Premessa

Per quanto vasto sia stato il territorio occupato dagli arabi, questi non sono riusciti a formare un’unica grande nazione, dividendosi in una moltitudine di Stati sotto la pressione di fattori storico-economici diversi. Nel Nord Africa, le vicende storiche che, a partire dalla metà del XIII secolo, hanno condotto alla frammentazione politica della regione, proseguita in qualche modo anche sotto l’Impero Ottomano [1], hanno avuto come risultato la formazione di nuclei di entità economico-politiche con mercati interni tendenzialmente separati: su questa base, rafforzatasi sotto il dominio delle potenze coloniali grazie alla divisione internazionale del lavoro da esse imposta, si sono poi formati gli odierni stati del Nord Africa, con l’ulteriore “contributo” degli interventi dell’imperialismo. Dato questo punto di partenza, un’unificazione della regione (e dei popoli arabi in generale) in tempi relativamente recenti sarebbe stata possibile, come vedremo meglio in seguito, solo nell’ambito di una rivoluzione borghese “dal basso” che avesse spazzato via tutti i residui feudali; oppure, manu militari, con l’intervento autoritario di uno stato nettamente più forte degli altri. Nessuna delle due condizioni si è storicamente verificata. Quello che invece il processo storico degli ultimi settant’anni ha messo in evidenza in Nord Africa è la lentezza dello sviluppo capitalistico dei singoli paesi: all’interno degli Stati presenti sulla scena, sono rimaste a lungo in vita strutture economiche e sociali preborghesi, quando non addirittura prefeudali.

Sebbene in alcune zone (come in Egitto) sia iniziata, già alla fine del secondo conflitto mondiale, un’accelerazione dell’evoluzione in senso borghese, assecondata dai processi capitalistici importati dall’esterno, e siano crollate teste coronate legate ai vecchi rapporti di produzione ad opera di giovani colonnelli rappresentanti delle nuove classi borghesi in ascesa, la trasformazione ha lasciato in piedi vecchi ruderi: etnie, gruppi tribali o gruppi religiosi. I giovani rampolli dell’esercito venuti alla ribalta, con le loro rivolte di palazzo e le loro dittature, non hanno smantellato le vecchie strutture proprietarie, né hanno sferrato alcun colpo decisivo alle vecchie oligarchie fondiarie, ma hanno mantenuto in vita larga parte dei vecchi residui reazionari, in strutture politiche d’altronde perfettamente corrispondenti a classi dominanti che basavano ancora la propria posizione soprattutto sull’appropriazione della rendita anziché del plusvalore.

Deboli stati borghesi, nati in ritardo, i cui confini sono stati spesso disegnati, almeno in parte, dalle potenze imperialistiche, hanno portato innanzi lentamente il corso dello sviluppo capitalistico, gestendo di volta in volta con questo o quel paese imperialista (e subendone la direzione) la stabilità dei processi di sfruttamento delle risorse petrolifere e il relativo flusso di rendite.

Impotenza del “panarabismo”

Il “panarabismo” come ideologia apparentemente unificante (una lingua, una cultura, una storia, una religione) ebbe in realtà, nell’ambito dei moti anticoloniali, un ruolo funzionale al gioco dei singoli Stati, e quel che ne rimane oggi testimonia, al più, la necessità di proiezione esterna delle borghesie arabe. All’epoca, una reale unificazione degli arabi sarebbe stata d’altronde impossibile anche per la presenza nell’area, a vario titolo, dell’intero novero delle potenze imperialistiche, ognuna impegnata a perseguire i propri interessi.

