(Avanti!» del 12 giugno 1914)

 

Segue il testo del ben noto articolo mussoliniano Tregua d'armi che, come abbiamo riferito nella precedente storia, comparve nell’«Avanti!» del 12 giugno 1914, al chiudersi della famosa «settimana rossa».

Al lettore é stato già dato il quadro della situazione che sta a cavallo tra il congresso di Ancona e la prima grande guerra, e già dati i nostri giudizi, necessariamente severi, che valgono ad illustrare la strana evolu­zione dell’uomo Mussolini nei secondari limiti in cui le vicende di una per­sona anche notissima interessano la ricostruzione marxista dell’andamento dei moti collettivi.

 

Ricordate? L'anno scorso - di questi giorni - conchiudendosi lo scio­pero generale milanese di protesta contro la iniqua sentenza del giudice Allara, noi scrivemmo che quello non era che il preludio di una più va­sta e possente sinfonia futura. Ad un anno di distanza il vaticinio si è rea­lizzato. Lo sciopero generale si è svolto da lunedì a ieri sera e ha para­lizzato quasi completamente la vita sociale italiana - qualora ferrovieri e marinai e operai dello Stato si fossero uniti al movimento la paralisi sarebbe stata assoluta. Lo sciopero generale di protesta contro l’eccidio di Ancona più che il preludio è stato «un momento» della sinfonia. Si comprende assai bene lo sbigottimento da cui sembra percossa l’opinione pubblica; si capisce la preoccupazione delle sfere dirigenti dinanzi ad una così fulminea esplosione dello sdegno proletario; ci si spiega anche l’atteggiamento incerto, anodino, ambiguo di certa democrazia e di certo riformismo salmodiante, fastidioso e monotono, le formule viete della collaborazione di classe, quando invece risorgono nell’animo proletario istinti battaglieri e aggressivi.

Che risveglio triste, per le classi dominanti italiane! Esse credevano o si illudevano di credere che la guerra libica avesse creato una «unanimi­tà nazionale» all’estero e all’interno. Non più classi e lotte di classi si diceva - e non più scioperi generali. Non c'è che una realtà: la Nazione, e in essa si annullano le classi e i loro antagonismi; i partiti e le loro ideologie. La guerra libica doveva segnare la fine del socialismo italiano. Questo si sperava, anche se non si diceva apertamente, ma giammai speranza più folle fu seguita da delusione più amara. Noi ricordiamo che all’indomani dello sciopero di Milano del giugno 1913, un giornale torinese, la Gazzetta del Popolo, avvertiva che qualcosa di nuovo stava fermentando e maturando fra le moltitudini popolari e che l'emigrazione, la disoccupa­zione, il disagio economico acutizzato dalla guerra avrebbero potuto con­durre a violenti moti di piazza. Né s'ingannava. Lo sciopero generale che si è chiuso ieri sera è stato dal '70 ad oggi il moto di popolo più grave che abbia scosso la terza Italia. C'è stato - a paragone del '98 - un nu­mero minore di morti, ma lo sciopero odierno supera in ampiezza e pro­fondità le rivolte del maggio tragico. Il proletariato esiste ancora, dentro e contro la Nazione dei nazionalisti, e il Partito socialista è di esso prole­tariato l'espressione politica unica e dominante. Alla parola d'ordine lan­ciata dalla Direzione del Partito Socialista, un milione almeno di prole­tari - la cifra è certo della metà o di un terzo inferiore al vero - sono scesi ad occupare le strade e le piazze. Due elementi essenziali distinguono il recente sciopero generale da tutti i precedenti: l'estensione e la inten­sità. Lo sciopero è stato effettuato da un capo all’altro d’Italia: nelle grandi città e nelle piccole borgate; nei centri industriali e nelle piaghe agricole dove contadini e braccianti si sono stretti nel loro baluardi di classe; vi hanno partecipato tutte le categorie di operai: servizi pubblici non esclusi.

