Quella che tutti i mezzi di comunicazione hanno chiamato la “nuova strategia di Bush” (l’invio di nuovi soldati in Irak) e i contemporanei bombardamenti americani di villaggi somali sono in realtà l’estensione di una strategia necessaria nell’attuale scontro interimperialistico – si allarga cioè il fronte della guerra che prepara la guerra mondiale. Tutti i principali paesi imperialisti vi sono coinvolti: l’imperialismo dominante (quello USA), esattamente come i suoi concorrenti (europei e non), non ancora in grado di tenervi testa apertamente e militarmente, ma spinti a intervenire per una questione di vita o di morte. I conflitti sono ancora “di area”: toccano i paesi produttori di materie prime, seguono le grandi rotte del loro scorrimento, si propongono di controllare o ridisegnare aree strategiche – come nel caso del Medio Oriente e del Corno d’Africa. Ma la progressione verso un conflitto mondiale è, per il capitale, irresistibile.
Torneremo ancora, in futuro, sull’analisi di questi conflitti “locali”, mostrandone il significato generale, le dinamiche complesse. Intanto, però, rinfreschiamoci le idee sul tema “capitalismo è guerra”.

La guerra, per il capitale, è lo sbocco obbligato della crisi economica


Nella visione marxista, non è soltanto vero che in epoca capitalistica le guerre sono un prodotto necessario e ineluttabile del modo di produzione vigente, e solo la rivoluzione proletaria può impedirne lo scoppio o interromperne violentemente il decorso.

E’ anche vero che, in determinati periodi – periodi cioè di crisi del meccanismo di accumulazione del capitale – essa è il rimedio estremo al quale la borghesia non può non ricorrere, per salvaguardare il proprio dominio attraverso la distruzione in massa di capitali, merci e forze-lavoro: di uomini, insomma, e di prodotti delle loro mani.

Ciò non significa che la borghesia entri in guerra in base a calcoli ben ponderati o a libere decisioni dei propri organi legislativi o esecutivi: è l’esistenza stessa del capitalismo, sono le sue esigenze di vita, a mettere in moto il meccanismo del conflitto – a cominciare dai preliminari di quella che sarà poi formalmente la dichiarazione di guerra, fino alla sua attuazione pratica, materiale e ideologica.

La guerra non scoppia né “per caso” né “per volontà” di singoli o di gruppi: è lo sbocco ultimo di una situazione oggettiva maturatasi in tutta una varietà di settori, ed esplosa nel punto di rottura verificatosi nei rapporti di forza fra le economie dei paesi candidati al ruolo di belligeranti.

Scopo primo del capitale, una volta investito, è di riprodursi con un profitto. E’ quindi l’accumulazione che domina l’intero ciclo di funzionamento del capitalismo, imponendo di allargare oltre ogni limite la produzione e le conseguenti aree di smercio. E’ la concorrenza, in ogni fase del processo di accumulazione, a selezionare e mettere in urto prima i capitali individuali (o, detto alla spiccia, i capitalisti singoli), poi – man mano che le esigenze dell’accumulazione si fanno più serrate – le società per azioni, i trust, le multinazionali: insomma, le imprese tendenzialmente o effettivamente monopolistiche, i cui interessi, in genere, superano sì i confini nazionali, ma che nello Stato nazionale trovano insieme la loro espressione politica e il garante dei loro interessi, la grande macchina di forza organizzata in loro difesa.

Ora, mentre – sotto il profilo tecnico – il processo produttivo cresce senza soste né limitazioni, traendo impulso dallo stesso carattere vulcanico della produzione di merci, tende invece a ridursi la possibilità di collocare i prodotti alle condizioni di “redditibilità” indispensabili perché, nelle condizioni date, il processo di accumulazione non si interrompa1: al “vulcano della produzione” tende a contrapporsi la “palude” di un mercato che, invece di allargarsi, ristagna. Ecco allora esplodere in seno all’economia capitalistica la più violenta delle sue contraddizioni – ecco la crisi del sistema imporre il ricorso a soluzioni estreme sul piano della forza.

Nei Paesi industrialmente più avanzati, nei Paesi di più “vecchio” capitalismo, la classe imprenditrice incontra seri limiti all’investimento del capitale accumulato o nella mancanza (o insufficienza) di materie prime di origine locale o di manodopera indigena, o di mercati di acquisto delle merci prodotte.

Ora, l’approvvigionamento in materie prime non locali, l’ingaggio di manodopera straniera, la conquista di mercati esteri, sono oggi processi che, lungi dal poter essere condotti soddisfacentemente a termine con mezzi puramente economici o col mero gioco della concorrenza, implicano lo sforzo costante di regolare e controllare i prezzi di vendita e di acquisto, e i privilegi via via ottenuti, attraverso provvedimenti di stato o convenzioni interstatali.

L’espansionismo economico tende così a trasformarsi da concorrenziale in monopolistico, e trova la sua più tipica espressione, appoggiata – ove occorra – da potenti mezzi militari, nella sua forma finanziaria. Si tratti di controllare i grandi giacimenti minerari, o le masse da proletarizzare, o i mercati di sbocco in grado di assorbire i prodotti dell’industrialismo capitalista, è la forza a decidere l’esito della corsa all’accaparramento, al controllo o al dominio diretto di settori sempre più vasti dell’economia mondiale. Manifestazione globale degli urti e delle crisi che ne derivano è l’imperialismo, che sul piano economico si manifesta nel processo di accentramento il cui punto di approdo è l’organizzazione monopolistica della produzione e degli scambi.