Scrivevamo al riguardo nel 1957: “Così come stanno le cose nel Medio Oriente, l'unificazione araba resta un'utopia irraggiungibile, finché è affidata – come lo è ora – alla politica degli Stati. La contraddizione insolubile della demagogia panarabista consiste nel propugnare l'unità nazionale degli arabi dell'Egitto, dell'Arabia Saudita, della Giordania, dell'Iraq, della Siria, dei diversi principati del Golfo Persico e del Mar Rosso, ma nel pretendere di raggiungerla attraverso intese interstatali, mentre è chiaro che una ‘nazione araba’, costituita in Stato unitario è concepibile solo attraverso la demolizione delle impalcature statali esistenti e la fondazione di una nuova struttura politica di tipo moderno. Caratteristica fondamentale della rivoluzione borghese è infatti il superamento del particolarismo statale proprio del feudalesimo. Ora, nella parte centrale e orientale dell'Asia – come in India e in Cina – a differenza di quanto accade in quella che gli europei conoscono sotto la denominazione impropria di Medio Oriente, il processo di centralizzazione del potere politico è in una fase molto avanzata; nel ‘mondo arabo’, invece, ad onta dell'unità etnica e linguistica, la centralizzazione del potere politico è tuttora lontana dall'essere una realtà”.

E così continuavamo:“L'unificazione araba, di cui si riempiono la bocca gli agitatori ossequienti al governo del Cairo, se ed in quanto resti affidata ai governi costituiti, sarebbe realizzabile ad una sola condizione, e cioè che sorgesse un... moderno Gengis Khan o un Tamerlano di razza araba capace di schiacciare con la forza delle armi le resistenze particolaristiche al panarabismo. Ma ciò presupporrebbe l'esistenza di un potenziale economico e quindi militare che […] non esiste, né può obiettivamente sorgere.[…] L'organizzazione della ‘Nazione araba’ in uno Stato unitario stendentesi dall'Iraq al Marocco, è certo – nel quadro borghese – una aspirazione rivoluzionaria. Ma il progresso industriale e la scomposizione delle compagini sociali preborghesi nelle classi che caratterizzano la società borghese (l'unificazione araba non potrebbe andare oltre tale traguardo, in assenza della rivoluzione comunista del proletariato nei paesi di compiuto capitalismo) sono fatti rivoluzionari allorché si muovono nella cornice di vecchie strutture semifeudali; mentre l'ideologia e la politica del panarabismo di tipo nasseriano, checché ciancino i partiti affiliati al Cremlino, lungi dall'essere rivoluzionarie, rientrano nel novero delle utopie conservatrici. Lo dica o no, il panarabismo alla Nasser sogna di procurare agli arabi d'Africa e d'Asia quanto la Confederazione nordamericana ha procurato agli americani, l'Unione Sovietica ai russi, l'Unione Indiana agli indiani; ma non comprende, per ragioni di classe, che all'origine di tali organismi statali agirono grandiose rivoluzioni, che introdussero, o stanno introducendo, nuovi modi di produzione e nuove forme di organizzazione sociale. Ora i panarabisti arrabbiati del Cairo e di Damasco, che sognano un'edizione moderna del Califfato, sono rivoluzionari finché gli obiettivi del loro odio sono situati fuori dei rispettivi confini; non lo sono più appena trattano le faccende di casa loro”.

E così concludevamo: “L'unificazione politica del mondo arabo è possibile alla sola condizione di marciare insieme con un movimento di unificazione economica e sociale, che non può essere se non un movimento rivoluzionario. Soltanto una rivoluzione che scuota le arcaiche strutture feudali, o addirittura pre-feudali […] può segnare l'avvio alla cancellazione delle divisioni che rendono impotente la «nazione araba». Si pensi alla formidabile forza di inerzia che oppongono società come quelle vigenti in Arabia Saudita o nello Yemen o nei principati arabi del Golfo Persico, ‘pietrificate’ in antichissime strutture sociali. Si pensi, invece, alla straordinaria evoluzione politica e sociale di uno Stato non arabo del Medio Oriente, lo Stato d'Israele, dove è in atto una vera forma di ‘trapianto’ dell'industrialismo moderno. Ma i panarabisti alla Nasser pretendono di cogliere i frutti della rivoluzione, sforzandosi di distruggerne perfino il seme rivoluzionario. Nessuno ignora che il Napoleone d'Egitto usa il pugno di ferro e il carcere duro per chiunque attenti, o sembri attentare, alla stabilità sociale interna dell'Egitto.

“Per concludere: due modi di unificazione del mondo arabo sono pensabili in sede teorica: la conquista militare da parte di uno Stato egemonico che cancelli le partizioni statali imperanti nei territori abitati da gente di razza e di lingua araba e una rivoluzione delle classi inferiori che, distruggendo l'ordine costituito, getti le premesse della fondazione di uno Stato unitario.

