti urbani, delle ferrovie e della sanità. Ultimi in ordine di tempo, a fine settembre 2007, i lavoratori del settore tessile (27.000), che hanno iniziato una serie di scioperi illegali. Ma la tensione aveva raggiunto il massimo già ai primi di dicembre dello scorso anno, quando le donne per prime avevano dato inizio all’agitazione, spingendo all’azione i  compagni dei reparti e riunendosi nella piazza antistante la fabbrica della Misr Spinning and Weaving Company, una delle più grandi industrie tessili dell’Egitto, di proprietà pubblica, a Mahalla, a nord del Cairo. Rivendicavano il pagamento degli aumenti salariali promessi: un premio di produzione di due mensilità, l’ultimo dei quali ricevuto 24 anni fa! La manifestazione era riuscita a radunare fino a 10.000 operai davanti alla fabbrica.  Per opporsi  al forte ribasso degli stipendi reali, era stata presa allora la decisione di occupare la fabbrica. L’offerta di un premio corrispondente a 21 giorni era stata subito rifiutata. Per far uscire i lavoratori dalla fabbrica, la polizia aveva tagliato l’acqua e l’elettricità alla fabbrica, ma non era riuscita a impedire l’arrivo da altre città di altri 20.000 lavoratori tessili, che manifestavano la loro solidarietà. Il quarto giorno dell’occupazione della fabbrica, gli inviati del governo, terrorizzati, avevano offerto un premio di 45 giorni di stipendio, con l’assicurazione che la compagnia non sarebbe stata privatizzata. A quel punto, lo sciopero era stato sospeso: i lavoratori avevano in parte raggiunto il loro obiettivo. Da allora, però, si sono estese le agitazioni nello stesso settore tessile ed è aumentata la solidarietà classista, fuori e contro l’organizzazione sindacale governativa che, messa fuorigioco dai comitati di lotta indipendenti, tentava di riprendere il controllo degli avvenimenti. La ripresa della lotta nelle ultime settimane di settembre è ridivenuta esplosiva. Infatti, i lavoratori, riorganizzate le fila, si sono radunati di nuovo davanti alla stessa fabbrica di Mahalla, epicentro del movimento, come avevano fatto a dicembre, l’hanno rioccupata e per cinque giorni hanno organizzato uno sciopero ad oltranza, scavalcando l’organizzazione sindacale statale. A questo punto (Manifesto del 25 settembre), la polizia si è scatenata con durezza: molti gli arresti e molti i feriti tra i lavoratori. Dopo un anno di lotte e nelle condizioni di estrema miseria a cui sono condannati i lavoratori del tessile (i salari in tutto l’Egitto oscillano tra i 50 e i 60 euro mensili), il padronato ha temuto fin dal primo istante che gli aumenti potessero innescare un processo a catena che dalle fabbriche del tessile si estendesse a tutte le altre fabbriche, con le medesime rivendicazioni. Infine, il primo di ottobre il Consiglio di amministrazione della fabbrica ha ceduto e i lavoratori hanno ottenuto gli aumenti salariali  e i premi di produzione richiesti (Manifesto, 2/10). La lotta ha sbaragliato i sindacati ufficiali e ha visto la nascita di comitati di lotta di base: e ridarà sicuramente forza al movimento operaio egiziano, schiacciato sotto la continua crescita dei prezzi dei generi alimentari, in un mare di folle immiserite e proletarizzate ridotte alla fame. Si teme che il governo possa annunciare presto l’aumento del prezzo del pane e di altri generi di largo consumo, mentre i dati ufficiali parlano di una crescita straordinaria del PIL egiziano del 7%. Uno dei leader della lotta dei tessili, arrestato nel corso degli scontri, afferma che “occorre liberarsi del sindacato ufficiale che protegge gli interessi dei padroni e non dei lavoratori, i sindacalisti devono essere eletti da chi lavora e non dallo Stato”. Ma non ritirino la guardia i lavoratori! Si aprirà da questo momento la risposta politica dello Stato: diffamazione, controlli, arresti individuali e di gruppo. Ricordino i lavoratori più combattivi che l’organizzazione della lotta di difesa economica, indipendente dai padroni e dallo Stato, è solo una prima parte del compito. Senza l’organizzazione in Partito la classe non potrà consolidare la vittoria che oggi ha ottenuto.