Attraverso il capitale finanziario, le potenze di America, Giappone, Germania ed altri paesi europei ed extraeuropei (Cina) manovrano oggi incontrastati lo scenario economico mondiale, pronte a gettarsi in questa o quell’avventura (gli esempi non mancano certo, anche solo restando nell’ultimo quindicennio), a stringere questa o quella forma di alleanza, o, viceversa, a minacciarsi e infine aggredirsi l’un l’altra, pur di reagire alla caduta tendenziale(e, in periodo di crisi, attuale) del saggio medio di profitto.

Ma a ciò si giunge solo assicurandosi e sforzandosi di mantenere posizioni di orza contro i concorrenti su scala nazionale e internazionale, e, quando entrano in collisione due o più imperialismi dagli interessi vitali inconciliabili, ecco mettersi necessariamente in moto quel meccanismo tipico del capitalismo, e per esso inevitabile, che è il conflitto armato. E questo non ha soltanto per obiettivo il superamento almeno temporaneo della crisi a spese dell’avversario, e grazie alla conquista di posizioni più vantaggiose nello sfruttamento delle risorse e del lavoro del o dei Paesi sconfitti, ma anche ( e soprattutto) il rilancio del ciclo di accumulazione del capitale attraverso la distruzione su vasta scala di merci e forze-lavoro e la successiva orgia di ricostruzione – obiettivo comune ( questo è il punto nodale) di amici e nemici, belligeranti e non belligeranti, vincitori e vinti.

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Tutti questi problemi sono ormai acquisiti alla coscienza dei marxisti rivoluzionari, e la loro soluzione li distingue con assoluta chiarezza da tutte le forze politiche e sociali che ritengono possibile e, quel che più conta, efficace una lotta dell’umanità contro il regime e la logica del monopolio, per una giusta ripartizione delle risorse tra gli Stati e una loro pacifica coesistenza nel segno della giustizia, se non addirittura della fratellanza.

Per il marxismo non v’è terapia, non v’è intervento clinico che valga, entro il modo di produzione capitalistico, a circoscrivere e infine eliminare il bubbone degli scontri interimperialistici. Noi non possiamo essere pacifisti o “antiguerristi”: esserlo significherebbe ammettere la possibilità di eliminare la guerra prima dell’eliminazione del capitalismo che la alimenta e la rende necessaria – significherebbe, per ciò stesso, asservire ulteriormente le masse proletarie al capitale (quindi alla guerra stessa) deviandole dal loro compito storico di classe. Tutta la campagna propagandistica per la salvaguardia della pace e contro “provocatori” ai quali risalirebbe la responsabilità prima dei conflitti armati (“aggressori”, “terroristi”, “stati canaglia”, “imperi del male”, ecc., nella squallida retorica dell’ideologia borghese contemporanea) non solo non ha per noi alcun serio contenuto, ma va in controsenso alle finalità ultime della lotta per l’emancipazione del proletariato e, con esso, dell’intera umanità.

Ai proletari non si pone il problema di schierarsi su un fronte di guerra piuttosto che su un altro, in difesa, di volta in volta, di postulati che vanno dalla libertà individuale alla democrazia politica, dall’eguaglianza fra gli uomini al “socialismo in un solo paese” e alla sua difesa, dai diritti dell’uomo e del cittadino fino alla salvaguardia del “diritto delle genti”, e che convergono tutti nello sforzo di tenere in vita un modo di produzione e una società che grondano sangue da tutti i pori.

Il circolo vizioso delle crisi e delle guerre, che forma la sostanza stessa del processo di sviluppo del capitalismo, dev’essere spezzato: e spezzarlo può solo la rivoluzione comunista.
Riconoscerlo è il presupposto perfino della difesa delle condizioni immediate di vita e di lavoro dei proletari, perché è attraverso l’interclassismo inseparabile da ogni pacifismo e la solidarietà nazionale propagandata dal difesismo borghese che s’infrange l’unità della classe nella sua lotta contro il capitale.

Ma questa lotta non può essere circoscritta ai confini di un paese: o è internazionale o perde il suo significato, il suo valore, la sua forza. Sua condizione prima è la rinascita dell’organizzazione classista del partito, poggiante sul disfattismo rivoluzionario nei confronti della borghesia, tanto nelle lotte di difesa possibili oggi quanto nelle lotte di attacco che si riproporranno domani, verso l’obiettivo finale dell’abbattimento dell’ordine capitalistico e l’instaurazione del comunismo.

 

NOTE:

1. “ Periodicamente si producono troppi mezzi di lavoro e mezzi di sussistenza per farli funzionare come mezzi di sfruttamento dei lavoratori a un saggio di profitto dato; si producono troppe merci per poter realizzare nelle condizioni di distribuzione e nei rapporti di consumo dati dalla produzione capitalistica il valore in esse contenuto e il plusvalore ivi racchiuso, e riconvertibili in nuovo capitale, cioè per poter compiere questo processo senza esplosioni perennemente ricorrenti. Non è che si produca troppa ricchezza [in assoluto]; è che si produce periodicamente troppa ricchezza nella sua contraddittoria forma capitalistica”. (Marx, Il capitale, Libro III, Sez. III, cap. XV. “Sviluppo delle contraddizioni della legge [della caduta tendenziale del saggio di profitto]”).
 
 
Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°01 - 2007)
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