“La prima alternativa è inficiata dall'assenza di uno Stato arabo militarmente forte e politicamente influente, capace di svolgere le stesse funzioni che, in altre condizioni storiche, svolsero la Prussia per la Germania e il Piemonte per l'Italia. D'altra parte, l'esistenza dei grandi blocchi imperialistici facenti capo agli Stati Uniti e alla Russia lascia agevolmente prevedere che ogni guerra inter-araba si tramuterebbe, per l'adesione diretta o indiretta, palese o sottaciuta, di taluni paesi ad un blocco e di talaltri al blocco rivale, in una guerra coinvolgente Stati non arabi. […] La questione dell'unificazione araba è infatti inestricabilmente legata alla lotta mondiale per l'accaparramento delle fonti del petrolio e delle basi militari. L'imperialismo americano non può porre a repentaglio le posizioni di forza di cui gode, esso che è in grado di trattare con gli Stati arabi presi ciascuno isolatamente, se non addirittura in concorrenza con gli altri. […] finché ci sarà la schiacciante potenza militare degli Stati Uniti a vegliare sulla conservazione di un assetto politico caratterizzato dalla divisione degli arabi in diversi Stati sovrani, ciascuno geloso della propria indipendenza e dei privilegi economici goduti per i suoi rapporti con l'imperialismo straniero; finché ogni tentativo di unificazione politica si urterà, come la progettata federazione tra Egitto, Giordania e Siria, contro l'indomabile resistenza dell'imperialismo americano, il movimento panarabista resterà nelle condizioni d'impotenza velleitaria che osserviamo oggi.

“Manca finora, d'altra parte, la seconda prospettiva: quella di una rivoluzione sociale. Il movimento nasserista, ad onta dell'accesa demagogia dei suoi capi, non può definirsi in nessun caso un movimento rivoluzionario di massa. Esso non si è accompagnato ad alcun rivolgimento sociale, limitandosi ad innestare nella stessa struttura sociale su cui poggiava la monarchia un regime politico che differisce da quello soppiantato solo (e anche su questo ci sarebbero molte riserve da fare) negli orientamenti di politica estera, a loro volta resi possibili unicamente dall'urgere di nuovi rapporti di forza tra le grandi potenze mondiali. In altre parole, non è stata una spinta rivoluzionaria delle masse egiziane ad imporre la ‘nuova politica estera’ che Nasser ha seguito a cominciare dal giorno della nazionalizzazione del Canale di Suez. Il colonnello Nasser e i suoi seguaci, ai quali fa eco la stampa russo-comunista, spacciano l'espropriazione degli azionisti del Canale come un aspetto della loro pretesa rivoluzione sociale. In realtà, questa non ha neppure sfiorato gli strati profondi della società egiziana, che continuano a vivere nelle maglie di ferro di rapporti produttivi arretratissimi, e non ha nemmeno espresso la prepotente volontà di ascesa di una borghesia degna di questo nome. Solo la rivoluzione sociale – quando ne saranno maturate le premesse – potrà, demolendo vecchie strutture, sopprimere la fungaia di Stati, grossi e piccoli, che da esse traggono vita. È a tale via che i panarabisti del Cairo e di Damasco voltano le spalle, affidando le loro fortune politiche agli intrighi tra Stato e Stato, ma è lecito prevedere che future condizioni storiche, determinate dalla ripresa della lotta rivoluzionaria del proletariato nei paesi capitalistici, costringendo l'imperialismo sulla difensiva, permetteranno anche agli arabi di liberarsi dalla soggezione all'imperialismo da un lato e dalle sopravvivenze del particolarismo feudale dall'altro[2].

