DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Dalla Guerra del Golfo alla Guerra in Kossovo, passando attraverso Bosnia e Somalia – tutti “interventi umanitari”, come ben si sa –, il patriottico orgoglio italiano (quell’irresistibile bisogno di trovarsi “seduti a tavola con i potenti” e non più “in piedi dietro le loro sedie”) non ha fatto che gonfiarsi nel petto di politici, osservatori, giornalisti e altri animali di tal specie. “Ci siamo conquistati un posto al sole!”, “Gli Alleati hanno riconosciuto il nostro ruolo di primo piano, la nostra affidabilità, la nostra solidità!”, “Finalmente siamo alla stessa altezza, condividiamo progetti e segreti, gioie e trionfi!”: questo si poteva leggere, più o meno tra le righe, nelle dichiarazioni baldanzose dei mesi di guerra e immediato dopoguerra. La NATO sapeva ora di poter contare sull’Italia: e, reciprocamente, l’Italia poteva gloriarsi della stima e della fiducia guadagnate sul campo.

Passano pochi annetti e il petto si sgonfia, e quanto malamente! Scoppia lo scandalo dell’“uranio impoverito” ed ecco che politici e comandi militari si mettono a belare in coro: “Ma noi non ne sapevamo nulla!”, “Non ce l’hanno mai detto!”. Così, il patriottico orgoglio italiano fa la fine dei rifiuti dopo il pranzo di gala: nella spazzatura, che, anche a casa dei potenti, puzza.

Miseria della politica borghese. E italiana in particolare, perché se c’è una borghesia miserabile per servilismo è, da secoli, proprio quella italiana: scodinzolante al migliore offerente, pronta a tutti i giri di valzer, rapida a voltar gabbana al più piccolo cambiar del vento. Perché fingere di non sapere, di non aver mai saputo, dopo aver affermato con tanta sicumera di essersi conquistati un posto di fiducia a fianco degli alti papaveri dell’Alleanza, può solo voler dire due cose: o che si è degli enormi contaballe o che si è degli enormi coglioni – altre possibilità non ci sono proprio. O meglio: c’è la possibilità che si sia entrambe le cose insieme!...

Noi naturalmente non ci scandalizziamo. Di miseria e cinismo, la politica borghese ci ha dato esempi a bizzeffe lungo l’arco del suo plurisecolare dominio. Il fatto è che, in questo come in tutti i campi, a dominare sono gli affari: cioè le necessità superiori del capitale come forza economica anonima che deve sempre e comunque imporsi, indipendentemente dalle proclamazioni di fede, sincerità, etica e correttezza – parole rese vuote proprio dal loro essere sempre e comunque subordinate a quelle esigenze superiori.

Ma la miseria e il cinismo si manifestano anche in altri modi, in questo “scandalo dell’uranio impoverito”. Muoiono i soldati contaminati, si comincia a parlare delle conseguenze della contaminazione di aree intere sulle popolazioni civili coinvolte: ed ecco l’altro belato di politici, comandi militari, giornalisti (quegli stessi che lodavano l’alto significato morale della “guerra giusta”). “Ma come, abbiamo usato armi che fanno male!?”.

Capite? “Armi che fanno male”! Mentre, con il pretesto di “castigare il cattivo di turno”, si rovesciava una tempesta di fuoco su popolazioni inermi, quel pensiero non traversava nemmeno lontanamente il cervello (?) di simili personaggi. Ora ci vengono a dire che “bisogna smetterla di usare armi che fanno male”! Ohibò, qualcosa non quadra nella logica del discorso! “Armi che non fanno male”? Ma, via, non scherziamo!

Da che capitalismo è capitalismo le guerre hanno un solo fine: distruggere ciò che s’è prodotto in eccesso (esseri umani compresi), cacciare a forza i concorrenti economici da una certa area, dimostrare violentemente chi è il più forte. E le guerre si fanno (qualcuno ci dimostri il contrario) con armi che feriscono, mutilano, uccidono. Pallottole, baionette, bombe, siluri, e poi missili, gas tossici, bombe atomiche, napalm, gas nervino, uranio impoverito… un arsenale potenzialmente infinito e sempre rinnovato (meraviglie della scienza borghese!). Il capitalismo, fondato sull’estrazione di plusvalore, sulla logica ferrea del profitto, sulla competizione esasperata per il mercato, non può fare a meno di guerre: anzi, le suscita di continuo e anche quando ciò non appare (nei periodi di cosiddetta “pace”) non fa che porne le premesse, non fa che prepararle – nell’economia, nella società, nelle caserme, negli arsenali, nei laboratori di ricerca tecnologica e scientifica. Dire “guerra senza armi che fanno male” è come dire “capitalismo senza guerre”: piaccia o meno a benpensanti, moralisti, pacifisti e gente di tal risma (dando per scontato che siano in buona fede…).

Di nuovo, noi non ci scandalizziamo. Ma il nostro odio per il sistema del profitto e della competizione (della distruzione e della disperazione) trae alimento anche da questi esempi di squallida e cinica ipocrisia.

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°01 - 2001)

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