USA: alla General Motors, il sindacato ha vinto e gli operai hanno perso    

La trattativa, che durava da dieci settimane, sembrava arenata. Il sindacato aziendale della General Motors, l’United Automobile Workers (UAW), aveva pure dichiarato un bell’“ultimatum” all’azienda e i 73.000 lavoratori aderenti al sindacato erano scesi in sciopero, avevano lasciato i posti di lavoro e cominciato i picchetti davanti alle fabbriche. Ma poi lo sciopero l’hanno fatto durare appena due giorni: quel tanto per far scena, per far intendere che si voleva fare sul serio (il management sindacale e quello della GM erano in forte pericolo di essere licenziati se non... chiudevano in bellezza!). I drastici provvedimenti di eliminazione di posti di lavoro (da 310.000 a 180.000) nell’arco di tre anni (dal 2003) operati dalle tre case automobilistiche – GM, Ford, Chrysler – richiedevano il teatrino della “dura trattativa” e un bel colpo d’ala. Ci sono riusciti! Le manifestazioni previste riguardavano diversi stabilimenti della GM nel Michigan, nel Kansas e nellOhio (almeno 80 impianti). Nella grande e democratica America, come si sa, fare sciopero è quasi impossibile: in primo luogo, perché le organizzazioni sindacali, spesso puramente aziendali, difendono solo gli iscritti e funzionano come vere e proprie agenzie private (i 950 milioni di $ nella cassa dell’UAW destinati alle agitazioni, $200 a settimana per ciascun iscritto, versati negli anni dai lavoratori, come riferisce Il Sole–24 ore del 26/9, avrebbero permesso al sindacato di far durare a lungo lo sciopero); in secondo luogo, perché il licenziamento è garantito, e la rappresaglia aziendale agisce coperta dalla legge. La situazione di stallo in cui si era arenata la vertenza contrattuale vedeva un’azienda in crisi, incapace di esportare modelli ormai obsoleti (soprattutto di fronte alla concorrenza giapponese), e il piano di rilancio, che l’avrebbe dovuta riportare agli allori di un tempo, non decollava con la dovuta rapidità. La concertazione, faccia a faccia con l’azienda (negli USA, non si ha bisogno di autorità governative a far da palo), ha raggiunto il suo obiettivo: l’agenzia sindacale UAW ha portato a casa una bella vittoria, i metalmeccanici hanno perso. Lo sciopero-farsa si imponeva per il fatto che la crisi dell’auto ha già colpito sia i salari che l’occupazione, e quindi occorreva fare la faccia dura se si voleva afferrare al volo il business. La situazione era diventata insopportabile e richiedeva, non un piccolo accordo in difesa delle condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori, ma un grosso accordo in favore del sindacato. La crisi che sta mordendo il cuore dell’industria (anche a Wall Street il titolo continuava a perdere punti) è crisi irreversibile. “Dalla metà degli anni ottanta il 40% del mercato statunitense della GM è sceso al 24 %, il costo del lavoro pesa da 25 a 30 dollari in più l’ora rispetto ai giapponesi” (Il Sole-24 ore del 27/9). Uno sciopero generale, che si annunciava di così vasta portata, non si ricordava dall’inizio degli anni Settanta, e allora era durato più di due mesi... In seguito, gli scioperi si sono ridotti a piccole schermaglie “impianto per impianto” (l’ultimo risale al 1998), con risultati nulli, anche perché poi quegli impianti venivano chiusi. La dichiarazione di sciopero e la falsa “rottura” della trattativa dovevano far apparire pesantissime le prossime vertenze contrattuali alla Chrysler e alla Ford (anch’esse in crisi, e ben più della GM), le cui perdite ammontano a 15 miliardi di dollari nel solo 2006. Secondo i media, lo scontro si annunciava durissimo, perché poteva radunare un vasto fronte di lotta, coinvolgendo tutta la catena di aziende fornitrici e di società collegate, e la propaganda faceva già i conti delle perdite che avrebbe subito l’economia nazionale (“un punto percentuale del PIL”). La richiesta che faceva gola all’UAW era la gestione dell’assistenza sanitaria (il passaggio al sindacato di un fondo battezzato Veba, di oltre 50 miliardi di $ per gli oneri sanitari ai futuri lavoratori in pensione, finanziato solo da un versamento iniziale dell’azienda di 35 miliardi di $ in contanti e titoli) – assistenza che, a detta della GM, impediva di essere competitivi nei confronti del Giappone (risparmiando 14 $ per dipendente). In discussione erano poi altre questioni: il prepensionamento di 20.000 lavoratori e l’assunzione di nuovi addetti (4.000) con salari ridotti e l’eliminazione della pensione aziendale, con piani di risparmio volontari (Il Sole-24 ore, 26/9). Sulla succulenta gestione del fondo, la lobby sindacale non ha avuto dubbi: ha preso in blocco la gigantesca quota di salario differito e si è “addossata” la gestione del fondo non rimettendoci niente, perché di anno in anno i due partner si incontreranno per verificare le condizioni del fondo. Una concertazione che in Italia farebbe saltare di gioia i sindacati tricolore: chi sono i padroni? chi sono gli imprenditori? chi sono gli azionisti? Immaginiamo il piacere della vittoria del management sindacale americano, dopo aver sniffato il profumo di dollari! Smantellati i picchetti, il titolo GM ha guadagnato il 9%. Quanto agli altri aspetti puramente contrattuali: nessun aumento salariale in busta paga, ma solo premi una tantum e bonus in garanzia di un’accentuata flessibilità e ritmi di lavoro accresciuti; per i più anziani, pacchetti di azioni e per i nuovi assunti… compensi dimezzati, La prossima settimana, ci sarà la ratifica del contratto da parte degli iscritti (democrazia, democrazia!!!) e poi... amen.