Realtà della “riforma agraria”

Da un’altra prospettiva, possiamo aggiungere che, in seguito alle “mezze rivoluzioni”, nessuna delle riforme agrarie tanto esaltate ha prodotto un’agricoltura moderna, ma un’agricoltura relativamente moderna è nata, soprattutto in alcune zone dell’Egitto, sulla scorta della monocultura imposta dalle grandi potenze economiche. Per quanto riguarda la gestione del territorio nell’ottica dello sfruttamento agricolo, oggi prevale l’incapacità, tipica del capitalismo, di strappare, attraverso l’irrigazione, ampie zone al deserto per destinarle all’agricoltura: lo stesso progetto Toshka, che per il 2020 dovrebbe irrigare in Egitto 2340 kmq di deserto, appare ampiamente sottodimensionato rispetto alle esigenze alimentari del più popoloso Stato del Nord Africa. Ma non tutte le formazioni economico-sociali condannano intrinsecamente l’agricoltura alla decadenza e l’uomo alla fame, come spiegava con chiarezza Marx in un articolo del 1853: “Il clima e le condizioni del suolo, specialmente la grande fascia di deserti che dal Sahara, attraverso l'Arabia, la Persia, l'India e la Tartaria, si estende fino ai più elevati altipiani dell'Asia, fecero dell'irrigazione artificiale mediante canali ed altre opere idrauliche la base dell'agricoltura in Oriente. Come in Egitto e in India, così nella Mesopotamia, in Persia ecc. le inondazioni sono utilizzate per fecondare il suolo; si sfruttano le piene per alimentare i canali d'irrigazione. […] La fertilizzazione del suolo, che dipende da un governo centrale e decade non appena l'irrigazione e il drenaggio vengono trascurati, spiega il fatto altrimenti incomprensibile che intere plaghe un tempo brillantemente coltivate, come Palmira, Petra, le rovine dello Yemen, e vaste zone dell'Egitto, della Persia e dell'Indostan, si ritrovino oggi aride e desertiche; spiega altresì come una sola guerra di devastazione abbia potuto, per interi secoli, spopolare un paese e privarlo di tutta la sua civiltà[3].

Così, scrivevamo ancora, nel 1977: “L'Egitto si estende per un milione di kmq, molti dei quali un tempo coltivati e ora desertici. La tecnica moderna potrebbe ripetere, migliorati e moltiplicati, i successi ottenuti dai faraoni; a Deir El Bahari, oggi paesaggio calcinato dal sole, le spettacolari scenografie erano immerse nel verde dei giardini pensili: se non si può fare altrettanto coi mezzi d'oggi, vuol dire che il difetto sta nel sistema sociale, che l'Egitto vive ora con un tipo di società incapace di svilupparsi diversamente.[…] Non tutto il deserto è sterile. Vi sono ampie zone costituite da antichi depositi di limo o di polvere organica cui basterebbe apportare l'acqua per ottenere fertili terreni. L'eccezionale fertilità del suolo ha una sua spiegazione peculiare che dimostra il nostro assunto: il limo da solo non influisce molto sulla fertilizzazione; il suo contributo è un deposito medio di 1 mm., pari a 10 mc. per ettaro, corrispondenti a 16,6 kg. di prodotti azotati assimilabili. Il processo di rigenerazione del suolo avviene in seguito alla permanenza della terra sott'acqua, per cui, grazie all'azione del sole, si forma una rete fittissima di screpolature profonde che permettono l'aerazione mantenendo l'umidità. Si verifica quindi una reazione chimica più estesa di quanto non permetterebbe lo scasso tradizionale con il vomero; l'ossigeno, l'ozono, l'anidride carbonica e specialmente l'azoto si combinano tramite l'azione fisica dell'argilla porosa e le proprietà comburenti dell'ossido di ferro delle colline di Assuan, trasformandosi in prodotti fertilizzanti naturali. La disponibilità di acqua permette di moltiplicare questo processo per tutto l'anno e infatti i primi sbarramenti portarono all'introduzione delle tre colture annuali. Ora occorre altro terreno, ma fino ad oggi non ne è stato recuperato neanche un terzo del previsto. Non basta il gigantesco bacino: occorrerebbe mobilitare tutte le risorse umane ed economiche non impiegate nell'industria per distribuire l'acqua con migliaia di canali e serbatoi come gli alveoli di un immenso polmone. Ma la borghesia egiziana non ha certo la propensione ad opere rivoluzionarie: procedendo con progetti a concorso, assegnazione di appalti, corruttele immobiliari sui terreni da espropriare, distribuzione di profitti e calcoli di convenienza, gli Egiziani faranno in tempo a tirare ben più la cinghia[4].

