Appena prima di metà dicembre, una furiosa sventagliata di tornados s'è abbattuta su una fascia che va dall'Arkansas al Tennessee e al Kentucky, giungendo fino all'Illinois e colpendo così alcune delle regioni fra le più povere del Paese. Le immagini restituiscono tutta la drammaticità dell'evento: case, spesso di legno o di struttura molto precaria o provvisoria, rase completamente al suolo come se ci fosse passata sopra una gigantesca ruspa, un unico ammucchiarsi di detriti. Le vittime si calcolano in parecchie decine, i senza tetto in parecchie centinaia, i danni incalcolabili.

Ora, lasciamo perdere la questione dei “disastri naturali”: l'abbiamo affrontata più volte sulla nostra stampa nel corso di decenni (e comunque rimandiamo all'articolo più recente, “Ambiente e capitalismo”, comparso sul numero 5-6/2021 di questo giornale). C'importa invece mettere in rilievo un episodio sintomatico del rapporto fra Capitale e disastri.

Mentre infuriava il tornado, alla fabbrica di candele di Mayfield (Kentucky) il lavoro del turno di notte è proceduto come se niente fosse: nessuna interruzione alla produzione, nessun allarme, e i 110 lavoratori hanno dovuto continuare a sgobbare nonostante le richieste di sospendere tutto e l’evidente preoccupazione per sé e per le proprie famiglie (in una drammatica diretta Facebook, una voce ha ripetutamente gridato: “Siamo intrappolati, aiutateci per favore, per favore!” – come in un “incidente” in miniera)... Il risultato? Almeno otto lavoratori e lavoratrici morti schiacciati dalle strutture accartocciate, per il rifiuto della direzione di interrompere la produzione. Otto lavoratori e lavoratrici, che vogliono poi dire altrettante famiglie, private (oltre che, con ogni probabilità, della casa) di quel magro salario sudato giorno dopo giorno: paghe basse, due turni giornalieri di 10-12 ore (vedi The Guardian del 26/12/2021). Viene subito da pensare alle fabbriche o ai magazzini della logistica, tenuti ostinatamente aperti ovunque nel mondo allo scoppio della pandemia nei primi mesi del 2020 e trasformatisi in devastanti focolai d’infezione…

Voltiamo pagina e, su quelle del New Yorker dell'8/11/2021, solo poche settimane prima del “disastro” di Mayfield, leggiamo un'altra notizia emblematica delle condizioni di vita e di lavoro nel Paese capitalisticamente più sviluppato. Un lungo articolo intitolato “I lavoratori migranti che seguono i disastri climatici” ci ragguaglia su questo “crescente gruppo di lavoratori che insegue uragani e incendi, come fanno i migranti agricoli con i raccolti, impiegandosi per grosse ditte che si occupano del recupero post-disastro, dovendo così affrontare la minaccia di sfruttamento, di incidenti e di morte”. A quanto pare, nell'enorme serbatoio della manodopera precaria che si gonfia a ogni crisi successiva, questo settore ultra-precario e ultra-sfruttato (composto per la grande maggioranza di immigrati più o meno clandestini, e dunque a buon mercato e ricattabili) è in grande espansione, a seguito anche della pandemia di Covid-19: il Capitalismo produce disastri, e poi sfrutta selvaggiamente chi deve ripulire e rimettere in ordine.

Attraverso le testimonianze dirette di alcuni di questi migranti, in poco più di trenta pagine l’articolo ci offre uno scenario impressionante delle condizioni in cui questi lavoratori e lavoratrici sono costretti a operare, fra impianti elettrici ancora attivi sotto le macerie, rifiuti tossici di ogni genere prodotti da industrie od ospedali, polveri asfissianti, muri e ponti pericolanti, acque inquinate da residui chimici e fognature spaccate, e tutto quello che si può immaginare dopo un uragano, un'inondazione, un incendio. Un disastro dentro al disastro, per l'appunto.

Vecchia storia, questa. L'autore dell'articolo ricorda che, nell’anno 1900, l'uragano più devastante della storia del Paese colpì e distrusse interamente la cittadina di Galveston, nel Texas: in quell’occasione, furono “inviati soldati bianchi che obbligarono, fucili puntati, gruppi di neri a farsi carico in prima linea del più orribile lavoro che una città debba mai affrontare, incluso il caricare a mani nude su chiatte decine e decine di cadaveri, da scaricare poi in mare”. Una trentina d'anni più tardi, nella Florida meridionale, un altro violentissimo uragano fece altre vittime e devastazioni: in particolare, “tre quarti dei deceduti erano braccianti migranti per lo più neri, e le autorità locali reclutarono i superstiti per seppellire i morti in fosse comuni (i bianchi ebbero il privilegio di bare di pino), e a chi si rifiutava veniva negato il cibo, spesso sostituito da pallottole”.

Oggi, il business s'è modernizzato: dalle piccole ditte a conduzione familiare specializzate nella riparazione di tetti agli autentici giganti del cosiddetto restoration business, come il Belfor USA Group, il Back to New, il Signal, il PuroClean, o il Servpro, che conta ormai millenovecento filiali fra USA e Canada – tutte ditte che operano in base al tanto celebrato “just in time”, con la promessa di spedire manodopera sul luogo di crisi entro pochi giorni, se non addirittura entro poche ore: non a caso, lo slogan del Servpro è “Faster To Any Size Disaster”, “Più rapidi sul luogo del disastro di qualunque proporzione”... Naturalmente, con tutto il meccanismo ben noto di appalti, subappalti e sub-subappalti, esattamente come nella logistica o nella cantieristica.

Come sempre, in parallelo, le condizioni di vita e di lavoro sono peggiorate: uomini e donne lasciati senza alcuna protezione contro il Covid, costretti a operare per ore e ore in ambienti malsani e a dormire in locali affollati, spesso in due per letto, o in tende sotto un albero, privi di qualunque copertura sanitaria e assistenziale, pagati una miseria o non pagati alla fine del lavoro e sottoposti al ricatto quotidiano della denuncia alle autorità in caso di condizione irregolare o mancanza di documenti, minacciati di deportazione e sottoposti ad abusi di ogni genere (compresi quelli sessuali), in continuo movimento per seguire il “circuito degli uragani o degli incendi”, questi “nomadi dei disastri” sono il vero emblema del “lavoro che nobilita l’uomo e la donna” in regime capitalista.

 

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