P.S.: Si era appena chiuso, in fretta e furia, lo sciopero alla General Motors, che l’UAW ne ha proclamato un altro alla Chrysler, per la prima volta dal 1997 – sempre per il rinnovo del contratto, hanno incrociato le braccia altri 45mila lavoratori. Naturalmente, belli separati dai loro compagni della GM, per carità! Non sia mai che si scenda in lotta tutti uniti (se non altro nel proprio comparto)! Divide et impera, si diceva un tempo.

Bangladesh: ancora i lavoratori tessili

 

Una breve notizia, passata quasi inosservata nella stampa internazionale: da tempo, i due milioni di lavoratori tessili del Bangladesh sono in agitazione per ottenere salari più alti e migliori condizioni di lavoro, visto che le misure di sicurezza nelle fabbriche sono quasi inesistenti (una vecchia storia, questa, nell’industria tessile di tutto il mondo: basti ricordare la tragedia della fabbrica Triangle Shirtwaist Company di New York, nel 1911, in cui morirono 146 giovanissime lavoratrici, o, nel 1991, l’incendio nella fabbrica di impermeabili nel Dongguan, in Cina, in cui morirono 81 lavoratori... Gli esempi potrebbero continuare). In questo caso, la notizia di un incidente mortale in una fabbrica tessile della capitale Daccah ha scatenato la rabbia dei lavoratori, che sono scesi in piazza armati di pietre e bastoni, spaccando quel che trovavano sulla loro strada e scontrandosi a più riprese con la polizia. Un centinaio di feriti, molti arresti, e “la chiusura a tempo indeterminato di un centinaio di industrie tessili nell’area della capitale” (Manifesto, 15/9). Le agitazioni continuano, ma ben poco si riesce a sapere dalla stampa, libera e democratica.

 Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°05 - 2007)

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