Gli Stati del Nord Africa nacquero con una dote di pochissime infrastrutture, impianti industriali e centrali elettriche, con la sola realtà petrolifera aiutata dalla tecnologia straniera a farla da padrona. La riforma agraria, quando vi è stata, non ha mai prodotto il miglioramento delle condizioni di vita delle masse contadine: si è preteso che turbe di contadini nullatenenti, e per di più oberati dal peso del debito contratto con lo Stato per l’acquisto della terra, solo perché formalmente proprietari di un campicello (scrivevamo nel 1952 che la riforma agraria egiziana dava ai fellah – i contadini poveri –  un quadratino di terra appena sufficiente per la fossa”) [5] diventassero anche capitalisti agrari.

I partiti di derivazione stalinista “nazionalizzati” hanno fatto il loro sporco lavoro, appoggiando i vari colonnelli che si presentavano sulla scena e venendo utilizzati direttamente o indirettamente per tenere a freno il giovane proletariato. Nel corso dei tanti rivolgimenti, le lotte proletarie sono state represse nel sangue.

“Mezze rivoluzioni” e modernizzazione

Le “mezze rivoluzioni” furono comunque la via che presero le vecchie oligarchie dominanti, guidando una relativa modernizzazione, per potersi inserire nel gioco imperialistico non più come oggetto, ma come soggetto in qualche modo attivo ed operante, benché in posizione nettamente subalterna rispetto alle metropoli. Queste “rivolte di palazzo” posero le oligarchie arabe in condizione di sfruttare direttamente il proletariato che il gioco del capitale mondiale andava creando anche in quelle aree e di farsi quindi anche compiutamente capitaliste, spesso attraverso l’intervento diretto dello Stato: di incassare quindi non più soltanto la rendita, ma anche fette di plusvalore, prodotto in quantità sì esigue rispetto alle vecchie metropoli, ma comunque assai appetibili per classi dominanti straccione. Prova ne sia il fatto che paesi come Marocco ed Egitto attuano da decenni politiche di potenza nella regione: il primo, con la questione dell’annessione del Sahara Occidentale, ormai compiuta dal 1979 (un’annessione che ha permesso alla borghesia marocchina di arrivare a controllare i due terzi delle riserve mondiali di fosfati); il secondo, con le dispute militari contro Israele e attraverso l’intervento diretto nella questione palestinese come uno tra i principali finanziatori dell’ex OLP. È inoltre molto attiva la presenza egiziana in Sudan: ad esempio, il capitale egiziano spinge per la realizzazione del progetto Aljazera, che prevede la coltivazione di 8000 kmq di suolo sudanese.

Ancora dal nostro articolo del 1977: “Fino al 1956, anno della proclamazione d'indipendenza, il Sudan non è mai stato separato dall'Egitto se non formalmente. Da Zoser, primo unificatore dell'Egitto nel III millenio a.C., al grande Amenophis I, conquistatore di tutto il Medio Oriente nel 1525 a.C, ai Romani, al medioevo islamico, a Muhamed Ali, il Sudan è stato sempre considerato parte integrante di un'unica entità, la valle del Nilo. Le secessioni furono sempre temporanee, le riconquiste portarono sempre prosperità e ricchezza. Il già citato Snofru, fondatore della dinastia costruttrice delle grandi piramidi, riconquistò il Sudan nel 2620 a.C. e fece affluire verso la capitale Memphis grandi quantità di grano e 200.000 capi di bestiame, cifra in confronto alla quale quella dei prigionieri (7000) è poco più che simbolica. Il Sudan ha oggi (1974) 14 milioni di abitanti (39 milioni l'Egitto) 7.134.000 ettari coltivati (2.852.000), 24.000.000 di ettari di prati e pascoli permanenti (nessuno), 91.500.000 ettari di foreste (nessuno), 45 milioni di capi di bestiame (9,5 milioni). Con un'agricoltura molto più arretrata di quella egiziana, esso può, per le sue caratteristiche naturali, offrire un simile confronto di cifre che dimostrano come possa rappresentare il retroterra alimentare per più di un altro paese. Molti paesi africani hanno caratteristiche simili e molti paesi arabi hanno bisogno di prodotti agricoli subito, non potendo aspettare di aver sviluppato tecniche di bonifica del deserto. L'Egitto può, a questo punto, confondere le proprie esigenze con quelle di tutti e porre sullo stesso piano le proprie necessità di espansione con le generali affermazioni di reciproci interessi. La conferenza afro-araba svoltasi al Cairo alla metà di marzo rappresenta il culmine diplomatico di esigenze materiali dei vari convenuti. In cambio di capitali, l'Africa può offrire agli stati arabi materie prime, cibo e, soprattutto, un vasto terreno per lo sfogo alternativo dei petroldollari; l'Egitto approfitta del fatto che ogni singolo stato arabo non possiede le caratteristiche necessarie per assumere in proprio un'operazione di così vasta portata: solo la combinazione della potenza economica petrolifera con la realtà di una struttura industriale e con solide tradizioni militari può esserne la base; ed esso la possiede”.