Ma ciò che conferisce una esemplare significazione al movimento è la sua intensità. Non è stato uno sciopero di difesa, ma di offesa. Lo sciopero ha avuto un carattere aggressivo. Le folle che un tempo non osavano nem­meno venire a contatto con la forza pubblica, stavolta hanno saputo resi­stere e battersi con un impeto non sperato. Qua e là, la moltitudine scio­perante si è raccolta attorno alle barricate che i rimasticatori di una fra­se di Engels avevano, con una fretta che tradiva preoccupazioni oblique, se non la paura, relegato fra i cimeli delle romanticherie quarantottesche. Qua e là - sempre a denotare le tendenze del movimento - si sono assaltati i negozi degli armaioli; qua e là hanno fiammeggiato gli incendi e non già delle gabelle come nelle prime rivolte del Mezzogiorno; qua e là si sono invase le chiese e - sopratutto - un grido è stato lanciato, segui­to da un tentativo: il grido di: al Quirinale! che dà di per sé solo uno stra­no rilievo agli avvenimenti. Una sola pagina grigia in queste giornate di fuoco e di sangue l'ha voluta scrivere la Confederazione Generale del La­voro, decretando inopinatamente e arbitrariamente all’insaputa della Dire­zione del Partito la cessazione dello sciopero allo scoccare delle sacramen­tali quarantotto ore. Noi abbiamo definito un atto di «fellonia» tale deci­sione, e manteniamo il nostro giudizio riservandoci di ritornare prossimamente sulla questione. Altra pagina grigia è quella dei ferrovieri che si sono accorti dello sciopero dopo tre giorni, e se ne sono accorti per.... non scioperare. Anche su questo poco simpatico episodio converrà ritornare. Ma tutto ciò non turba, nelle sue linee grandiose, la bellezza del movimento.

Noi lo constatiamo con un po' di quella gioia legittima con la quale l’artefice contempla la sua creazione. Se il proletariato d'Italia - oggi - va formandosi una nuova psicologia; se il proletariato d'Italia - oggi – si presenta sulla scena politica con una nuova individualità più libera e insofferente; se un movimento - come l'odierno - è stato possibile con quel­la rapidità e simultaneità che hanno atterrito l'opinione pubblica borghese, lo si deve - non è peccato d'orgoglio l'affermarlo - a questo nostro giornale, che quotidianamente reca la sua parola agli sfruttati d'Italia, e all’opera complessa di tutto il Partito socialista. Ah, sì, lo sappiamo bene che ci sono altri coefficienti che rendono possibili tali esplosioni, ma sarebbe as­surdo eliminare dal numero dei coefficienti la nostra predicazione e la no­stra azione. Noi rivendichiamo apertamente la nostra parte di responsabi­lità negli avvenimenti e nella situazione politica che si va delineando. Noi comprendiamo dinanzi a una situazione che diventerà sempre più difficile le pene e i tremori del riformismo e della democrazia. L'ipocrisia dell’uno e dell’altra ci fanno pietà. Riformisti e democratici dovevano votare contro la mozione Calda e dovevano sentire il pudore di stringersi attorno a Sa­landra. Se radicali e riformisti credono di cattivarsi le nostre simpatie con la loro insincerità, s'ingannano. Se credono di disarmarci con la loro auspi­cata concentrazione delle sinistre, sbagliano di grosso. Se credono subdolamente di riabilitare la politica giolittiana, scoprono il loro piccolo gioco. L'on. Salandra, liberale-conservatore, e l'on. Sacchi che gli vota contro si equivalgono, per noi, perfettamente. Una politica di realizzazioni riformiste quale viene sognata dai nuovi e vecchi postulanti al potere - sarebbe im­potente, anche ammettendo che si svolgesse in condizioni favorevoli ad attenuare gli antagonismi di classe perché nostra funzione e nostro scopo è appunto quello di accelerare fino al possibile il ritmo di questi antagonismi, di esasperarli, sino a che l’antitesi fondamentale della società borghese si risolva, attraverso l’atto fatalmente rivoluzionario nella sintesi liberatrice del socialismo. Se, puta caso, invece dell’on. Salandra ci fosse stato l'on. Bissolati alla Presidenza del Consiglio noi avremmo cercato che lo sciopero generale di protesta fosse ancor più violento e decisamente insurrezionale. La nostra posizione è dunque chiara e la nostra logica im­placabile. Da ieri sera è cominciato un altro periodo di tregua sociale. Breve o lungo non sappiamo. Ne profitteremo per continuare nella nostra mul­tiforme attività socialista, per consolidare i nostri organismi politici, per reclutare nuovi operai nelle organizzazioni economiche, per raggiungere al­tre posizioni nei Comuni e nelle province, per preparare insomma un nu­mero sempre maggiore di condizioni morali e materiali favorevoli al no­stro movimento; cosicché quando batterà nuovamente la diana rossa, il pro­letariato si ritrovi sveglio, pronto e deciso al più grande sacrificio e alla più grande e decisiva battaglia.

Alle vittime che sono cadute in questi giorni nelle piazze d'Italia, ai pro­letari che sono scesi in campo per attestare la loro solidarietà coi caduti ed a gridare la loro protesta contro gli assassini, noi inviamo - da queste colonne - il nostro fraterno saluto augurale al grido: W il socialismo! W la rivoluzione sociale!

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