La condizione proletaria nel mondo è regolarmente trascurata dai media e oscurata dalla spettacolarità sensazionalistica di movimenti democratici e piccolo-borghesi e dispedizioni di guerra.  Solo di tanto in tanto filtra qualche notizia. Veniamo così a sapere [1] che in Bangladesh i proletari conducono da tempo battaglie coraggiose per la difesa delle proprie condizioni di vita e di lavoro. Dopo Cina e Vietnam, il Bangladesh è il terzo paese fornitore dell’UE in tessuti d’abbigliamento (un miliardo di magliette ci arrivano ogni anno: rappresentano l’85% della produzione tessile del paese, il 13% del PIL): il settore tessile è infatti uno dei settori-chiave dell’economia dell’Asia sud-orientale, una storia che viene da lontano e che s’intreccia a quella del colonialismo britannico. In particolare, il Bangladesh è fornitore privilegiato delle grandi multinazionali della distribuzione (Wal-Mart, Carrefour, Marks & Spencer) e delle marche di confezione (Tommy Hilfiger, Gap, LevyStrauss, ecc.). La manodopera impiegata nel settore rappresenta quasi il 40% della manodopera industriale del paese: sottopagata (l’equivalente di 17 euro al mese), ipersfruttata (fino a 80 ore settimanali, fino a 17-18 ore giornaliere con straordinari non pagati…), afflitta dalla piaga dei subappalti che vogliono dire condizioni di lavoro impressionanti, sicurezza ridotta al minimo, ricatto incessante. Per limitarci a un esempio (gli incendi sono comunissimi nel settore, per i materiali altamente infiammabili e la densità e precarietà dei luoghi di lavoro), il 14 dicembre 2010, in un incendio in una fabbrica alla periferia di Dacca, del gruppo Hamee che subappalta soprattutto per Carrefour e H%M, sono morti 28 tra lavoratori e lavoratrici. In un paese in cui il 40% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà, in cui pauperizzazione e campagne immiserite spingono masse enormi verso le grandi città, in cui mancano grandi risorse naturali e tifoni e uragani distruggono a più riprese interi villaggi, l’esercito proletario e quello industriale di riserva si gonfiano a dismisura.

In questa situazione, i proletari bengalesi (e le donne in prima fila) non hanno tardato a farsi sentire. Dopo le rivolte della fame del 2008, non è passato anno senza che si verificassero grandi dimostrazioni – in modo particolare a partire dal maggio 2010, con la mobilitazione di oltre 50mila operai e operaie organizzati nel Garment Workers Unity Forum (GWUF), la sistematica repressione da parte dell’esercito, decine di morti e centinaia di feriti. Le richieste sono quelle classiche: aumenti di salario fino all’equivalente di 51 euro al mese, un giorno di riposo settimanale, pagamento regolare delle ore lavorate e degli straordinari, congedi riconosciuti per maternità, riconoscimento dell’organizzazione sindacale. L’accordo del 29 luglio 2010, firmato dai soliti traditori sindacali, prevedeva invece un aumento del salario minimo fino all’equivalente di 30 euro mensili, e così le agitazioni sono riprese, le accuse di “intesa con lo straniero” (!) hanno cominciato a circolare da parte del governo, l’esercito è intervenuto a più riprese, ci sono stati quattro morti in dicembre.

Le agitazioni continuano e cercheremo di seguirle. Vada intanto il nostro saluto ai coraggiosi proletari bengalesi!



[1] Le Monde Diplomatique-Il Manifesto, aprile 2011.

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°03 - 2011)

 

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