I punti di svolta nell’ascesa delle borghesie arabe dopo la coalizione anti-israeliana del 1948 furono: il 1954 iraniano di Mossadeq (con la nazionalizzazione dell’industria petrolifera), il 1956 di Nasser (con la nazionalizzazione del Canale di Suez), il 1958 di Kassem (con l’Iraq che diventa una repubblica); e questi appuntamenti furono dominati o dall’intervento esterno delle vecchie potenze Francia e Gran Bretagna (a loro volta messe a tacere dalla nuova grande potenza sulla scena, gli Usa) o da contrasti interni fra i gruppi emergenti o per opposizione degli stessi stati arabi, nonché dal fatto che la borghesia come classe sociale esprimeva la propria debolezza facendosi sostituire dall’esercito, che in genere è invece uno strumento della classe borghese [6]. Gli apparati amministrativi, civili, burocratici che emersero conserveranno molti caratteri del passato; ciò nonostante, gli anni ’50 e ’60, essi costituirono una svolta storica, con avvenimenti che coinvolsero quasi tutte le giovani borghesie arabe.

L’esempio dell’Egitto di Nasser si diffuse rapidamente e infiammò le popolazioni; l’esercito fu l’avanguardia e il gestore del passaggio di fase. Così come era avvenuto per le borghesie europee in ritardo sui tempi storici (Germania e Italia), l’avanguardia cosciente (ma qui il terreno economico e sociale non è paragonabile a quello mediorientale) si trovò tra i quadri dell’esercito, i quali utilizzarono diversi strumenti, alcuni puramente politici altri economici: la rivoluzione democratico-borghese in Medioriente si portava sugli obiettivi staliniani del “socialismo nazionale”, con le nazionalizzazioni dei settori-chiave dell’industria e delle materie prime fondamentali, i piani quinquennali, il monopartitismo e l’isolamento cautelativo della questione religiosa, cui si aggiungeva il panarabismo e l’antimperialismo. Nasser dà l’impronta agli avvenimenti negli altri paesi e sembra assurgere al ruolo di eroe della riscossa araba: le donne acquisiscono il diritto di voto e di partecipazione alla vita politica, vengono promosse l’assistenza sociale e l’istruzione e la stessa università religiosa viene riformata.

Nella prima metà degli anni ’60, la lotta di liberazione nazionale algerina che permise l’indipendenza dell’Algeria contro il colonialismo francese al costo di un milione di morti fu travolgente e impresse ancora nuove speranze alla rivoluzione democratico-borghese. La guerra dei sei giorni del 1967, vinta da Israele contro Egitto, Siria, Giordania, chiuse questo periodo storico. Scrivevamo nel1965:“Grazie all’intervento combinato dei due massimi vincitori della seconda carneficina mondiale, la rivoluzione anticoloniale del Medio Oriente, come del resto altrove, ha registrato effetti rivoluzionari inferiori a quelli che sarebbero stati auspicabili per ragioni storiche generali e per lo sviluppo stesso dei paesi interessati. Una rivoluzione borghese ‘fino in fondo’, all’epoca dell’imperialismo, è ancor più irrealizzabile che in passato, se i nuovi poteri subentrati ai vecchi non nascono sull’onda di grandiosi movimenti di masse sfruttate e non poggiano sulla forza armata delle stesse. Nei paesi mediorientali, molte monarchie feudali si sono quindi trasformate senza grandi scosse in monarchie borghesi e continuano a governare sotto nuove spoglie. Ma anche là dove la monarchia è stata sostituita dalla repubblica, l’avvenimento è piuttosto da considerare il frutto di rivolte militari ristrette che di movimenti politici di massa” [7]. Nel nostro testo I fattori di razza e nazione nella teoria marxista (1953), si legge: “Vi è una coincidenza storica tra il formarsi di tale classe (quella operaia) in masse notevoli e il grande sforzo della borghesia per assumere il potere politico e costituirsi in nazioni. Le masse proletarie dopo una prima caotica fase di reazione al macchinismo in senso feudale-medievale, trovano la loro via al seguito della borghesia rivoluzionaria, ed è alla scala nazionale che il proletariato trova una unione di classe, non ancora un’autonomia di classe”.

Ci domandiamo dunque: una borghesia parassitaria, nazioni che sono embrioni, stati in parte tracciati artificialmente, potevano avviare un processo unitario nella classe operaia?

Proprio le violente rivolte del 2011 e il loro nascere come reazione proletaria alle durissime condizioni di vita – aggravate dall’aumento del prezzo dei generi alimentari – da una parte e la pronta risposta da Stato imperialista dall’altra, con l’utilizzo del classico armamentario borghese fatto di uso della forza combinata con le tipiche manovre di accerchiamento, attuate attraverso i sindacati vassalli e i partiti opportunisti, e con il sacrificio sull’altare del capitale di auguste teste appartenenti a dinastie di potere che avevano per decenni garantito la stabilità politica (manovre che si sono completate con l’incanalamento pressoché totale delle rivolte verso istanze democraticistiche e piccolo-borghesi), hanno dimostrato che la percolazione del capitale internazionale e l’ancor più lento sviluppo endogeno, protrattisi però per un arco di tempo assai lungo, hanno irrobustito sia il proletariato (almeno in termini numerici) che la borghesia e, per conseguenza, anche gli “embrioni nazionali”, le “sottonazioni” nordafricane, che sono ora più corrispondenti allo status di nazioni in senso moderno. Ciò rende possibile, almeno in linea teorica, un futuro processo unitario della classe operaia nell’area.

Nella seconda parte di questo articolo, analizzeremo le conseguenze reali di questa modernizzazione capitalistica e il nesso tra le rivolte del 2011 in Egitto e in Tunisia e il prezzo dei generi alimentari.


[1] Va ricordato che, durante la sua dominazione, il Marocco era uno Stato indipendente, l’Egitto era una provincia dell’impero, Algeria e Tunisia erano Stati vassalli - con un’autonomia però piuttosto vasta - che riconoscevano l’autorità del sultano ottomano, mentre il territorio corrispondente alla Libia conobbe alterne vicende, passando dallo status di provincia ottomana all’indipendenza, per ricadere poi sotto il dominio ottomano.

[2] “La chimera dell’unificazione araba attraverso intese fra gli stati”, il programma comunista, n.10/1957.

[3] K. Marx, “La dominazione britannica in India” (10/6/1853), in K. Marx-F. Engels, India Cina Russia, Milano 2008, pp.69-70.

[4] Cfr. “Egitto. Le lotte delle masse operaie e contadine alla luce dello sviluppo capitalistico”, il programma comunista, nn. 7-8-9/1977.

[5] “Le ‘riforme’ di Naguib”, il programma comunista, n. 2/1952.

[6] La perversa “fantasia” del capitale ha, nei decenni, risolto la questione in Egitto semplicemente rendendo lo stato maggiore dell’esercito parte importante della classe borghese: nelle mani dell’esercito risulta infatti essere una parte cospicua dell’economia nazionale.

[7] “La solita babele del Medio Oriente”, il programma comunista, n.12/1965

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°01 - 2012)

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